Rinascimento cyberpunk:
da Neuromante a Mr. Robot

Autori vari
Cyberpunk
Antologia assoluta
(include:

Neuromante di William Gibson, 
La matrice spezzata di Bruce Sterling,
Snow Crash di Neal Stephenson 
e l’antologia Mirrorshades)
Introduzione di Bruce Sterling
Traduzioni di Giampaolo Cossato, 
Sandro Sandrelli, Paolo Bertante, 
Benedetta Tavani, Lia Tomasich
Mondadori, Milano, 2021
pp. 1.368, € 35,00

Sam Esmail
Mr. Robot
USA Network

4 stagioni (45 episodi)
2015-2019
Amazon Prime

Autori vari
Cyberpunk
Antologia assoluta
(include:

Neuromante di William Gibson, 
La matrice spezzata di Bruce Sterling,
Snow Crash di Neal Stephenson 
e l’antologia Mirrorshades)
Introduzione di Bruce Sterling
Traduzioni di Giampaolo Cossato, 
Sandro Sandrelli, Paolo Bertante, 
Benedetta Tavani, Lia Tomasich
Mondadori, Milano, 2021
pp. 1.368, € 35,00

Sam Esmail
Mr. Robot
USA Network

4 stagioni (45 episodi)
2015-2019
Amazon Prime


In principio era il cowboy della consolle. L’hacker, il pirata del cyberspazio, lo scorridore dell’interfaccia.
La sua comparsa in letteratura è graduale e comincia a prendere forma dalla metà degli anni Settanta, prima con Rete globale di John Brunner (1975) e pochi anni dopo con Vernor Vinge e Il vero nome (1981), che già preludono agli sviluppi successivi ma, come i loro protagonisti assillati dall’anonimato e dalla copertura delle rispettive identità, sono ancora delle ombre vagamente delineate. L’irruzione formale del nuovo protagonista sulla scena della fantascienza si ha all’inizio degli anni Ottanta, grazie ai racconti di William Gibson Johnny Mnemonico (1981) e soprattutto La notte che bruciammo Chrome (1982), e poi a un romanzo di culto, che ne riprende le premesse e le spinge alle estreme conseguenze, segnando uno spartiacque nella storia della fantascienza (e non solo).

“Case aveva ventiquattro anni. A ventidue era un cowboy, un pirata del software, uno dei più bravi nello Sprawl. Era stato addestrato dai migliori in assoluto, da McCoy Pauley e Bobby Quine, leggende del ramo. Aveva operato in un trip quasi permanente di adrenalina, un effetto collaterale della giovinezza e dell’efficienza, collegato a un deck da cyberspazio su misura che proiettava la sua coscienza disincarnata in un’allucinazione consensuale: la matrice. Ladro, aveva lavorato per altri ladri più ricchi, che gli avevano fornito l’arcano software per penetrare le brillanti difese innalzate dalle reti delle multinazionali, per aprirsi un varco in banche-dati pressoché sterminate”
(Gibson, 2021).

Corre l’anno 1984 e il romanzo è Neuromante, folgorante esordio di Gibson nella narrativa lunga, che impone ai colleghi e agli addetti ai lavori “la sua impareggiabile capacità di localizzare con precisione i punti nevralgici della società”, come scrive Bruce Sterling nella prefazione all’antologia La notte che bruciammo Chrome. Erano stati proprio i racconti d’esordio di Gibson ad attirare l’attenzione dello stesso Sterling e di Lewis Shiner, che in quei primi anni Ottanta si arrovellavano sulla direzione che la fantascienza avrebbe dovuto prendere dopo la New Wave, l’ultima ondata di rinnovamento scaturita dal leggendario articolo di J. G. Ballard Which Way to Inner Space? (apparso nel 1962 sulla rivista inglese New Worlds) e imposta all’attenzione della critica e del pubblico da un’antologia epocale come Dangerous Visions, curata nel 1967 da Harlan Ellison.
Gibson sembrava fare con tematiche rimaste per lo più fuori dai radar dei precursori lo stesso lavoro di rappresentazione dal basso (delle sottoculture, della vita di strada, degli emarginati) che era stato promosso da Ellison, ma anche da Philip K. Dick e Samuel R. Delany. Lo stile denso e raffinato che accompagnava la sua carica immaginifica non sfuggì a Terry Carr, antologista e curatore di collane, nonché uno dei massimi editor nordamericani, che si apprestava a rilanciare, dopo due precedenti serie che avevano fatto la storia della fantascienza, la collana Ace Specials. Qui, tra il 1984 e il 1990, avrebbe pubblicato direttamente in paperback le opere prime di autori del calibro di Kim Stanley Robinson, Lucius Shepard, Michael Swanwick e Richard Kadrey, insieme proprio a William Gibson.
Neuromante raccoglie idee e personaggi già apparsi nei primi racconti di Gibson (il cyberspazio, i cowboy della consolle come Bobby Quine da La notte che bruciammo Chrome, la killer professionista Molly Million da Johnny Mnemonico) e lo impone come punto di riferimento per un’intera generazione di scrittori che, prima ancora che gli venisse affibbiata un’etichetta da Gardner Dozois dalle colonne del Washington Post nel dicembre 1984, già pensavano al loro gruppo come al “Movimento”, scambiandosi “lettere, manoscritti, idee, lodi entusiastiche e critiche feroci” (Sterling, 2021) e intrattenendo un dialogo anche a distanza attraverso le loro opere e iniziative comuni, che sarebbero culminate nel 1985 in un acceso dibattito alla North American Science Fiction Convention di Austin e nel 1986 con Mirrorshades, l’antologia-manifesto curata dallo stesso Sterling.

“Questi artisti – Gibson, Rucker, Shiner, Shirley, Sterling – trovarono un’amichevole unità nella comunanza di prospettive, temi, e anche certi strani simboli che sembravano emergere dalle loro opere come se avessero vita propria. Gli occhiali da sole a specchio, per esempio”
(Sterling, 2021).

Mondadori ha portato recentemente in libreria, nella collana Oscar Draghi, un volume monolitico che riunisce proprio Mirrorshades e Neuromante, con altri due titoli ritenuti rappresentativi del filone, La matrice spezzata di Sterling (del 1985) – una scorribanda picaresca nel futuro della colonizzazione umana del sistema solare, raccontata attraverso le gesta di un diplomatico costretto a destreggiarsi tra le diverse fazioni in cui si è frammentata la specie umana e che alla fine concepisce un piano per trasformare l’umanità in qualcosa di nuovo – e, un po’ più arbitrariamente, Snow Crash di Neal Stephenson (1992).

Impilati dietro una cover che riprende l’illustrazione di Josan Gonzalez per l’edizione brasiliana di Neuromante (ispirata all’estetica di Tetsuo II: Body Hammer di Shinya Tsukamoto e di Johnny Mnemonic di Robert Longo), ma reinterpretata in 3D da Rafael Moco, con una grafica che nella predominanza del giallo non può non richiamare alla memoria il videogame-evento del 2020 Cyberpunk 2077, sviluppato da CD Projekt RED e lanciato sul mercato lo scorso dicembre, i tre romanzi e l’antologia-manifesto costituiscono un’ideale punto d’ingresso a un filone che ha saputo raccontarci il mondo in cui viviamo prima ancora che si realizzasse.

Il deserto del reale
Sulla scia del successo di Neuromante, che alla sua uscita si aggiudica i principali premi del settore (Hugo, Nebula, Philip K. Dick Award), atterrando anche sulle colonne del New York Times, il cyberpunk esplode portando alla ribalta un’intera generazione di nuovi autori: Gibson e Sterling furono indubbiamente i nomi prominenti, Lewis Shiner, John Shirley, Rudy Rucker e poi Pat Cadigan e Greg Bear si unirono a Sterling per definire il Movimento sia in incontri pubblici che in interventi su riviste e fanzine, e a seguire altri ottimi autori contribuirono con le loro opere a delineare un’estetica comune e a esplorare, da angolazioni anche molto eterogenee, le stesse tematiche, tra cui Marc Laidlaw, James Patrick Kelly, Tom Maddox, Paul Di Filippo, Richard Kadrey, e ancora George Alec Effinger, Richard Calder, Tony Daniel, Eileen Gunn, Walter Jon Williams, ma anche in misura ancora più personale Michael Swanwick, Paul J. McAuley, Ian McDonald e Greg Egan. Gli scenari che tutti questi autori portano nelle loro storie sono riconducibili a un mondo sempre più globalizzato, in cui la tecnologia concorre a ridefinire gli spazi (urbani, ma anche economici, sociali e, in ultima istanza, mentali) in cui si muovono i personaggi, spesso scelti dal fondo della scala sociale: spiantati, emarginati, contrabbandieri, spacciatori, o semplicemente rinnegati, fuorilegge e professionisti caduti in disgrazia.

Come scrive Norman Spinrad in un suo pezzo per l’Isaac Asimov Science Fiction Magazine nel maggio del 1986, lo stesso in cui cerca di rinominare i cyberpunk come “neuromantici” con gran disappunto di Gibson, “si tratta di descrivere come la sempre più intima relazione di dare e avere che stiamo creando con la tecnosfera ha alterato, sta alterando e altererà la nostra definizione del concetto stesso di umano” (Spinrad, 1993).
Come movimento letterario, il cyberpunk spinse alle estreme conseguenze alcune istanze del postmodernismo che già avevano trovato asilo nelle opere di Ballard, Dick, Delany, Joanna Russ, Ursula K. Le Guin, Michael Moorcock e Thomas Disch riconducibili alla New Wave, ma in aggiunta alla sperimentazione linguistica, all’intensità visionaria, alla messa a fuoco di quei trend rilevanti che avrebbero proiettato ricadute significative (sociali, politiche, economiche) nel futuro, andò anche a chiudere un cortocircuito con l’apparato tecno-scientifico organico alla fantascienza cosiddetta hard, che la New Wave, sulla scia del filone sociologico degli anni Cinquanta, aveva trascurato a vantaggio delle cosiddette soft science (antropologia, psicologia, scienze politiche, sociologia).
Riprendendo le parole del critico e studioso americano Larry McCaffery, dal saggio Il deserto del reale, introduzione al ricco volume Cyberpunk curato da Piergiorgio Nicolazzini nel 1994 per l’Editrice Nord, il cyberpunk rappresenta l’ultima frontiera della fantascienza postmoderna. L’evoluzione della cultura postmoderna è intimamente connessa agli sviluppi della tecnologia e l’esplorazione di questo legame mette in risalto l’impatto dei cambiamenti tecnologici sulla condizione dell’uomo contemporaneo, evidenziando, quasi inevitabilmente, il ruolo giocato in questo nuovo, precario equilibrio, dalla terza fase dell’espansione capitalistica: quel capitalismo post-industriale di cui l’attuale imperante capitalismo delle piattaforme è diretta emanazione:

“A causa della serrata competizione tra le multinazionali, e dal momento che le migliori opportunità di successo in questo campo dipendono dalla capacità di raccogliere informazioni per elaborare strategie di marketing sempre più sofisticate (comprese quelle di carattere politico, sociale, economico, assicurativo, ecc.), lo sviluppo di tecniche avanzate di raccolta e di elaborazione dei dati diventa una priorità chiave nella ricerca e nella produzione tecnologica, al punto che si può tranquillamente affermare che la più importante “risorsa globale” è diventata l’informazione stessa, soppiantando il petrolio, i prodotti agricoli, o ciò che solitamente veniva associato con i sistemi di mercato capitalistici”
(McCaffery, 1994).

Scritte nel 1991, le parole di McCaffery risuonano più attuali che mai pensando al mondo in cui viviamo, le cui premesse erano implicite nelle opere degli scrittori cyberpunk. In un’intervista rilasciata proprio a McCaffery, Gibson sosteneva già nel 1986: “Quella dell’informazione è la metafora scientifica dominante della nostra era, perciò abbiamo bisogno di affrontarla, di provare a capire cosa significhi” (Gibson e Sterling, 2001). L’atteggiamento del cyberpunk nei confronti della tecnologia è sempre stato improntato a una prudente ambivalenza, come conferma Gibson nella stessa intervista, e come sottolinea in maniera più strutturata Sterling nella già citata prefazione di Mirrorshades, individuando le coordinate concettuali del movimento in

“una sacrilega alleanza tra il mondo della tecnica e quello del dissenso organizzato, il mondo underground della cultura pop, della fluidità visionaria e dell’anarchia di strada”.

La tecnologia, che nella fantascienza classica veniva identificata quasi univocamente con il volo aerospaziale o al più con la minaccia di ordigni dall’immane capacità distruttiva, in questo caso abbraccia principalmente la tecnologia dell’informazione, l’elettronica, la cibernetica, le nuove reti di comunicazione, la ricerca nel campo dei sistemi esperti e dell’intelligenza artificiale, la realtà virtuale – fino alle biotecnologie, alle nanotecnologie, alla realtà aumentata e alla enhanced intelligence che col tempo entreranno nell’orbita del cyberpunk e giocheranno un ruolo di primo piano nel postcyberpunk e nel filone post-human che ne scaturirà (cfr. De Matteo, 2008) – e la ricaduta che il relativo progresso produce sullo stile di vita, le abitudini, il corpo, la psiche e le relazioni interpersonali dei protagonisti.

Con il cyberpunk la tecnologia viene trafugata dallo spazio asettico, confinato, sotto controllo, dei laboratori in cui è stata sviluppata, e viene piegata a nuovi scopi, a cui magari i progettisti non avevano nemmeno pensato. Per dirla con le parole di Gibson: “La Strada escogita i propri usi per le cose – utilizzi che i fabbricanti non hanno mai immaginato” (Gibson e Sterling, 2001), ed è questo il contributo più duraturo del cyberpunk al dialogo interno della fantascienza, che ha indotto il critico Salvatore Proietti a sottolineare che “bene o male tutto quello che è stato scritto […] dopo di allora ne è stato influenzato” (Proietti, 2005), sia dentro che fuori dal genere.

Il cielo sopra il porto
Fin dal titolo Neuromante rivela uno slancio fuori dal comune, testimoniando l’abilità linguistica di Gibson nella labirintica stratificazione dei livelli di lettura che riesce a condensare in una sola parola. L’originale Neuromancer fonde neurologia e magia: come osserva Spinrad nell’articolo citato, “neuromante” è “ovviamente un gioco di parole tra «necromante», che significa «mago», e «neuro», che significa «attinente al sistema nervoso»”. Il neuromante è un mago contemporaneo (o comunque di un futuro non troppo distante) la cui magia consiste nell’interfacciare direttamente il proprio sistema nervoso protoplasmico con il sistema nervoso elettronico della sfera dei computer, manipolandola (e venendone manipolato) in modo molto simile a quello in cui gli sciamani tradizionali interagiscono con regni mitici più classici attraverso droghe o stati di trance” (Spinrad, 1993). Ma è anche una dichiarazione di intenti letterari, potendosi leggere sia come “nuovo romantico” che come “nuovo romanziere” o “autore di romanzi nuovi” (Boselli, 1993).

Sempre nella prefazione di Mirrorshades, Sterling non esita a definirlo “la quintessenza del cyberpunk” e nelle sue pagine troviamo codificato tutto ciò che il Movimento avrebbe esplorato in lungo e in largo nel corso del decennio: lo strapotere dei megaconglomerati industriali, l’agenda segreta delle Intelligenze Artificiali che si sovrappone e prima o poi entra in conflitto con i piani di controllo dell’umanità, gli apparati militari che cercano di riempire il vuoto politico lasciato dallo Stato, i protagonisti che sono pedine su una scacchiera invisibile su cui si confrontano tutte queste forze, coinvolte in un grande gioco spesso inaccessibile agli uomini e alle donne comuni; e ancora: il valore dell’informazione, una società cosmopolita e globalizzata, un pianeta al collasso ambientale, le megalopoli tentacolari dalle strade pericolose e le periferie sterminate, le sottoculture che vi proliferano. Ma soprattutto, il cyberpunk deve il suo successo alle sue metafore, e tra queste le immagini di maggiore impatto sono sicuramente il cyborg e il cyberspazio, che si coagulano entrambe alla convergenza della dimensione umana con il fronte del progresso dell’elettronica e delle tecnologie dell’informazione. Il cyborg incarna la simbiosi che si instaura tra l’uomo e la macchina, con la componente artificiale che sostituisce quella organica per espandere i limiti del corpo e della mente.
Il cyberspazio, una parola “assemblata […] da piccole componenti di linguaggio già pronte” (Gibson e Sterling, 2001), è figlio di uno “spasmo neologico” che definisce la poetica cyberpunk e schiude le porte di una nuova frontiera tutta da esplorare: dopo l’outer space, lo spazio profondo caro alla Vecchia Guardia, e l’inner space ballardiano, gli abissi delle profondità interiori scandagliate dalla New Wave, arriva il momento di una sintesi che unisce le promesse illusorie dell’uno alle insidie sinistre dell’altro.

“Cyberspazio: un’allucinazione vissuta consensualmente ogni giorno da miliardi di operatori legali, in ogni nazione, da bambini a cui vengono insegnati i concetti della matematica… Una rappresentazione grafica di dati ricavati dalle memorie di ogni computer del sistema umano. Impensabile complessità. Linee di luce disposte nel non-spazio della mente, ammassi e costellazioni di dati. Come le luci di una città, che si allontanano”
(Gibson, 2021).

Il cyberspazio è “una proiezione infinita dell’universo”, “un piano di realtà parallela a metà tra inferno e paradiso, quasi alternativo alla vita vera” (Wu Ming 4, 2003), ma, come fa notare Proietti nella sua appassionata e ricca retrospettiva sul cyberpunk, in Gibson non viene mai a mancare “la consapevolezza tragica di una impotenza di fondo”:

“Quei «muri fatti d’ombra» di cui si parla in Burning Chrome sono la scoperta dei limiti nell’illusione dell’illimitato, la scoperta che anche nell’infinita frontiera dello spazio virtuale (la cui controparte terrena è la pervasività dei rifiuti) esistono conflitti di potere che lasciano l’individuo nella quasi impossibilità di controllare il proprio destino”
(Proietti, 2005).

E con i limiti della carne si ritrova a fare i conti Case, il protagonista del romanzo. Un tempo Case era un pirata informatico. Allievo dei migliori maestri del campo, era diventato a sua volta uno dei migliori, finché non aveva avuto la poco brillante idea di truffare i suoi committenti. Il prezzo che ha dovuto pagare è stato un danno neurale “microscopico, subdolo e completo”, procuratogli con “una micotossina russa risalente ai tempi della guerra”, che ha distrutto il suo talento: “Per Case, che viveva per l’euforia incorporea del cyberspazio, era stata la cacciata dal paradiso. Nei bar che aveva frequentato come il drago fra i cowboy, l’atteggiamento elitario comportava un certo disinvolto disprezzo per la carne. Il corpo era carne. Case era precipitato nella prigione della propria carne” (Gibson, 2021). Da allora vive di espedienti per le strade di Ninsei, un sobborgo di Tokyo che fornisce lo sfondo per quello che è diventato l’incipit più famoso e riconoscibile nella storia della fantascienza:

“Il cielo sopra il porto era del colore di uno schermo televisivo sintonizzato su un canale morto”.

Qui Case si barcamena nel sottobosco criminale, un limbo popolato da altri espatriati come lui, continuamente esposto al pericolo di avere a che fare con delinquenti senza scrupoli: “[…] gli affari erano un costante ronzio subliminale, e la morte la punizione accettata per la pigrizia, la negligenza, la mancanza di grazia, l’incapacità di badare alle esigenze di un intricato protocollo”. Le sue giornate trascorrono tra piccole frodi, rapine, traffici di tecnologia di contrabbando, e la vana speranza che nelle cliniche abusive giapponesi venga approntata la metodologia necessaria a riparare il danno che gli hanno arrecato.

“Era qui da un anno e sognava ancora il cyberspazio, ma la speranza sfumava ogni notte, con tutto lo speed che aveva incamerato, le vie traverse e le scorciatoie che aveva tentato a Night City, e ancora adesso vedeva la matrice durante il sonno, reticoli luminosi di logica dispiegata attraverso quel vuoto incolore…”

Finché un giorno viene coinvolto da una misteriosa donna dalle lenti a specchio impiantate nelle orbite e con delle letali lame retrattili nascoste sotto le unghie, una killer dal passato oscuro che si fa chiamare Molly, in una missione top secret per conto dell’altrettanto enigmatico Armitage. Il patto che gli viene offerto è impossibile da rifiutare: Case dovrà prestare il suo talento da cowboy della consolle in cambio della libertà di collegarsi di nuovo al cyberspazio. Ma durante l’operazione che deve restituirgli le funzionalità perdute del suo sistema nervoso, Armitage gli fa impiantare anche delle sacche di tossine letali per assicurarsi la sua piena collaborazione.

Armitage li trascina da un capo all’altro del mondo, passando per Istanbul e lo Sprawl, la conurbazione che si sviluppa sulla costa orientale degli USA da Boston fino ad Atlanta, e li coinvolge in una serie di spedizioni per recuperare programmi informatici o reclutare altri membri della squadra. Alla fine, messo insieme il necessario, li porta su Freeside, una città orbitale su cui si sono ritirati gli ultimi membri del clan industriale dei Tessier-Ashpool, che vivono nel più totale isolamento della loro sfarzosa residenza spaziale, Villa Straylight, dove cercano di perpetuare la dinastia e la sua egemonia socio-politica tra rapporti endogami, clonazione, vasche criogeniche e costrutti artificiali in grado di gestire autonomamente l’impero economico-finanziario della famiglia. L’obiettivo della missione, scopriranno Case e Molly, è di rimuovere i blocchi imposti dalle contromisure di sicurezza e consentire alle intelligenze artificiali costruite dalla defunta Marie France Tessier di intraprendere un percorso di sviluppo automigliorativo, trasformandosi in qualcosa che l’umanità non ha ancora conosciuto.

La precessione dei modelli
In Neuromante ritroviamo le stesse atmosfere che avevamo imparato ad apprezzare in alcuni film di pochi anni antecedenti (Blade Runner di Ridley Scott, ma anche 1997: Fuga da New York di John Carpenter, di cui tra le righe di Gibson troviamo anche altro), ma soprattutto rivivono, opportunamente rielaborati, codici ed elementi che possiamo ricondurre ad Alfred Bester (Destinazione stelle), Samuel R. Delany (Nova e Babel 17), Philip K. Dick (Le tre stimmate di Palmer Eldritch, La svastica sul sole), e ancora Harlan Ellison, Daniel F. Galouye, James Tiptree Jr., senza dimenticare la vasta influenza esercitata sulla sua scrittura dalle opere di J. G. Ballard, William S. Burroughs e soprattutto Thomas Pynchon, l’ascendenza riconducibile alla scuola hard-boiled di Dashiell Hammett e ai film noir, la musica rock di Lou Reed e dei Velvet Underground, e il dub giamaicano citato a più riprese. Ma incommensurabile è anche l’influenza che il lavoro di Gibson avrebbe prodotto sulla cultura successiva.

Nella grande mappa genealogica del genere, è facile tracciare una linea di discendenza che da Gibson arriva al future noir di Michael Marshall Smith e Richard K. Morgan o al lavoro di Cory Doctorow e Lauren Beukes, così come quella che da Sterling giunge ad Alastair Reynolds, e dalle visioni e intuizioni di Gibson e Sterling insieme hanno certamente attinto molto Charles Stross e in Italia tutto il gruppo dei connettivisti. Ma al di là dei confini del genere, ritroviamo schemi e codici di Neuromante e della letteratura cyberpunk, quando non proprio omaggi diretti, in romanzi pubblicati nell’alveo della letteratura mainstream (Rabbia di Chuck Palahniuk, per esempio, ma pensiamo anche ai lavori di Jonathan Lethem e David Foster Wallace), in film come Strange Days di Kathryn Bigelow, la trilogia di Matrix di Lana e Lilly Wachowski, Inception di Christopher Nolan, in un numero imprecisato di manga e anime giapponesi, da Ghost in the Shell di Masamune Shirow a Cowboy Bebop di Shin’ichiro Watanabe, e in fumetti italiani come Nathan Never, in particolare diverse storie uscite a firma di Bepi Vigna (sceneggiatura) e Roberto De Angelis (disegni) come Cybermaster (Nathan Never Speciale n. 1) e Vendetta Yakuza (Almanacco della Fantascienza 1993), o ancora Cacciatori di virus (scritto anche questo da Vigna per i disegni di Onofrio Catacchio), oltre che in videogiochi di successo planetario come la sequenza di Deus Ex e il già citato Cyberpunk 2077. Anche se i suoi creatori si affrettarono a dichiararne conclusa l’esperienza già nei primi anni Novanta (Gibson e Sterling 2001), la sensibilità cyberpunk ha trovato il modo per sopravvivere, evolvere e arrivare fino a noi, e questa veloce panoramica testimonia la continuità di un dialogo anche tra media diversi che ha senz’altro contribuito alla perpetuazione di stilemi e tematiche.

Il discorso sul corpo e sui suoi limiti naturali si è spostato per saldarsi al dibattito più ampio che coinvolge la definizione e i rapporti di genere, e noi tutti ci siamo incamminati in un percorso “autoevolutivo” che ci ha trasformati in cittadini di quella che il filosofo Luciano Floridi chiama Infosfera, l’ambiente artificiale costituito dall’integrazione del cyberspazio con i mass media classici. Siamo entrati, a nostra insaputa, in una nuova condizione esistenziale, che prevede un’immersione continuativa nella rete mondiale: in qualsiasi istante della giornata, generiamo un flusso di dati che viene intercettato e riversato in internet dai nostri device (smartphone, smartwatch, smart TV e ogni altro dispositivo concepito per assicurare una connessione costante alla rete).
Quello che fino a qualche anno fa potevamo chiamare in maniera neutra come “capitalismo delle piattaforme”, in realtà sarebbe ora più appropriato definirlo con la filosofa Shoshana Zuboff “capitalismo della sorveglianza”: le informazioni che produciamo e che non sono utilizzate immediatamente per migliorare i prodotti e i servizi che ci vengono forniti, finiscono infatti per diventare dei prodotti predittivi scambiati dai giganti delle piattaforme su un nuovo mercato per le previsioni comportamentali. È dai dati estratti da questo mercato dei comportamenti futuri che le aziende decidono quali circostanze creare per indurci ad acquistare i loro prodotti e servizi, e tutto questo il cyberpunk aveva saputo intercettarlo quarant’anni fa, come fa lucidamente notare Francesco Guglieri nella sua postfazione all’antologia Mondadori, attestandosi come “la vera e grande letteratura critica del neoliberismo”.

Piratare il sistema operativo del mondo
La valenza politica del cyberpunk ha saputo esprimersi negli ultimi anni con una portata dirompente in alcune serie televisive, raggiungendo un pubblico che i libri del canone avevano potuto intercettare per ragioni anagrafiche solo in parte: se Westworld porta avanti un discorso che attraverso Battlestar Galactica potremmo far risalire fino a Blade Runner, altro capostipite dell’immaginario cyberpunk Mr. Robot è in corrispondenza diretta con il nucleo “neuromantico” del Movimento. Creata da Sam Esmail e prodotta da Universal Cable Productions e Anonymous Content per USA Network, sviluppata in quattro stagioni trasmesse tra il 2015 e il 2019, Mr. Robot è probabilmente il prodotto culturale che ha maggiormente contribuito alla diffusione recente delle tematiche cyberpunk. Ed è interessante notare, fin dalle coordinate spazio-temporali, che l’operazione ha ben poco di casuale: dallo Sprawl di Neuromante (e soprattutto dei suoi seguiti, Giù nel cyberspazio e Monna Lisa Cyberpunk) si passa a New York City, ovvero il cuore pulsante del capitalismo mondiale, con un’attenzione particolare alla Cina e alle sue mire geopolitiche in Africa a giocare un ruolo di primo piano che rispetta la vocazione globalista del filone; e mentre le storie di Gibson e di gran parte dei cyberpunk si svolgevano in un futuro imminente, appena dietro l’angolo, quella di Mr. Robot è di fatto un’ucronia, che ha luogo tra i primi mesi e la fine del 2015, in un intervallo di tempo che concentra una cascata di eventi destinati a cambiare volto alla nostra società. Come a dire: il nostro mondo è già il futuro di quel passato, solo che non abbiamo osato lo sforzo necessario a intraprendere un’alternativa diversa da quello che hanno voluto costruire per noi.

In estrema sintesi, Mr. Robot racconta la storia di Elliot Alderson (interpretato da Rami Malek) e del suo gruppo di hacker, la fsociety, a partire dai preparativi di un piano per colpire al cuore la E Corp, il più grande conglomerato economico-finanziario del mondo. L’attacco, che passerà alla storia come “crollo del 9 maggio”, si prefigge di smantellare “il sistema operativo del nostro mondo” (Mr. Robot, “eps1.0_ hellofriend.mov [1.1]”), azzerando di fatto il debito di ogni cittadino con le banche. Si può immaginare qualcosa di più anarchico e allo stesso tempo cyberpunk?
Alla base del piano troviamo delle ragioni molto personali: lo spirito di vendetta di Elliot, di sua sorella Darlene (Carly Chaikin) e della loro amica d’infanzia Angela Moss (Portia Doubleday), dopo che i rispettivi genitori sono stati uccisi per l’esposizione alla radioattività (o alle scorie tossiche, su questo dettaglio la serie conserva una certa ambiguità) prodotta dalla centrale nucleare della E Corp in cui lavoravano.
In realtà, la storia è molto più sofisticata di così. Innanzitutto perché Elliot soffre di un disturbo dissociativo della personalità che lo porta a dimenticare dettagli importanti del suo passato (inclusa l’esistenza di Darlene) e a costruire degli artefatti psichici, in un’opera continua di riscrittura della sua storia che tiene costantemente in sospeso il rapporto con lo spettatore stesso, che ai suoi occhi è a sua volta un prodotto della sua mente (un “amico invisibile” che lo accompagna dalla prima puntata), così come la proiezione di suo padre, Edward Alderson (Christian Slater), che si sostituisce alla sua personalità dominante nei momenti decisivi dell’operazione. E poi perché il mondo in cui Elliot e la fsociety agiscono è pieno di sfumature: dai loro nemici giurati, il top management della E Corp, capitanato dal CEO Philip Price (Michael Christofer), la seconda o terza persona al mondo più vicina a Dio, come ama definirsi, alle persone con cui lavorano e ai delinquenti di strada con cui si ritrovano ad avere a che fare per procurarsi droga e informazioni, tutti i personaggi sono provvisti di una tridimensionalità che emerge puntata dopo puntata.

Dall’interazione dei rispettivi archi narrativi, scaturiscono in maniera brillante le rivelazioni che aiutano a gettare luce sul loro passato: il ruolo di Darlene e Angela, per esempio, è fondamentale al termine della prima stagione per aiutare Elliot a ricordare chi sia davvero Mr. Robot e cosa significhi per lui; la presenza degli spietati Tyrell Wellick (Martin Wallström), aspirante CTO della E Corp caduto in disgrazia, e di Irving (Bobby Cannavale), implacabile esecutore della Dark Army, lo aiuta a ricostruire a cavallo tra la seconda e la terza stagione la verità sulla notte del 9 maggio e sulla misteriosa Fase 2 del piano; mentre nella quarta stagione saranno la sua terapista Krista Gordon (Gloria Reuben) e Fernando Vera (Elliot Villar), un trafficante di droga violento e megalomane, ad aiutarlo a far emergere l’ultima, crudele verità sepolta sotto le ceneri della sua infanzia. Mentre i cowboy del cyberspazio di Gibson sono antieroi bidimensionali, dal cui passato saltano fuori al più poche schegge affilate, gli hacker di Mr. Robot, così come i loro avversari, hanno fin troppa storia a gravargli sulle spalle e le schegge del passato hanno lasciato sulla loro pelle tagli profondi solo in parte cicatrizzati.

Hackerare il tempo per riconquistare il futuro
Insieme al cyberpunk, Mr. Robot racchiude e rielabora anche numerosi elementi tipici della letteratura dickiana. Quello che è davanti agli occhi dello spettatore fin dalla prima stagione, è il complesso rapporto di Elliot con sua sorella, ma non c’è solo questo. Come hanno imparato i lettori di Dick, le rivelazioni non sono mai definitive, ma nascondono sempre ulteriori livelli di verità: questo appare inevitabile in Mr. Robot fin da quando, dietro la mole titanica della E Corp e del suo plenipotenziario CEO, comincia a profilarsi l’ombra della misteriosa Whiterose (BD Wong), la stessa eminenza grigia che, attraverso la Dark Army, ha fornito al gruppo di Elliot e Darlene il supporto tecnico e logistico necessario a sferrare l’attacco del 9 maggio. Se Elliot è insuperabile ad hackerare le persone (in fondo siamo tutti dei costrutti if then in cui al verificarsi di determinate condizioni reagiamo in funzione dei nostri codici comportamentali… e anche qui troviamo una chiara sovrapposizione con Westworld), il talento di Whiterose, che vive rispettando un rigoroso palinsesto di microappuntamenti e si circonda di orologi provenienti da ogni parte del mondo, consiste nell’“hackerare il tempo” (dal fondamentale “eps1.7_wh1ter0se.m4v”).
Nel pamphlet I cronòfagi Jean-Paul Galibert descrive il Leviatano ipercapitalista come fondato su un progetto ontologico assolutistico, volto a fare in modo che la “redditività sia il principio, la causa unica e il solo criterio dell’essere e del non essere” (Galibert, 2015). Nel nuovo mondo delle piattaforme digitali, non c’è più spazio per la non redditività: tutto ciò che non contribuisce alla produzione di valore non ha ragione di esistere.
In questo modo diventiamo tutti “[…] simultaneamente una quantità di tempo disponibile per la cronofagia e una quantità di denaro disponibile per l’ipercapitalismo. Questa regola si erge a condizione della nostra esistenza, al punto di diventare la nuova condizione umana. Nell’ideale di disponibilità, l’uomo diventa un doppio giacimento di denaro e di tempo da prelevare senza limiti, ma è necessario che si stabilisca un rapporto di equivalenza tra il tempo di cui lo si priva e il denaro di cui lo si alleggerisce” (ibidem).

Whiterose e il suo Deus Group sono la personificazione di questa spinta cronofaga del capitalismo della terza fase. Fin dall’inizio, Whiterose ha un piano che riguarda Elliot, la E Corp e tutti gli altri personaggi principali della serie, coinvolti in un modo o nell’altro nelle sue oscure manipolazioni: completare la costruzione e mettere in servizio un congegno, chiamato semplicemente “la Macchina”, situato nella centrale nucleare di Washington, la stessa in cui lavoravano Edward Alderson e la madre di Angela Moss. Le aspettative che Whiterose nutre verso il progetto sono legate alla sua presunta capacità di realizzare una sorta di ricomposizione della storia, riscrivendo per il verso giusto tutto ciò che è andato storto, ma è una versione che tra i protagonisti della serie è sposata solo da Angela, e solo dopo un drammatico crollo nervoso che la trascinerà da un sempre più ingombrante benché innocuo complesso di Elettra lungo la spirale irreversibile di un sistematico percorso di autodistruzione. Rivolgendosi a Elliot nella puntata baricentrica della serie, Angela chiede (a lui e allo spettatore):

“Se ti dicessi che possiamo fare in modo che tutto torni come prima. […] Prima di tutto. Anche della morte dei nostri genitori. Se potessimo ricominciare dall’inizio. Che saresti disposto a sacrificare perché avvenga?”
(Mr. Robot, “eps3.0_power-saver-mode.h”).

È difficile separare il sogno dalla realtà, ma è interessante notare come il sogno faccia irruzione in Mr. Robot nella duplice veste di illusione e di vita parallela. L’illusione è appunto quella di Angela, che sogna sia possibile far tornare in vita i morti grazie alla Macchina di Whiterose. La vita parallela è quella di Whiterose stessa e della sua duplice identità. Nel mezzo, troviamo persone come Dom DiPierro (Grace Gummer), l’agente dell’FBI che indaga sulla fsociety, insonne e incapace di sognare; e lo stesso Elliot, che invece sogna una vita parallela per sé, i suoi familiari e i suoi amici, un artificio della sua mente da cui rimane esclusa la sola Darlene, che di fatto è il suo reality check.
“A volte il controllo può essere un’illusione” afferma Elliot in una puntata cruciale della seconda stagione. “Ma a volte serve un’illusione per avere il controllo” (Mr. Robot, “eps2.5_ h4ndshake.sme”). È così che la sua lucida follia si rivela l’ultima àncora di salvezza per un mondo minacciato dalle mire predatorie del capitalismo e dalla catastrofe che l’attivazione della Macchina di Whiterose potrebbe provocare. La sua è una lotta contro il tempo e sul campo di battaglia del tempo. Solo strappando il passato dalla morsa dei suoi demoni interiori, potrà infine sperare di riprendere il controllo sul suo futuro. E, così facendo, strapparci alle logiche di sfruttamento che hanno permesso all’ «un per cento più ricco dell’un per cento più ricco del mondo» di giocare senza permesso il ruolo di Dio.
Il cyberpunk è ancora vivo. E non si è mai stancato di lottare insieme a noi.

Letture
  • Alfred Bester, Destinazione stelle, Mondadori, Milano, 2013.
  • Mauro Boselli, Il cyberpunk è tra noi!, in Almanacco della Fantascienza 1993, Sergio Bonelli Editore, Milano, 1993.
  • John Brunner, Rete globale, Editrice Nord, Milano, 1998.
  • Samuel R. Delany, Einstein perduto / Nova, Mondadori, Milano, 2017.
  • Giovanni De Matteo, William Gibson: nessuna mappa per questi territori, Delos Science Fiction, 7 gennaio 2007.
  • Giovanni De Matteo, Il Postumanesimo, sulla frontiera della fantascienza (parte prima), Delos Science Fiction, 7 settembre 2008.
  • Giovanni De Matteo, Rabbia, Fantascienza.com, 4 settembre 2010.
  • Giovanni De Matteo, La mappa del futuro: uno sguardo alla fantascienza dal 1984 a oggi, Next-Station.org, 30 marzo 2014.
  • Giovanni De Matteo, Dove la coscienza splende nel buio: Westworld, Quaderni d’Altri Tempi, 20 luglio 2018.
  • Philip K. Dick, La svastica sul sole, Fanucci, Roma, 2019.
  • Philip K. Dick, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, Fanucci, Roma, 2019.
  • Gardner Dozois, Science Fiction in the Eighties, Washington Post, 30 dicembre 1984.
  • Harlan Ellison, Dangerous Visions, Mondadori, Milano, 1991.
  • Jean-Paul Galibert, I cronòfagi. I 7 principi dell’ipercapitalismo, Stampa Alternativa, Roma, 2015.
  • William Gibson, La notte che bruciammo Chrome, Mondadori, Milano, 1993.
  • William Gibson e Bruce Sterling, Parco giochi con pena di morte, Mondadori, Milano, 2001.
  • Fredric Jameson, Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma, 2015.
  • Larry McCaffery, Il deserto del reale, in Piergiorgio Nicolazzini (a cura di), Cyberpunk, Editrice Nord, Milano, 1994.
  • Piergiorgio Nicolazzini (a cura di), Cyberpunk, Editrice Nord, Milano, 1994.
  • Terry Passanisi, Kipple, Downtobaker, 30 agosto 2018.
  • Salvatore Proietti, Ripensando al cyberpunk, Delos Science Fiction, 18 ottobre 2005.
  • Norman Spinrad, I neuromantici, in Isaac Asimov SF Magazine, maggio-giugno 1993.
  • Vernor Vinge, Il vero nome, Editrice Nord, Milano, 2003.
  • Wu Ming 4, Introduzione, in William Gibson, Neuromante, Mondadori, Milano, 2003.
  • Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, Luiss University Press, Roma, 2019.
Visioni
  • Adam Badowski, Marcin Blacha, Tomasz Marchewka, Cyberpunk 2077, CD Projekt, 2020.
  • Kathryn Bigelow, Strange Days, Fox, 2002.
  • John Carpenter, 1997: Fuga da New York, Eagle Pictures, 2020 (home video).
  • Gruppo Hammer, Hammer, Mondadori, Milano, 2014-2015.
  • Robert Longo, Johnny Mnemonic, Sky, Infinity (streaming).
  • Christopher Nolan, Inception, Warner Bros., 2011 (home video).
  • Mamoru Oshii, Ghost in the Shell, Dynit, 2017 (home video).
  • Ridley Scott, Blade Runner – The Final Cut, Warner Bros, 2015 (home video).
  • Masamune Shirow, Ghost in the Shell, Star Comics, Perugia, 2017.
  • Shinya Tsukamoto, La mutazione infinita di Tetsuo fantasma di ferro, Minerva Pictures Group, 2013 (home video).
  • Bepi Vigna, Onofrio Catacchio, Cacciatori di virus, Nathan Never n. 69, Sergio Bonelli Editore, Milano, 1997.
  • Bepi Vigna, Roberto De Angelis, Cybermaster, in Nathan Never Speciale n. 1, Sergio Bonelli Editore, Milano, 1992.
  • Bepi Vigna, Roberto De Angelis, Vendetta Yakuza, in Almanacco della Fantascienza 1993, Sergio Bonelli Editore, Milano, 1993.
  • Wachowskis, Matrix Trilogy, Warner Bros., 2016 (home video).
  • Shin’ichiro Watanabe, Cowboy Bebop – The Complete Series (Eps. 01-26), Dynit, 2019 (home video).