A zonzo nell’abisso a caccia
di nuovi villain e citazioni

Matt e Ross Duffer (ideatori)
Stranger Things
Quarta stagione
Nove episodi
Cast principale: Winona Ryder,
David Harbour, Millie Bobby Brown,
Gaten Matarazzo
Produzione: Netflix
Distribuzione: Netflix, 2016-2022

Matt e Ross Duffer (ideatori)
Stranger Things
Quarta stagione
Nove episodi
Cast principale: Winona Ryder,
David Harbour, Millie Bobby Brown,
Gaten Matarazzo
Produzione: Netflix
Distribuzione: Netflix, 2016-2022


La quarta stagione di Stranger Things, lo show ideato dai fratelli Matt e Ross Duffer e distribuito da Netflix, mantiene sempre come bussola narrativa Stephen King e Howard P. Lovecraft, proponendo una fantascienza che trasuda magia e tiene a freno gli slanci della tecnologia. Il Sottosopra di Hawkins, la piccola (fittizia) cittadina sperduta dello stato dell’Indiana, che funge da teatro delle vicende, è un universo parallelo o una visione del nostro prossimo futuro? In Le montagne della follia, il maestro di Stephen King, Lovecraft, chiarisce bene cosa pensa del futuro:

“La razza umana scomparirà. Altre razze appariranno e si estingueranno a loro volta. Il cielo diventerà gelido e vuoto, attraversato dalla debole luce di stelle morenti. Che a loro volta scompariranno. Tutto scomparirà. E ciò che fanno le persone non ha più senso del moto casuale delle particelle elementari”
(Lovecraft, 2018).

Oltre alla matrice kingiana-lovecraftiana resta caratteristica di Stranger Things la vistosa rete di piccoli o grandi riferimenti visivi all’estetica degli anni Ottanta. La struttura narrativa della quarta stagione lavora molto sul montaggio alternato tra i vari teatri dell’azione: un richiamo esplicito al cinema di quel periodo, Star Wars L’Impero colpisce ancora in particolare. I riferimenti cinematografici restano una chiave d’accesso importante, quasi un trivia che chiama lo spettatore a giocare con i favolosi anni Ottanta. La creatura aliena che si traveste per sfuggire a oscure agenzie governative (Starman, E.T.); lo spietato xenomorfo affamato di umani che agisce nell’oscurità e senza alcuna remora morale (Alien, Predator); i poteri paranormali di Carrie (Brian De Palma da Stephen King) che sconvolgono la routine scolastica; la vasca di deprivazione sensoriale (Stati di allucinazione). La “nostra ossessione per il passato” (Reynolds, 2017) sembra uno standard che si adatta bene ai consumi culturali tardo-capitalisti, anche se a ben vedere la modalità produttiva malinconica esiste fin dai primordi della cultura di massa. Il cinema si è spesso configurato come bara o sepoltura rituale di patrimoni narrativi provenienti da un mondo in cui dominava il medium libro (cfr. Morin, 2020). Nella narrativa novecentesca la strategia narrativa imperniata sulla malinconia ha cominciato a legarsi al concetto di ripetizione lavorando su due fronti: quello dell’immaginazione razionale-linguistica (codici, generi, standard comunicativi) e quello dell’immaginazione individuale. Con la prima è possibile giocare ai rimandi o a costruzioni metalinguistiche più o meno complesse; con la seconda è possibile toccare corde emotive profonde che attengono addirittura all’emergere della coscienza individuale (cfr. Frezza, 1987).

La retromania è stata sfruttata bene da Netflix che con Stranger Things ha cominciato una lunga e finora proficua storia d’amore con gli anni Ottanta: Cobra Kai che riaccende il fuoco di Per vincere domani – The Karate Kid, Glow sulle signore del wrestling, la seconda stagione di Russian Doll che salta tra i decenni e fa una puntatina negli Ottanta. Per non parlare dell’episodio di Black Mirror intitolato Bandersnatch che indaga sul potenziale immaginativo dei primi videogiochi. Anche un altro colosso dell’immaginario e dello streaming come Disney sta rilanciando miti di quel periodo come il pantheon dei supereroi Marvel e la saga di Star Wars. Tra i prodotti più interessanti c’è The Mandalorian, la serie tv che ha rianimato la popolosa comunità di starwarsmaniaci. In effetti anche il cinema dell’ultima decade presenta un’impressionante mole di remake, reboot, sequel e prequel ruotanti intorno ai personaggi più amati degli Ottanta: Rocky Balboa (con i due Creed), John Rambo (con Rambo: Last Blood), gli acchiappafantasmi (il reboot di Ghostbusters e Ghostbusters: Legacy), Top Gun: Maverick, Blade Runner 2049, solo per citarne qualcuno. Ma nessuna di queste narrazioni che scrutano la fatidica decade ha avuto il successo trasversale di Stranger Things, una serie tv in cui il retrometro va fuori scala in più punti tradendo una smodata passione per anni mai vissuti dai Duffer cresciuti nei Novanta. Una passione che ha contagiato anche i giovani di oggi riempiendo occhi e orecchie con il numero musicale di Dusty e Suzie nell’ultima puntata della terza stagione: un surreale duetto via walkie talkie sulle note di The Neverending Story, tutti noncuranti dell’incombente minaccia del terrificante Mind Flayer.

Il signore della rete oscura
L’ingrediente cruciale della quarta stagione di Stranger Things è però l’ingresso in scena del nuovo villain Vecna, un potentissimo stregone che prende in mano il Sottosopra e spiega bene il suo punto di vista:

“Gli umani sono un tipo unico di parassita, si moltiplicano e avvelenano il nostro mondo rinforzando solo la loro struttura; la quale è innaturale. Dove gli altri vedono ordine, io vedo una camicia di forza; un mondo crudele opprimente fatto di regole inventate”.

L’umanità è dunque un virus da debellare. Vecna richiama esplicitamente il personaggio di Freddy Krueger e la saga cinematografica di Nightmare iniziata da Wes Craven nel 1984. Mentre cammina verso la giovane Max nel regno degli incubi, Vecna flette gli artigli e ci ricorda il guanto utilizzato da Krueger, quello con le punte di rasoio. Quando circuiscono le vittime il modus operandi dei due mostri è chiaramente lo stesso. A sancire ulteriormente il legame tra Vecna e Freddy Krueger, c’è anche la presenza di Robert Englund, che compare brevemente nei panni di Victor Creel, il padre di Vecna, da anziano. Entrambi i mostri trascinano le vittime designate in una ragnatela di incubi a occhi aperti. C’è subito un’intesa tra il gruppo di ragazzi protagonisti e il villain perché parlano lo stesso linguaggio: quello del fantasy, quello del gioco di ruolo Dungeons & Dragons in cui le trame strutturate dal Dungeon Master si risolvono utilizzando competenze narrative. Quando Max descrive il suo incontro con Vecna, Dustin effettua subito il collegamento con l’iconico cattivo del film di Wes Craven.

Nello spazio diegetico esistono gli stessi film che conosciamo noi e sono a disposizione dei ragazzi come catalogo di espedienti narrativi, come pozioni magiche pronte all’uso. L’escamotage della “porta sul retro” per entrare nella mente di Vecna è un ragionamento inverso rispetto ai poteri di Freddy Krueger​. Stranger Things ri-contestualizzata riferimenti presi dall’immaginario utilizzandoli come se fossero delle informazioni scientifiche. Il narrato diventa tecnica per creare nuove narrazioni.
Queste visioni meta-narrative cominciano a svilupparsi proprio negli anni Ottanta, in cui nuovi equilibri politici e inedite spinte provenienti dal mercato tecnologico preparano il sistema dei media alla frammentazione contemporanea. La sede privilegiata del consumo audiovisivo si sposta dalla sala cinematografica all’intimità dell’ambiente domestico tramite l’apparecchio televisivo. Il fenomeno della ri-locazione del cinema (cfr. Casetti, 2008) implica anche che i film di culto vengano visti e rivisti come se fossero dei mantra. In pellicole di quell’epoca come E.T. o I Goonies vediamo spesso giovani protagonisti fare riferimento a narrazioni note di cui rielaborano temi e situazioni, collocando gli stessi personaggi in nuove trame più vicine al loro quotidiano. In Stranger Things ritroviamo questa palestra di narratività in cui si gioca con mattoncini di immaginario: i giovani eroi della serie imparano ad affrontare i mostri della crescita facendosi forza con l’amicizia, con il club, con gruppi cementati dagli interessi comuni, spesso un misto di competenze narrative e di saperi scientifici.

Le liane, i viticci, i fili neri e limacciosi che partono dalla testa di Vecna, non sono altro che una rappresentazione della rete oscura che mette tutto in connessione e che ha come centro la mostruosa volontà di creare una nuova umanità priva di vincoli morali. Con i suoi tentacoli viscidi o con i suoi raggi telepatici, Vecna arriva ovunque e può catturare le prede umane trasmettendo nel loro cervello un suo palinsesto che è la caricatura in negativo dei nostri sistemi per l’intrattenimento, a ben vedere anch’essi tentacolari con i loro cavi e i loro segnali elettronici lanciati nell’etere. Le particelle oscure governate da Vecna nel Sottosopra, prendono la forma di una gigantesca mente alveare chiamata Mind Flayer, destinata a governare tutto, anche il nostro mondo una volta depurato dall’elemento umano. Il ragno fatto di fumo nero è metafora non tanto di masse asservite o di reti narrative quanto delle trasmissioni basate sull’elettricità, il vero elemento fondante della modernità.

In Stranger Things l’elettricità e le onde radio prendono vita e finiscono con l’essere il decisivo tessuto connettivo che apre varchi o aiuta a chiuderli: tra universi materiali e immateriali, tra zone psicologiche di incomunicabilità. Dopo le luci natalizie che prendono vita nella prima stagione vediamo nella quarta l’elettricità tornare protagonista accendendo la musica, quella del walkman della giovane Max che consuma ossessivamente l’audiocassetta con la canzone di Kate Bush, pozione magica pronta all’uso. Dopo aver fatto decollare l’industria moderna, oggi la velocità elettrica è il medium supremo che tiene tutto il mondo unito sotto il segno dell’istantaneità: una matrice primigenia che si pone a monte di qualsiasi sviluppo tecnologico e di qualsiasi narrazione. Se la nostra contemporaneità è caratterizzata dal presentismo, “che iscrive la nostra vita non più nella linearità storica ma nel godimento di un istante eterno” (Abruzzese, 2004) si attenua la curiosità verso il futuro (che viene dato per scontato come cornucopia di innovazioni) e si aprono spazi per l’iperconsumo. In questo senso gli anni Ottanta offrono interessanti modelli esistenziali caratterizzati da un disimpegno programmatico dopo le tante rivoluzioni del costume registrate nei decenni precedenti.

Perché gli anni Ottanta?
Una simulazione degli anni Ottanta costituisce dunque lo spazio-tempo perfetto per ospitare il presentismo: c’è la consapevolezza delle potenzialità di una espansione elettronica della coscienza ma il cardine resta il perseguimento della felicità individuale, nascondendo i conflitti e scoraggiando le rivoluzioni. Gli Ottanta sono forse l’ultima decade caratterizzata da un’estetica ben definita, da un senso del look inconfondibile, poco prima della post-modernità, della fine delle grandi narrazioni, della molteplicità polisemica. Dal punto di vista mediologico il periodo in questione chiude idealmente l’era dei grandi sistemi simbolici collettivi predisponendo alla frammentazione delle nicchie di consumo (cfr. Anderson, 2016) e dei mondi digitali.
Il progressivo mutamento della sostanza politica dello sguardo nostalgico hollywoodiano è apprezzabile in una lunga striscia seriale come il telefilm Happy Days che, dal 1974 al 1984, ha traslato lo spirito di American Graffiti in tv. Ci sono poi i fondamentali revival degli anni Cinquanta proposti da importanti cineasti come Francis Ford Coppola (Peggy Sue si è sposata nel 1986) e Robert Zemeckis (Ritorno al futuro nel 1985). Due pellicole che, come Stranger Things, operando dall’interno della fantascienza, esplorano i processi di formazione dell’identità cercando di tessere un filo intergenerazionale. Riecco la proficua sociologia (o meglio psicologia sociale) del presente incapsulata in una trasfigurazione fantastica o fantascientifica.

In Stranger Things l’unità di luogo funziona come nei film cult di cui sopra e serve a strutturare una dialettica col presente del cyberspazio e delle relazioni veloci. Eventi straordinari in piccole cittadine di provincia: Hawkins, Indiana come Hill Valley o come Modesto o come la Milwaukee, Wisconsin dei giorni felici. E non dimentichiamo il film Stand by me (tratto da un racconto di Stephen King imprescindibile per i fratelli Duffer) ambientato a Castle Rock, Oregon, la cittadina immaginaria spesso visitata da King. La piccola comunità di provincia aiuta a focalizzare le relazioni umane, anestetizza i conflitti, tende allo status quo che è poi la stasi prima della tempesta.
Dopo gli ultimi decenni “analogici”, il modo di vivere le relazioni sociali e le narrazioni collettive non sarà mai più lo stesso. Negli anni Ottanta cominciano a rarefarsi le grandi mobilitazioni collettive. Inizia l’era “bowling alone”, l’atomizzazione individualistica della società (cfr. Putnam, 2004) caratterizzata dalla graduale erosione della partecipazione politica, più accentuata proprio nelle fasce demografiche giovanili. Anche l’attenuarsi del ruolo dei televisori e delle sale cinematografiche influisce sui luoghi deputati ai processi di formazione di un immaginario collettivo che è sempre più molteplice.

Il brodo primordiale pre-digitale
In Stranger Things la fitta griglia di riferimenti culturali è un fluido magmatico che prepara all’avvento della comunicazione digitale, le cui radici sono in quegli anni per via della diffusione dei primi personal computer. Sono gli anni di Neuromante di William Gibson, pietra miliare del cyberpunk, culla di mondi sintetici e intelligenze artificiali. Per non parlare di film epocali come Blade Runner, Tron, War Games e Terminator, pellicole uscite tra il 1982 e il 1984.  Rotture psico-sociali importanti che partono da industrie apparentemente futili (i videogames) o comunque di nicchia (il personal computing) per poi dispiegare nei decenni successivi la loro centralità come luoghi di consumo e di elaborazione dell’immaginario. Curioso come Stranger Things abbia cura di non mettere mai in evidenza computer o strumenti videoludici. La tecnologia digitale è presente ma messa molto dietro sullo sfondo, fuori fuoco, mai decisiva. Il magma “pre-digitale” incrocia dunque non solo la nostalgia di chi ha vissuto in prima persona quegli anni da bambino o da adolescente, ma anche l’emozione archeologica di chi riconosce le tappe delle nascenti culture post-umane. I nerd di Stranger Things sono post-umani perché, per dirla con Roberto Marchesini (cfr. 2002), sono indifferenti alla separazione cartesiana tra cose e pensieri, la loro vita mentale si riflette nei tanti oggetti materiali e culturali con cui amano circondarsi.

Se è vero che gli anni Ottanta e la cultura nerd salutano l’avvento del digitale e accompagnano al crepuscolo le grandi mobilitazioni ideologiche novecentesche, appare comprensibile come il genere umano cominci a cercare un morboso contatto con le merci, specie se queste sembrano in grado di dialogare e corrispondere strutturando nuove forme di narcisismo e di culto dell’individualità. Quella che oggi chiamiamo “condizione post-umana” pre-esiste all’avvento delle culture digitali e viene raccontata dai tanti legami sentimentali e nostalgici mediati da oggetti fisici. Dinamiche psico-sociali che avvicinano lo sguardo di Stranger Things al framework teorico del digital media materialism (cfr. Tirino, 2017). Comincia tutto con le orecchie dei giovani amanti del walkman e del walkie talkie, e si sviluppa in un sistema di oggetti nel quale la materia fisica, sebbene inanimata, diventa parte integrante della coscienza e arriva a condizionare le categorie dell’affettività. Cultura nerd e condizione post-umana come condivisione di simboli e pratiche di consumo ma anche come forme di conoscenza. I giovani trovano in alcune regioni della cultura di massa un luogo accogliente dove ricavare le risorse necessarie alla costruzione volontaria di piccoli universi di senso nei quali riconoscersi. Quasi più intimi che fratelli o sorelle, i membri di questi microcosmi interpretano pratiche culturali ampiamente massificate, ma con un tocco particolare.
Una giocosa irrazionalità muove l’azione in Stranger Things e fa accadere cose strane anche al di qua dello schermo. Parliamo di uno show talmente influente da arrivare ad alterare il normale corso dei consumi musicali: si pensi al caso Kate Bush e al suo brano Running Up That Hill del 1985, traccia fondamentale della colonna sonora della quarta stagione, che ha scalato tutte le classifiche di vendita e streaming musicale 2022 arrivando a far modificare i canoni industriali con i quali oggi si definiscono le canzoni di successo (cfr. Savage, 2022).

Letture
  • Alberto Abruzzese, Lessico della comunicazione, Meltemi, Roma, 2004.
  • Chris Anderson, La coda lunga. Da un mercato di massa a una massa di mercati, Codice, Torino, 2016.
  • Francesco Casetti, L’esperienza filmica e la ri-locazione del cinema, in “Fata Morgana”, II, 4, 2008.
  • Gino Frezza, La scrittura malinconica. Sceneggiatura e serialità nel fumetto italiano, La Nuova Italia, Firenze, 1987.
  • Howard P. Lovecraft, Le montagne della follia, Il Saggiatore, Milano, 2018.
  • Roberto Marchesini, Post-Human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.
  • Edgar Morin, Il paradigma perduto, Mimesis, Milano, 2020.
  • Robert Putnam, Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, Il Mulino, Bologna, 2004.
  • Simon Reynolds, Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato, Minimum Fax, Roma, 2017.
  • Mark Savage, Kate Bush heading to number one after chart rule reset, BBC News, 14 giugno 2022.
  • Mario Tirino, Il materialismo digitale. Approcci e prospettive mediologiche, in “Scienza&Filosofia”, 18, 2017.
Visioni
  • John Carpenter, Starman, Sony, 2019 (home video).
  • Francis Ford Coppola, Peggy Sue si è sposata, Sony, 2020 (home video).
  • Wes Craven, Nightmare – Dal Profondo della Notte, Warner, 2020 (home video).
  • Brian De Palma, Carrie, Disney, 2013 (home video).
  • Jon Favreau, The Mandalorian, Disney Plus, 2019 (streaming).
  • Irvin Kershner, Star Wars 5 L’Impero Colpisce Ancora, Buena Vista, 2020 (home video).
  • George Lucas, American Graffiti, Universal, 2021 (home video).
  • Natasha Lyonne, Leslye Headland, Amy Poehler, Russian Doll, Netflix, 2019 (streaming).
  • Garry Marshall, Happy Days, Universal, 2017 (home video).
  • Ridley Scott, Alien, 20th Century Fox, 2011 (home video).
  • David Slade, Charlie Brooker, Bandersnatch, Netflix, 2018 (streaming).
  • Steven Spielberg, E.T. – L’Extra-Terrestre, Universal, 2015 (home video).
  • Rob Reiner, Stand By Me – Ricordo di un’estate, Sony, 2021 (home video).
  • Ken Russell, Stati di allucinazione, Warner, 2010 (home video).
  • Robert Zemeckis, Ritorno al futuro, Universal, 2020 (home video).