La Democrazia è morta,
fate largo alla Infocrazia

Byung-Chul Han
Infocrazia
Traduzione di Federica Buongiorno

Einaudi, Torino, 2023
pp. 88, € 12,50

Byung-Chul Han
Infocrazia
Traduzione di Federica Buongiorno

Einaudi, Torino, 2023
pp. 88, € 12,50


Byung-Chul Han prosegue il suo discorso critico sulla progressiva dematerializzazione delle nostre vite. Dopo averci spiegato le “non cose” ovvero “come abbiamo smesso di vivere il reale” con Infocrazia analizza l’impatto delle tecnologie digitali sull’agire sociopolitico in un saggio breve ma densissimo. Per il filosofo sudcoreano la scomparsa dei fatti o meglio il dissolvimento di una realtà unica e condivisa in grado di fungere da comune punto di riferimento per una qualsiasi dialettica politica mette a rischio la democrazia. Grazie alle telecomunicazioni e a catene di produzione sempre più leggere il capitale ha potuto parcellizzare, delocalizzare, precarizzare, cancellare quella contiguità fisica che aiutava le parti sociali a organizzarsi. Partendo da qui Han ha saputo costruire il suo discorso raccogliendo diverse ansie sociali e collocandole sul crinale filosofico tra materiale e immateriale.

Si stava meglio quando si stava peggio?
In Infocrazia si proclama l’impoverimento della dialettica politica nelle reti digitali. Il filosofo raccoglie e mette in fila il succo dei discorsi maggiormente critici rispetto all’odierno capitalismo digitale. Creando peraltro un’ottima sintesi. Anzitutto mette in evidenza come la chiave per detenere il potere (oppure per potersi ritenere in qualche misura liberi) si sia spostata, nel corso della modernità, dal possesso dei mezzi di produzione alla possibilità di accedere a informazioni e di muoversi in un regime produttivo in cui “a essere sfruttati non sono corpi ed energie ma informazioni e dati”. Più precisamente:

“Il regime dell’informazione si accompagna al capitalismo dell’informazione, che evolve in capitalismo della sorveglianza e declassa gli esseri umani a bestie da dati e consumo”.

Navighiamo tra grandi palinsesti di intrattenimento e grandi offerte di informazione e questo può portare a un illusorio senso di mobilità sociale, sufficiente a spingere tutti a diventare nodi di una rete economica in cui si produce merce digitale gratuitamente.

“Il soggetto sottomesso nel regime dell’informazione non è docile né ubbidiente. Piuttosto si crede libero, autentico e creativo: produce e performa sé stesso”.

Ma internet ci domina e ci piace perché “s’insinua nella quotidianità sotto forma di convenienza”.  Gli influencer che popolano i social media sono i guardiani della presa delle tecnologie digitali sul pubblico e, soprattutto, dell’occultamento di possibili alternative all’ordine vigente.

“Anche gli influencer su YouTube e Instagram hanno interiorizzato le tecniche neoliberali del potere. […] Le pubblicità, nelle quali inseriscono abilmente i prodotti mettendo in scena sé stessi, non sono percepite come fastidiose”.

Un’apparente capacità di asservire le tecnologie comunicative ai propri scopi comunicativi mette gli influencer sotto i riflettori di un pubblico che sogna (soprattutto i più giovani) di potersi fare strada semplicemente utilizzando quegli stessi strumenti. Seguaci e seguiti vivono in misura diversa lo stesso sogno ingannevole basato su economie estremamente mutevoli. Ma tanto basta a garantire il funzionamento di una macchina produttiva che si nutre di quelle stesse sostanze che produce (compreso le scorie) e in cui i clienti collaborano fattivamente con i fabbricanti.

“Le informazioni si diffondono senza passare dallo spazio pubblico. Esse vengono prodotte in spazi privati e inviate a spazi privati. Così la Rete non costituisce una sfera pubblica”.

Per Han al sistema non serve più (come la Storia ci ha insegnato) la strutturazione di una dialettica o di un discorso razionale per mobilitare le persone. In effetti osservando i nostri figli che consumano TikTok saltando impazienti da un video all’altro ci viene il dubbio che il cervello umano stia diventando come quello dei pesci rossi: dotato di una memoria di pochi secondi, conservano una vaga consapevolezza di cose avvenute in passato ma non sanno esattamente cosa. Ma è tutta qui la civilizzazione informatica? “Comunicazione senza comunità”? Le critiche di Byung-Chul Han sugli sviluppi del digitale risulteranno particolarmente indigeste a quei lettori che hanno vissuto l’avvento delle reti digitali come una promessa (in certi casi già mantenuta) di liberazione dalla burocrazia fine a sé stessa e da posizioni di rendita basate sull’opacità delle stanze del potere. Eppure il filosofo non molla la presa nemmeno per una pagina e critica anche la trasparenza:

“La trasparenza è la coercizione sistemica del regime dell’informazione. Il suo imperativo recita: tutto deve esistere come informazione. Trasparenza e informazione sono sinonimi”.

E ancora:

“La prigione digitale è trasparente. Il flagship store della Apple a New York è un cubo di vetro, un tempio della trasparenza. Sul piano della politica della visibilità, esso è il contraltare della Ka’ba alla Mecca. […] Solo i sacerdoti hanno accesso all’interno dell’edificio. L’arcano, che si nega a ogni visibilità, è costitutivo del dominio teologico-politico”.

Cambiano dunque i materiali con cui sono fatte le pareti ma la “sala operativa” del comando resta comunque oscura, anche quella che millanta trasparenza. Questa ambiguità viene raccontata bene dal romanzo Il cerchio di Dave Eggers. Siamo alla vigilia di una svolta tecnica e sociale che metterà sempre più spesso le macchine (e quindi aziende e governi) nella condizione di guidare le nostre esistenze dicendoci cosa fare e come farlo tramite dispositivi animati da intelligenze artificiali. Abbiamo ovviamente paura e soprattutto abbiamo bisogno di capire se avremo il controllo del pulsante che accende/spegne il pilota automatico. O perlomeno se la maggior parte di noi sarà in grado di capire cosa succede. Sta già avvenendo qualcosa e le contromisure legislative appaiono nobili sul piano teorico ma quasi infantili nella messa in pratica. Si prendano ad esempio i fastidiosi psycho-bannerini che ciascuno di noi è costretto a scacciare via come mosche ogni volta che consulta un sito web cliccando “accetta” senza leggere.

Il multiverso del microtargeting e delle inserzioni mirate
Il motivo per cui le leggi vigenti sulla privacy non vengono rispettate è nella vacuità del consenso informato. Questo dipende dal fatto che il valore del dato non è solo nel suo utilizzo immediato rispetto a specifiche finalità di marketing: esiste anche un valore secondario quantificabile solo a posteriori e che deriva dalla ricombinazione e dall’incrocio di differenti set di dati. Qui entrano in scena le intelligenze artificiali e le potenze di calcolo nel concatenare variabili: in sostanza si prevede di ricavare un valore o addirittura nuovi orizzonti di business rielaborando e incrociando dataset. Questa indeterminatezza spinge a raccogliere qualsiasi tipo di dato. Per Byung-Chul Han:

“La tecnica informatica digitale rovescia la comunicazione in sorveglianza: quanti più dati generiamo, quanto più intensivamente comunichiamo, tanto più efficiente diventa la sorveglianza”.

Sorveglianza intesa non solo come strumento di conservazione dell’esistente ma anche come fonte di intelligence per il capitale sempre alla ricerca di nuovi mercati. Certo esistono ancora costi di archiviazione e manutenzione del dato che però si ridurranno al mero consumo energetico man mano che le macchine cominceranno a prendersi cura dei big data in totale autonomia. Il frutto immediato di dati sempre più freschi e aggiornati è la pratica del microtargeting ovvero la tendenza a proporre specifici contenuti e inserzioni pubblicitarie a specifici profili di consumo. Con il microtargeting, la lotta per l’attenzione e per capire cosa vuole la gente, tradizionalmente relegata alla comunicazione pubblicitaria, diventa essa stessa un prodotto da vendere. Cronologie di navigazione, like social, dispositivi elettronici, software e aziende: un tutt’uno compatto che deciderà sempre più spesso in quale universo digitale ciascuno di noi sarà destinato a vivere. Questo fatto è (o sarà), come sostiene Han, la fine della democrazia?

Il collegamento tra questo scenario e la comunicazione politica sembra quasi scontato, a maggior ragione dopo le rivelazioni di Edward Snowden, dopo lo scandalo Cambridge Analytica, dopo Trump. Comunque la si pensi, che ci si senta o meno sull’orlo di un’apocalisse, appare evidente che se il digitale favorisce o induce la profilazione psicometrica, allora di fatto il digitale non può che essere un motore di infinite realtà che si sovrappongono o che sono in concorrenza con quella fisica e con quella delle cosiddette realtà fattuali. Qui risiede il contributo più interessante del ragionamento di Han sulla contemporaneità digitale ovvero le origini della post-verità. Le classi dirigenti e i decisori politici si pongono giustamente il problema di normare qualcosa che può concretamente alterare il normale corso della politica agendo su specifiche categorie di persone più facilmente manipolabili. Ma quale sarebbe il normale corso della politica nel momento in cui gli umani rinunciano al discorso razionale e abbracciano il pilota automatico delle intelligenze artificiali?

La scomparsa dei fatti
Sta morendo quella che Han chiama genericamente “la democrazia”. Ma questa morte è davvero una novità legata alla civiltà informatica che stiamo vivendo? Per il filosofo la deriva non comincia con i computer ma con il declino della forma mentis alfabetica: si indebolisce la capacità di argomentare, passa la voglia di ascoltare discorsi, muore il discorso. Una morte antropologica, lenta, avviata dalle nostre pigrizie blandite dagli smartphone, dovuta non tanto alla personalizzazione algoritmica quanto alla “sparizione dell’altro”, alle ridotte capacità di ascolto. Al contrario del libro, lo smartphone è una palestra mentale che esalta il collegamento ipertestuale, il salto da un punto all’altro di immensi reticoli mentali. La cultura alfabetica è in grado di saltare ma ha bisogno di mettere in ordine i punti esplorati; la cultura delle reti digitali può continuare a esistere anche saltando e basta. Le comodità digitali tendono a condensarsi in una routine del salto che ci rende poco attenti a elaborare con attenzione gli stimoli provenienti dall’esterno delle nostre abitudini e dei nostri interessi.

Nel suo saggio sul senso comune di realtà, Alfred Schutz utilizza la figura di don Chisciotte e del suo scudiero Sancho Panza per stabilire una dialettica tra ciò che viene consensualmente considerato reale e ciò che potrebbe essere reale ma che viene considerato allucinazione (cfr. Schutz, 1995). Schutz parla di “pensiero di senso comune” e di come questo sospende il dubbio che le cose possano essere diverse da come appaiono. I compiti a cui ci chiama la routine del quotidiano sono come una nebbia che riduce il raggio d’azione del cervello umano perché ci fa dimenticare che esistono gli altri. Uscire dalla routine e nutrire il dubbio ci consente di constatare il fatto che esistono diverse “realtà” possibili o comunque pensabili. Dai mondi paralleli dell’opinione individuale, a salire fino ai mondi delle convinzioni religiose e delle teorie scientifiche, passando per le narrazioni, possono essere infiniti gli ordini di realtà che si contendono il titolo di “realtà”. Ed è proprio l’esistenza di realtà multiple che non si parlano, ciò che secondo Han mette maggiormente in pericolo la democrazia.

“Già la globalizzazione e la conseguente iperculturalizzazione della società scioglie i contesti culturali e i legami della tradizione, che ci ancorano a un mondo della vita in comune”.

L’interpretazione del mondo e l’agire sono il risultato delle esperienze individuali ma soprattutto di un accordo intersoggettivo.

“Nell’agire comunicativo ciascun partecipante avanza una pretesa di validità: se questa non è accettata dall’altro, si svolge un discorso. […] La società si dissolve in identità inconciliabili, prive di alterità. Al posto del discorso troviamo una guerra dell’identità. La società perde così l’elemento comunitario, anzi ogni senso civico”.

Con il digitale sembrano in discussione anche le più elementari strutture antropologiche del senso comune. Manca lo sfondo olistico intuitivamente conosciuto ovvero quell’orizzonte di convenzioni culturali o di pratiche sociali che consentono l’agire comunicativo di cui parla Habermas citato da Han.  Ma sarebbe sbagliato semplificare il pensiero di Byung-Chul Han come un banale panegirico della razionalità pre-digitale. Il suo vero interesse filosofico sembra essere quello di studiare la necessità umana di un ancoraggio persistente nel tempo e nello spazio. Anche nel precedente saggio sulle “non cose” Han insiste sul tempo, su quel “lungo utilizzo” che, sul piano della formazione di un’opinione, si traduce nell’informarsi uscendo dai ristretti margini dell’attualità.

“Le decisioni razionali sono costruite a lungo termine: sono precedute da una riflessione che si estende al di là dell’istante, verso il passato e il futuro. […] Nella società dell’informazione semplicemente non abbiamo tempo per l’agire razionale. La costrizione alla comunicazione accelerata ci depriva della razionalità”.

Il punto di Han non è tanto in un lavaggio del cervello per convincere i consumatori a fare o non fare qualcosa quanto nel fatto che questi avrebbero difese intellettive indebolite dal generale decadimento del raziocinio. Con Han capiamo meglio come le fake-news siano più potenti degli interventi di fact-checking perché le prime tendono a richiamarsi a narrazioni che per quanto semplici sono comunque strutturate e rodate nel tempo, mentre i secondi si incurvano sui dati, sui passaggi tecnici dei vari transiti di informazioni di volta in volta analizzati. I numeri che servono a strutturare l’esposizione di un fatto reale non spiegano niente ai cervelli di oggi che non memorizzano e non organizzano in discorsi. Numeri e dati non risuonano come “la verità”. Meme e teorie complottiste proliferano perché sono veloci e fanno rete tra loro finendo col risultare più maneggevoli dei dati in quanto pezzetti di una narrazione riconoscibile. I dati sono cibo per le macchine, i meme sono roba da umani. Questa mancanza di incisività dialogica si traduce nel fatto che viviamo tutti in un’allucinazione in cui si pensa di poter interagire con chiunque mentre in pratica si può solo parlare da soli rivolti a uno specchio (Han cita Eli Pariser e le sue camere dell’eco) o alla propria tribù.

La de-fatticizzazione del mondo della vita spinge a non “credere a uno sfondo di discussione comune” e induce alla “tribalizzazione digitale” ovvero la creazione di nuovi contesti dove fare “esperienza dell’identità e della comunità”, dove ricucire un senso di appartenenza percepito come ovvio e aproblematico. Le tribù digitali “non rappresentano risorse di sapere bensí di identità”. La tribalizzazione delle reti non è tanto un effetto del microtargeting quanto della scomparsa dell’alterità e del bisogno di discussione pubblica.

L’alba della razionalità digitale
Neanche il più ambizioso dei governi polizieschi raccontati dalla fantascienza distopica (Han cita spesso Orwell e Huxley) sembra in grado di garantire così bene stabilità e lunga vita a un sistema come sta facendo il capitalismo digitale.
Infocrazia non abbonda di riferimenti alla narrativa, Han si sofferma solo su Orwell e Huxley, in particolare 1984 e la trovata della “neolingua”, ottima rappresentazione della permeabilità psicosociale del cervello umano. Ma Han amerebbe tutta la prima parte del film Brazil, il capolavoro di Terry Gilliam che mostra con straordinaria plasticità il senso di un mondo basato sul potere assoluto delle informazioni a scapito delle discussioni. Con le sue fantastiche scenografie Gilliam si diverte a mostrarci come un simile mondo, fatto funzionare dagli umani senza computer, sarebbe il paradiso della burocrazia.
Un bel giorno, poco prima di Natale, un insetto cade in una telescrivente causando un refuso in un mandato d’arresto in stampa. Questo fatto porta alla cattura e alla morte, durante l’interrogatorio, del povero calzolaio Archibald Buttle scambiato per il rinnegato e sospetto terrorista Archibald Tuttle. L’occhio della macchina da presa sul bug che causa l’errore si imprime nella memoria per via dell’incredibile catena di eventi che segue. Da notare che il termine bug inteso come problema tecnico o intoppo nel codice è estremamente familiare nelle professioni dell’informatica. In una infocrazia ben avviata non è possibile elaborare la vitalità dell’errore che viene migliorato perché tutte le azioni predisposte dal digitale sono parte di processi meccanici, preferibilmente autonomi. La civilizzazione delle macchine è destinata ad essere popolata da macchine che si curano da sole, l’intervento biologico non potrebbe essere altro che fonte di errore o espressione di particolarismi. Come scrive Han:

“Gli argomenti possono essere migliorati nel processo discorsivo; gli algoritmi, invece, vengono continuamente ottimizzati nel processo meccanico”.

Per quelli che Han chiama “dataisti” (ovvero gli alfieri del capitalismo digitale basato sul machine learning) il fine ultimo è un sistema che corregge autonomamente i propri errori. Insomma una “razionalità che proceda del tutto priva di agire comunicativo”. Han sembra rifiutare la possibilità di una partecipazione digitale in grado di portare a una reale democratizzazione dell’uso del dato e quindi dell’azione politica. La comunicazione digitale non è la strada giusta perché ci allontana dalla razionalità e anzi delega la razionalità alle macchine.

“Dalla prospettiva dataistica il discorso non è altro che una forma lenta e inefficiente di elaborazione informatica”.

Forse a breve la democrazia partitica cederà il posto all’infocrazia e i politici umani, con le loro limitatissime “capacità di elaborare grosse quantità di informazioni”, verranno sostituiti da informatici “che amministreranno la società al di là dei principi ideologici e indipendentemente dagli interessi del potere” risolvendo la cosa pubblica in un “sistema manageriale basato su dati”. Han si ferma qui: fa parte del ruolo del filosofo mettere in evidenza fratture, dissonanze, contraddizioni, non certo proporre soluzioni. Han richiama apertamente Michel Foucault nel descrivere la filosofia come “giornalismo radicale” con l’obbligo di cercare “la verità” e dirla alla gente. Sebbene al mondo vi siano ancora forme di totalitarismi basati sulla sorveglianza e sulla repressione del dissenso ovvero su quello che Han definirebbe (sempre con Foucault) un “regime disciplinare” ciò non toglie che anche il regime dell’informazione e della trasparenza qui a Occidente possa tenere in gestazione l’affermarsi di un pensiero unico. Non riusciremo mai a capire se c’è di meglio finché non proviamo a mettere in discussione le dinamiche digitali che stiamo vivendo. Per ora non si riescono a immaginare delle alternative che non siano distopie, vere o immaginarie.

Letture
  • Alfred Schutz, Don Chisciotte e il problema della realtà, Armando Editore, Roma, 2008.
Visioni
  • Terry Gilliam, Brazil, Eagle Pictures, 2003 (home video).