L’antropologa
dei mondi possibili

Ursula K. Le Guin
Berkeley, 21 ottobre 1929
Portland, 22 gennaio 2018

Ursula K. Le Guin
Berkeley, 21 ottobre 1929
Portland, 22 gennaio 2018


Nel suo libro La natura della cultura, pubblicato nel 1952, Alfred Kroeber, primo allievo di Franz Boas, avanzò la controversa tesi del “superorganico”: secondo Kroeber, la cultura costituisce un ordine di fenomeni autonomi e separati rispetto agli altri livelli in cui si articola la realtà, ossia l’inorganico, l’organico, il sociale e l’individuale.
Kroeber riprendeva dal suo maestro l’idea dell’irriducibilità della cultura ai fenomeni biologici, ritenendo che mentre a livello biologico l’evoluzione avviene per sostituzione, a livello socio-culturale si assiste piuttosto a un processo di accumulazione: le culture e le civiltà si costruiscono aggiungendo sempre pezzi nuovi senza buttare via i vecchi.
È assurdo, quindi, considerare la cultura di un popolo come l’effetto di determinanti biologici; per l’antropologo, il concetto di cultura gode di una sua autonomia scientifica e metodologica. È quel che pensa Lyubov, l’antropologo che segue la spedizione umana sul Pianeta 41 (o “Athshe”) nel romanzo Il mondo della foresta, scritto dalla figlia di Kroeber, Ursula Kroeber Le Guin, nel 1976.

Nel futuro immaginato da Le Guin nei suoi romanzi, l’antropologia gioca un ruolo centrale, determinante: solo attraverso di essa può essere possibile comprendere l’Altro, in questo caso concepito nella sua alterità più radicale, rappresentata da civiltà extraterrestri (per quanto umane, dato che nei romanzi del Ciclo Hainita tutti i mondi sono abitati da specie umane create milioni di anni prima dagli Hainiti). Solo grazie a Lyubov è possibile comprendere la complessa cultura degli Athshiani, che i coloni terrestri chiamano creechie: solo un antropologo potrebbe arrivare a comprendere che se, nella lingua nativa degli Athshiani, il termine Athshe indica sia il loro mondo sia la foresta che lo ricopre, distruggere la foresta per rifornire di legno la Terra significa distruggere il loro mondo, condannare gli Athshiani all’estinzione.
È la rappresentazione in fiction dell’idea-chiave di Boas: la percezione del mondo da parte delle diverse civiltà è il prodotto delle loro culture.
Sebbene molti critici abbiano visto in Le Guin una forte influenza di Ludwig Wittgenstein e del suo famoso pensiero “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, è in realtà a Boas e a Kroeber che bisogna risalire per comprendere la fantascienza di Ursula Le Guin, che ci ha lasciati lo scorso 22 gennaio dopo una lunga e brillantissima carriera di scrittrice, world-builder e di “antropologa” dei mondi possibili.

“La Verità è una questione d’immaginazione”
Il celeberrimo incipit del capolavoro di Le Guin, La mano sinistra delle tenebre, pubblicato nel 1969 e vincitore del Premio Hugo e Nebula, è il manifesto del relativismo culturale boasiano:

“Farò il mio rapporto come se narrassi una storia, perché mi hanno insegnato, nel mio mondo natale, quand’ero bambino, che la Verità è una questione d’immaginazione”(Le Guin, 2003).

Genly Ai, l’inviato dell’Ekumene sul pianeta Inverno (o Gethen, nella lingua nativa), svolge il suo ruolo di osservatore partecipante finendo imbrigliato nei giochi di potere della cultura getheniana e nel tentativo di comprendere le sfumature di una specie ermafrodita che oggi definiremmo genderless, in cui l’identità di genere si assume solo per brevi periodi dell’anno, e varia a seconda del momento.
In questo caso, violando forse l’assunto del padre, Le Guin immagina una società dove le tradizioni culturali sono il frutto della peculiare struttura biologica. Genly Ai se ne rende conto quando comprende che una cultura dove non esistono ruoli di genere definiti rappresenta l’alterità più radicale di tutte, qualcosa in cui l’Ekumene non si è mai imbattuta in tutti i mondi conosciuti: “Suppongo che la cosa più importante, il più pesante elemento singolo nella vita di una persona, sia data dal fatto che sia nato maschio oppure femmina”, spiega al suo compagno d’avventura, il getheniano Estraven.

“In quasi tutte le società questo fatto determina le aspettative, le attività, l’aspetto, l’ideologia, l’etica, la morale, le maniere di una persona… quasi tutto. Vocabolario. Abitudini personali, modo di gesticolare. Persino di mangiare. È estremamente difficile separare le differenze innate da quelle derivate, da quelle imparate” (ibidem).

Le Guin immagina che su Gethen non esistano guerre: esiste la rivalità, naturalmente, e la violenza individuale o di gruppo – una razzia contro un villaggio, per esempio – ma non la guerra tra nazioni. Su Gethen non esiste il concetto stesso di nazione.

In un bellissimo passo del romanzo, Estraven riflette sul concetto:

“Come si fa a odiare una nazione? (…) io non conosco l’espediente per farlo. Io conosco la gente, conosco le città, le fattorie, le colline e i fiumi e le rocce, so come il sole al tramonto, d’autunno, discende sul fianco di un certo campo sulle colline; ma qual è il senso di dare un confine a tutto questo, di dare un nome a esso e cessare di amare là dove il nome finisce di essere applicato? Cos’è l’amore per il paese di una persona; è forse l’odio per quello che non è il paese di quella persona? Allora non è una cosa buona” (ibidem).

La domanda con cui Le Guin ci lascia in questo romanzo è se questa mancanza di nazionalismo e odio etnico sia il risultato della assenza di un’identità di genere definita su Gethen; se le guerre del nostro mondo siano o meno il prodotto di un dualismo estremizzato, “noi” contro “loro”, sempre, tra Est e Ovest, tra Nord e Sud, tra bianco e nero, tra maschio e femmina.
Nel più tardo Il mondo della foresta, gli Athshiani si rivelano incapaci di uccidere. Non conoscono l’omicidio, forse anche perché – ipotizza l’antropologo Lyubov – una sorta di tabù ancestrale li porta a disperdere ogni traccia di odio nei confronti dell’altro quando la loro vittima è distesa a terra indifesa, una posizione di “sconfitta” che rende inutile qualsiasi ulteriore tentativo di infierire. Ma i Terrestri, giunti sul mondo della foresta, ribattezzato New Tahiti – tipico eteronimo colonizzatore – vi portano non solo la deforestazione, ossia la distruzione dell’habitat naturale degli Athshiani, ma anche l’omicidio. E poiché, come spiegava Kroeber, la cultura si evolve per accumulazione, gli Athshiani integrano la nozione dell’omicidio nella loro cultura e la usano per contrastare la colonizzazione terrestre.

“Tu mi hai fatto un dono, l’uccisione dei propri simili, l’omicidio. Ora, per quanto posso, io ti faccio il dono del mio popolo, che è quello di non uccidere”, spiega Selver a Davidson. “Io penso che ciascuno di noi troverà gravoso da sopportare il dono dell’altro” (Le Guin, 1988).

Gli Athshiani hanno un’altra caratteristica che li distingue dalle altre specie dell’Ekumene: non sognano inconsapevolmente durante il sonno, ma per brevi momenti, continuamente durante la giornata, riuscendo a controllare i loro sogni, a orientarli. Questa è forse la chiave del loro pacifismo, perché controllando i sogni – suggerisce Le Guin – essi riescono a controllare il loro inconscio, a sublimare i loro istinti violenti.

“C’era un muro”
Così si apre l’altro grande capolavoro di Ursula Le Guin, I reietti dell’altro pianeta, modesta traduzione dell’originale Dispossessed; an ambiguous utopia, pubblicato nel 1974. L’ambigua utopia è quella di Anarres, pianeta gemello di Urras. Anarresiani e Urrasiani appartengono alla stessa specie, ma generazioni di differenziazione dopo l’esodo su Anarres dei seguaci della filosofia anarchica di Odo hanno enfatizzato le loro differenze estetiche, cosicché l’odio che divide le due culture assume inevitabili caratteri razziali (gli abitanti di Anarres sono più bassi e pelosi dei glabri Urrasiani, un po’ come nello stereotipo razzista nei confronti dei meridionali in Italia; similmente, gli Anarresiani sono considerati puzzolenti).
Prodotto tipico degli anni Settanta, ma che ci parla ancora con freschezza a distanza di decenni e dopo la fine del comunismo, Dispossessed mette in scena una tipica comune anarchica di quegli anni, separata anche geograficamente dalla cultura di provenienza grazie al trasferimento su un altro pianeta. Ma, come in tutte le comuni di quegli anni, gli ideali utopici cedono presto il passo alla realtà: le esigenze di una società di risorse scarse, costretta a sopravvivere su un mondo difficile come Anarres, impone l’economia pianificata; e se anche non esiste un vero governo, il CDP – il comitato che si occupa della distribuzione – di fatto controlla la società.
Nessuno è costretto a lavorare o a svolgere lavori che non desidera, ma l’ostracismo della comunità, per la quale il crimine peggiore è quello di “egoizzare”, ossia pensare solo a se stessi, produce uno stigma che funge da costrizione.

La ricerca scientifica non è gerarchizzata come nel nostro mondo, ma il professor Sabul è di fatto il “superiore” di Shavek, perché può usare le sue reputazione come un potere da esercitare nei confronti dei subordinati, ostracizzando le ricerche che non incorrono nella sua approvazione e potendo anche possedere un proprio ufficio, in barba al concetto base della cultura anarresiana secondo cui nessuno possiede niente. Inevitabilmente, insomma, i tradizionali difetti umani finiscono per avere la meglio anche nell’utopica Anarres, al punto che il protagonista, Shevek, è costretto a mettere su un proprio gruppo per stampare le opere che altrimenti il CDP non permetterebbe di stampare (ufficialmente per esigenze di risparmio della carta) e per aprire un contatto con il mondo gemello di Urras, allo scopo di favorire lo scambio di idee tra le due parti del “muro”.
Storia attuale perché, se anche le comuni anarchiche sono scomparse, l’URSS è crollata e così anche il Muro che divideva le due Germanie, Urras e Anarres ci paiono oggi spaventosamente simili alla Corea del Sud e del Nord, la prima dominata da un’economia di mercato che non guarda in faccia ai ceti meno abbienti e fa dell’arricchimento e del lusso l’unica cifra del suo sviluppo, la seconda apparentemente felice ma dominata da povertà e privazioni.
Dichiaratamente di sinistra, Ursula Le Guin in questo romanzo esplora i limiti delle rivoluzioni – come quella che Shevek tenta senza successo di scatenare su Urras – e l’ambiguo confine tra la felicità comune e quella individuale: la “libertà di un singolo spirito umano”, si domanda Shevek, ha meno importanza di quella della maggioranza?
Alla fine del romanzo, ancora non riesce a darsi una risposta. Ricorda il suo amico Tirin, rinchiuso in un manicomio su Anarres perché le sue commedie mettevano in discussione gli assiomi della filosofia odoniana; ricorda quando, da bambino, con i suoi amici volle sperimentare cosa significasse tenere prigioniero qualcuno in una cella, un’esperienza che gli provocò violenti conati di vomito. In questo senso, Urras e Anarres restano tragicamente simili nelle loro differenze: ambigue utopie entrambe, unite nel loro limitare la libertà dello spirito umano. Concetto, questo, esplorato un anno prima da Le Guin nel suo racconto Quelli che si allontanano da Omelas, il prototipo di tutte le ambigue utopie: una società in cui la felicità comune è possibile solo emarginando l’alterità, rappresentata in quel caso da un bambino nato forse deforme, handicappato, menomato, e tenuto per questo prigioniero in una cella buia, senza alcuna possibilità di comunicare con l’esterno e infettare con la sua differenza la società di Omelas. Mettendo sui due piatti della bilancia, come dirà Shavek, la felicità di Omelas e quella del bambino rinchiuso in una cella, alcuni decideranno che il bambino ha più importanza, scegliendo di allontanarsi volontariamente dalla città utopica della felicità universale.

“Realisti di una realtà più grande”
Lo stesso tema – vero leitmotiv della narrativa leguiniana – è presente anche nel suo romanzo più atipico, La falce dei cieli, del 1971, omaggio palese alla poetica di Philip K. Dick, che di Le Guin fu prima compagno di scuola e poi collega, legati da una reciproca stima e da un rapporto di amicizia e di scambio di idee e opinioni che si protrarrà fino alla morte di Dick.
Ne La falce dei cieli, George Orr è in grado di modificare la realtà attraverso il sogno. Un potere di cui il suo psicanalista, il dottor Haber, si appropria, riuscendo attraverso una macchina da lui progettata e all’ipnosi a controllare i sogni di Orr e modificare la realtà a suo piacimento.
Nel fare ciò, Orr intende perseguire il bene superiore, la felicità universale (ovviamente anche la sua, prioritariamente; ma non a scapito del genere umano). Ogni tentativo in questo senso, tuttavia, finisce presto per presentare crepe e pecche da sanare. Le utopie di Haber sono inesorabilmente ambigue. Come nel racconto di Omelas, in una di esse il bene comune viene salvaguardato attraverso l’eutanasia dei malati di cancro o di altre malattie incurabili. Haber si giustifica:

“Noi, semplicemente, non abbiano posto per gli incurabili, per i portatori di tare genetiche che degradano la specie; non possiamo permetterci le sofferenze che non sono utili a nessuno” (Le Guin, 2005).

Orr tuttavia nota che “l’entusiasmo con cui parlava pareva più vuoto del solito”, chiedendosi “fino a che punto, in realtà, piacesse a Haber il mondo che si era creato” (ibidem). E in effetti il problema consiste proprio nel fatto che ogni nuova realtà creata da Haber non è mai davvero perfetta, cosicché Orr deve continuamente sottoporsi a nuove sedute per tentare di sognare un mondo migliore; finché Orr non si rende conto che la sua libertà personale è, dopo tutto, ciò che più conta, e che attraverso di essa può mettere fine alla folle ossessione di Haber per il miglioramento costante della società umana.
La falce dei cieli esplora, come nel successivo Il mondo della foresta, l’elemento del sogno. In entrambi i romanzi si tratta di un tema apparentemente secondario rispetto a quello principale – l’equilibro tra felicità individuale e bene comune nel primo, la preservazione ecologica e il rispetto delle culture “altre” nel secondo – ma che nell’opera di Le Guin riveste un ruolo inevitabilmente prioritario. Il sogno rappresenta infatti lo sconfinamento rispetto alla realtà percepita.

È nel mondo del sogno che si può diventare “realisti di una realtà più grande”, per usare la felice espressione da lei usata nel discorso di accettazione della medaglia speciale del National Book Awards nel 2014. Ursula Le Guin si è sempre battuta per ampliare i confini del genere, rompere gli steccati che dividono la fantascienza e il fantasy dalla cosiddetta letteratura mainstream o “realista”.
In un suo discorso nel 1973, intitolato Perché gli americani hanno paura dei draghi?, pubblicato nell’antologia di saggi Il linguaggio della notte e che abbiamo ripubblicato qualche anno fa su Quaderni d’Altri Tempi, la questione è affrontata di petto: “Il realismo adulterato è la letteratura d’evasione dei nostri tempi. E probabilmente l’estrema lettura di evasione è quel capolavoro di completa irrealtà che è il bollettino merci del mercato”. Di contro, afferma Le Guin, “il fantastico è vero”, non reale, ma vero.

“I bambini lo sanno. Anche i grandi lo sanno, ed è proprio per questo che molti di loro hanno paura del fantastico. Sanno che la sua verità è una sfida, e persino una minaccia, a tutto ciò che è falso, tutto ciò che è fasullo, inutile e volgare nella vita che si sono lasciati costringere e vivere. Hanno paura dei draghi perché hanno paura della libertà” (Le Guin, 1986).

Con un’ancora maggiore incisività, ritroviamo questo discorso – insieme al tema del sogno – in un bellissimo brano di Il mondo della foresta, in cui l’Athshiano Selver, dotato, come tutti i suoi simili, della capacità di passare a proprio piacimento dallo stato di veglia a quello del sogno, fondendo insieme i due piani della realtà, redarguisce il limitato terrestre Gosse:

“Lei è un realista, signor Gosse. Io e Lyubov abbiamo parlato di queste parole. Un realista è un uomo che conosce sia il mondo sia i propri sogni. Voi non siete sani: non c’è un solo uomo su mille, tra voi, che sappia come sognare.
Neppure Lyubov, e lui era il migliore di tutti. Voi dormite, vi svegliate e dimenticate i vostri sogni, dormite di nuovo e poi vi svegliate di nuovo, e in questo modo passate l’intera vostra vita, e pensate che questa sia l’esistenza, la vita, la realtà! Voi non siete bambini, voi siete uomini adulti, ma insani. Ed è per questo che noi abbiamo dovuto uccidervi, prima che ci faceste diventare pazzi. E ora ritornate pure dentro, a parlare della realtà con gli altri uomini insani. Parlatene a lungo, e bene” (Le Guin, 1988).

Ma no, noi non torneremo dentro: resteremo qui, in questa dimensione tra il sogno e la veglia resa possibile dalla letteratura, attraverso la quale, come ci ha insegnato Le Guin, riusciremo ad afferrare la realtà più grande.

Letture
  • Alfred Kroeber, La natura della cultura, Il Mulino, Bologna, 1974.
  • Ursula K. Le Guin, Il linguaggio della notte, Editori Riuniti, Roma, 1985.
  • Ursula K. Le Guin, Il mondo della foresta, Mondadori, Milano, 1988.
  • Ursula K. Le Guin, I reietti dell’altro pianeta, TEA, Milano, 2002.
  • Ursula K. Le Guin, La mano sinistra delle tenebre, TEA, Milano, 2003.
  • Ursula K. Le Guin, Le face dei cieli, Nord, Milano, 2005.