Noi, schiavi organici
nel mondo dei robot

Antonio Casilli
Schiavi del clic
Perché lavoriamo tutti
per il nuovo capitalismo?
Traduzione dal francese
di Raffaele Alberto Ventura

Feltrinelli, Milano, 2020
pp. 320, € 19,00

Patricia Ryczko
I am REN (2019)
Cast principale: Marta Król,
Marieta Zukowska, Marcin Sztabinski

Produzione: Holly Pictures,
Storygeist, Autorska Pracownia Dzwieku

Distribuzione: Mymovies.it, SciFiClub, 2021

Benedetto Vecchi
Un intellettuale dai piedi scalzi
Una guardia rosse
con le scarpe da tennis
A cura di Sergio Bianchi

DeriveApprodi, Roma, 2021
pp. 94, € 00,00 (free download)

Antonio Casilli
Schiavi del clic
Perché lavoriamo tutti
per il nuovo capitalismo?
Traduzione dal francese
di Raffaele Alberto Ventura

Feltrinelli, Milano, 2020
pp. 320, € 19,00

Patricia Ryczko
I am REN (2019)
Cast principale: Marta Król,
Marieta Zukowska, Marcin Sztabinski

Produzione: Holly Pictures,
Storygeist, Autorska Pracownia Dzwieku

Distribuzione: Mymovies.it, SciFiClub, 2021

Benedetto Vecchi
Un intellettuale dai piedi scalzi
Una guardia rosse
con le scarpe da tennis
A cura di Sergio Bianchi

DeriveApprodi, Roma, 2021
pp. 94, € 00,00 (free download)


Quando usufruiamo di un servizio e tutto fila liscio, siamo grati al dio delle connessioni internet e alla dea (bendata) delle banche dati (che a volte si incrociano). Se abbiamo fretta e il flusso delle nostre faccende incappa in un collo di bottiglia umano, sotto sotto desideriamo l’istantaneo avvento di un mondo governato da robot intolleranti ai deficit organizzativi. Un bel sogno: tutte le promesse della modernità mantenute ed equamente distribuite. D’altro canto, quando ci troviamo a svolgere mansioni noiose o ci sentiamo oppressi da una routine alienante, vedremmo volentieri un robot entrare in scena al posto nostro. O magari in quei momenti vorremmo evitare di provare qualsiasi sentimento ed essere noi stessi robot. Sin dai tempi di Spinning Jenny, la madre di tutti i robot, la macchina filatrice che ha rivoluzionato la manifattura nella seconda metà del Settecento (cfr. Landes, 2000), abbiamo accarezzato l’idea di un futuro popolato da lavoratori artificiali fatti per liberarci dalla fatica e dalla noia.
Oggi però non ci crede più nessuno che i robot ci libereranno dal lavoro. E nemmeno che ce lo ruberanno. Almeno non tutto. Forse ce ne daranno dell’altro: saremo condannati a essere schiavi dei robot perché in competizione con loro o perché avremo il compito di istruirli, monitorarli e assicurarci che tutto fili liscio per il capitalismo dei big data e degli algoritmi.

Il bluff del turco meccanico
Sin dai tempi del finto robot presentato al pubblico dal barone Wolfgang von Kempelen, la piena automazione del lavoro è sempre apparsa come un grande bluff. Ci fu anche Edgar Allan Poe tra i curiosi che giocarono a scacchi con l’automa chiamato “Il turco”. Non era certo classificabile come intelligenza artificiale, visto che le mosse sulla scacchiera venivano decise da scacchisti opportunamente occultati. Eppure il marchingegno suscitò un interesse che prese corpo nel racconto Il giocatore di scacchi di Maelzel (cfr. Poe, 2021). Per quanta strada abbiano fatto i cervelli elettronici, ancora oggi si parla di “turchi meccanici”: un esercito di lavoratori ingaggiati per effettuare lavori digitali ripetitivi. Anzitutto raccogliere dati e catalogarli a uso e consumo di future vere intelligenze artificiali. Questo è lo scenario da cui parte il libro Schiavi del clic: Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo?, un’inchiesta di taglio sociologico che mette in luce alcuni aspetti paradossali del capitalismo digitale di questi anni. L’autore, Antonio Casilli, parte dalla semplice constatazione che i robot, tanto narrati e tanto promessi, in effetti non arrivano mai. Eppure quella promessa fantascientifica ha l’effetto di disciplinare il lavoro contemporaneo attraverso piattaforme che ci seducono  rendendo disponibile forza-lavoro al tocco in una app. Casilli evidenzia una generalizzata tendenza alla svalutazione del lavoro accentuata dalla diffusione di lavori atipici, dal free­lancing, e, più in generale, dalla tendenza al microlavoro e alla parcellizzazione in task sempre più piccoli.

Divide et impera, nel nome dell’ottimizzazione di risorse e costi, del proliferare delle startup e della formazione di un humus utile all’incubazione di nuovi capitalismi. Esistono “operai digitali disseminati ovunque nel mondo” che lavorano dietro le quinte di un’intelligenza artificiale “fatta a mano” (Casilli, 2020). Umani pagati pochi centesimi (o niente) per passare ore a filtrare video, taggare immagini e trascrivere documenti che le macchine non sono ancora in grado di processare. Ecco il livello più basso e apparentemente ineluttabile di una catena di montaggio intellettiva che porta allo sviluppo di software per il deep learning.
Per Casilli è un’impostazione che rende fragile il lavoro sia come categoria concettuale sia come fattore di produzione da remunerare adeguatamente con possibili gravi squilibri sociali. Niente come stipendi bassi e tutele deboli possono rovinare il gusto del futuro e, nello stesso tempo, alimentarne gli sviluppi tecnologici sotto l’egida del liberismo.
Mark Fisher ha parlato di “normalizzazione dell’incertezza” (Fisher, 2020) ovvero un perenne panico a basso livello che si incardina sulla mutevolezza del lavoro e dei cicli economici. Ansia estremamente immersiva perché costantemente stimolata dalle tecnologie per comunicare: mail e messaggi vocali che si insinuano nel tempo libero e nelle ore del riposo. Siamo molto lontani da quella società liberata dal lavoro di cui si favoleggiava nell’era dell’Atomo, poco prima della rivoluzione informatica.
D’altro canto la precarietà “non può essere eliminata” perché “è quella della vita e del corpo” e non abbiamo “una quantità illimitata di tempo da sprecare lavorando” (ibidem). Il lavoro incombe su di noi come mai prima anche perché il nostro tempo “non soltanto poco in termini di quantità, ma anche frammentato, sminuzzato in termini di qualità, risulta altamente funzionale per il capitale” (ibidem). Siamo addestrati a distribuire l’attenzione contemporaneamente su più piattaforme comunicative intrecciando quelle dei desideri con quelle della produzione.

Una tendenza alla parcellizzazione e alla scomposizione già consolidata con il toyotismo (cfr. Butera, 2009) e che oggi comincia a prendere nuove direzioni rese opache dalle retoriche manageriali da industria 4.0. In altri tempi la ricerca costante della divisibilità di qualsiasi compito (compreso quelli comunicativi) in micro-task sarebbe potuta passare per una disturbante fantasia taylorista, ma oggi appare come l’unico approccio organizzativo in grado di favorire la digitalizzazione di ogni cosa in funzione di una futura automazione. Se questa scomposizione costituisce l’antefatto per l’avvento di lavoratori artificiali, bisognerà capire se e come sarà possibile dividere in micro-task delle mansioni delicate come l’accudimento della persona o l’ascolto psicologico. C’è da scommettere che noi umani faremo da cavie preparando il terreno per i robot.

A nostra immagine e somiglianza
Digitalizzazione e automazione sono dunque i punti cardinali del capitalismo contemporaneo. Industria e immaginario hanno riflettuto e riflettono su quale aspetto dovrebbero avere i robot per rendere più fluida e meno stressante la loro introduzione nel mercato del lavoro e, probabilmente, nelle nostre case. Per ora le intelligenze artificiali sono concepite per interagire soprattutto con i nostri dati, un po’ meno con i nostri corpi. Non vi è ancora la necessità di andare oltre il mouse, la tastiera, le superfici tattili e le interfacce vocali. Al momento, le intelligenze artificiali preferiscono presentarsi come entità disincarnate.
Eppure permane nell’immaginario una frequente sovrapposizione grafica tra l’umano e la macchina che guarda a precisi aspetti pratici del futuro. Un computer multipurpose oggi può essere usato per giocare, per regolare la temperatura domestica o per creare musica. Allo stesso modo un dispositivo antropomorfo potrebbe essere in grado di rassettare casa, edificare muri, posare cavi, fare sesso o chissà cosa unificando una vasta gamma di elettrodomestici. Forse un giorno il nostro personal robot sarà in grado di andare a lavorare al posto nostro.

Anche grazie all’immaginario, in futuro si potrebbe arrivare a scavalcare l’effetto Uncanny Valley conferendo un valore psicosociale positivo a un computer dotato di un corpo simile al nostro.
La serie tv Humans descrive traffici emotivi e nessi causali della convivenza umani/robot concentrandosi sulle reazioni emotive in sfere esistenziali molto delicate come la collaborazione domestica o l’assistenza agli anziani. Androidi badanti vengono assegnati dai servizi sociali a chi ne ha bisogno. Tra questi George Millican, un anziano vedovo che non si rassegna a gettare nel cassonetto il suo vecchio synth Odi che conserva un aspetto giovane ma ha i circuiti irrimediabilmente danneggiati. Nonostante sia illegale detenere vecchi androidi, il signor Millican fa di tutto per nascondere in casa Odi, anche perché il ricordo degli ultimi momenti vissuti insieme alla moglie deceduta erano intrecciati proprio con l’arrivo in famiglia di quel particolare dispositivo. Sui possibili risvolti emotivi di una coabitazione umani/robot c’è il film I am REN (2019, foto sotto) che prova a raccontare cosa succede quando una madre ginoide comincia a perdere colpi. In questo film di Patricia Ryczko, bruschi testacoda insinuano la possibilità che la protagonista non sia davvero una macchina ma una madre-moglie del tutto umana affetta da crisi psicotica.

Un’accorta gestione delle soggettive rende ambigui fino alla fine i contorni di un’allucinazione: Renata crede di essere un modello REN, sofisticata governante artificiale in grado di stabilire legami affettivi. Forse è una donna qualsiasi scivolata nella schizofrenia sentendosi inadeguata rispetto alla perfezione delle mogli-madri sintetiche esibite negli spot pubblicitari. Mamma bio impazzita e, dopo vari tentativi di recupero, sostituita da una ginoide. Avvicendamento forse temporaneo o forse definitivo. Ecco la competizione umani/robot in una economia in cui l’elemento empatico comincia a diventare esplicitamente una skill professionale. Robot e post-umani sempre più spesso raccontati nel loro investire energie affettive in rapporti reciproci. Che spesso vanno a male.
Nel romanzo Macchine come me (2019), Ian McEwan parte dalla descrizione di un ambiente domestico arricchito dalla presenza di un robot tuttofare e conduce il lettore verso un ménage à trois amoroso composto da lui, lei e l’androide.

“Dissi: – Mi spieghi come faresti a essere innamorato?
– Non mi offendere, ti prego.
Ma era proprio quello che volevo. – Devi avere un problema a livello di unità di elaborazione.
Adam incrociò le braccia e le appoggiò sul tavolo. Chinandosi in avanti, disse sottovoce: – Allora non c’è altro da dire”
(McEwan, 2019).

Adam, il domestico androide, non è in grado di spiegare al padrone i suoi sentimenti. E cita Arthur Schopenhauer dichiarando di non poter smettere di amare Miranda: “possiamo scegliere tutto ciò che desideriamo, ma non siamo liberi di scegliere che cosa desiderare” (ibidem). Che importa da dove viene il colpo di fulmine? Non sapremo mai cosa pensa o cosa prova un robot, a meno di non essere un robot. Conta solo che l’uomo e le sue macchine sono e rimarranno sempre una coppia di fatto, senza troppe spiegazioni. Senza questa consapevolezza l’integrazione potrebbe risultare alquanto complicata.
Sin da Abissi d’acciaio (1953) di Isaac Asimov, la fantascienza ha immaginato come cambia il groviglio tecnica/società con l’avvento di umanoidi fabbricati dall’uomo. In particolare Asimov immagina robot non come semplice manovalanza, ma come soggetti attivi anche in ruoli delicati come quello del detective di polizia. Di un mondo simile se ne vede una rappresentazione audiovisiva molto efficace in Detroit: Become Human (2018, foto sotto), blockbuster videoludico che si tuffa in questo groviglio raccontando in forma di avventura grafica in prima persona l’impiego di robot in categorie professionali riguardanti la cura della persona e, in casi speciali, le investigazioni di polizia. Non più semplici braccia meccaniche impiegate nelle fabbriche fordiste, i robot entrano nelle case e diventano badanti e babysitter.

Detroit presenta il contesto di segregazione in cui vengono tenuti i lavoratori sintetici e l’emergere di una volontà di emancipazione da parte di quegli stessi lavoratori. Gli umani ne escono complessivamente maluccio visto che per conservare l’esclusività dei diritti civili finiscono col soffocare nel sangue (un liquido blu per la precisione) le rivolte e che arrivano a istituire campi di concentramento per robot. Ma indipendentemente dal fatto che i robot riescano o meno nel loro scopo, in questo Schindler’s List della fantascienza videoludica abbiamo una narrazione in cui trionfano ancora una volta i concetti di prospettiva e di soggettività moderna. Il robot ribelle che reclama diritti è un robot che pensa come noi. Nel videogioco la saldatura soggettiva giocatore/protagonista è ulteriormente amplificata da una immersività tecnologica basata sul fotorealismo e su un attento uso delle inquadrature che ci offrono lo sguardo dei robot Marcus, Kara e Connor. Tecniche di narrazione che rendono ancora forti i legami con l’umanesimo rinascimentale e con l’assetto organizzativo del punto di vista soggettivo.

Discorso e azione politica per una nuova umanità
Oggi il lavoro intellettuale e quello basato sulla sfera emotiva cominciano a sfiorare il raggio d’azione dei sistemi automatizzati. Le mamme robot, gli incroci automazione/accudimento proposti dal film di Ryczko e da serie tv come Raised by Wolves sollevano paradossi riguardanti la nuova umanità solleticando diverse criticità psicosociali del nostro tempo.
All’inizio del 2021 DeriveApprodi ha diffuso un ebook che rende omaggio a Benedetto Vecchi, “intellettuale scalzo” recentemente scomparso. Nei suoi articoli il giornalista romano dimostrava la giusta preparazione tecnica per offrire uno sguardo critico credibile sulla rivoluzione informatica di fine Novecento, arrivando a focalizzare le generali linee evolutive nel lavoro intellettuale a contatto con reti e computer. Per Vecchi, con la fine della grande fabbrica e parallelamente alla crescente domanda di beni e servizi immateriali fruiti tramite dispositivi elettronici, si afferma l’“intellettualità di massa” ovvero quell’abito mentale e professionale di chi vive il tempo delle “produzione reticolari, in cui il sapere tecnico-scientifico e la stessa attività comunicativa” sono “l’elemento fondante della produzione capitalista post-fordista” (Vecchi, 2021).
Nella maggior parte delle sequenze di investigazione del citato videogioco Detroit: Become Human (foto sotto), il giocatore-spettatore sperimenta un parkour sui tetti di sistemi simbolici urbani fortemente segnati dalle tecnologie digitali. Marcus che scappa dalla polizia e che cerca un porto sicuro per androidi rinnegati, segue misteriosi simboli dissimulati tra affissioni murali e intonaci ammalorati. Graffiti metropolitani dalla codifica non difficile se solo si è disposti all’ascolto (e allo sguardo attento, come chi è abituato ad affrontare i tradizionali videogiochi “punta e clicca”). In fondo la quest di Marcus e degli altri androidi di Detroit non è dissimile da un viaggio all’interno del computer alla ricerca della disfunzione (bug) o dell’uscita verso la luce del sole (output). In uno dei suoi articoli Vecchi accosta la metropoli al computer in quanto labirinto di segni mettendo in evidenza come l’unico modo per muoversi bene è trovare “il percorso giusto per non smarrire la strada” (ibidem).

Le bacheche del cyberspazio e le pareti delle metropoli sono cataloghi che condividono un analogo modo di stratificare lo spazio-tempo. Lo stesso vale per il robot immortale che non è soggetto a noia o ad alienazione da routine e che ha di certo una prospettiva temporale molto particolare perché può ricordare tutto e collegarsi al tutto in qualsiasi momento. In una scena di Detroit, Marcus chiama a raccolta androidi sconosciuti raccattandoli in strada con un semplice cenno. Il corteo improvvisato per le vie della città cresce velocemente grazie alla telepatia tra macchine informatiche. Una comunità politica in fieri che si basa su trasmissioni criptate riservate a non-umani. Inediti intrecci tra memorie e saperi possono dare vita a nuove forme democratiche tutte da sperimentare. Nella visione di Vecchi il computer si muove in virtù di codici e dati immagazzinati che riflettono le trasformazioni del contesto urbano nel tempo.
Tra le cartoline che presentano la città di Detroit nel videogioco citato figura The Fist, il monumento al pugile afroamericano Joe Louis. Si tratta di un gigantesco braccio metallico con pugno chiuso, apparizione fugace in una cutscene di raccordo: ottimo simbolo per introdurre l’idea di lotta per l’emancipazione giuridica condotta dalla forza-lavoro robotica, ultimo episodio di una storia che parte dalle rivolte degli afroamericani e dalle rivendicazioni operaiste nella culla del fordismo.

La rete delle intelligenze aumentate
Siamo abituati a mettere le cose in prospettiva e non riusciamo ancora a immaginare un’intelligenza alternativa a quella di un soggetto che sia nel contempo senziente e privo di soggettività. Quando parliamo di etica e cibernetica, cerchiamo il punto di vista dell’intelligenza artificiale presumendo che possa trattarsi di una soggettività figlia della prospettiva umanista. L’emergere di un tipo di coscienza veramente inedita potrebbe invece andare oltre la semplice imitazione di cosa farebbe o penserebbe il soggetto umano ovvero oltre il test di Alan Turing, oltre l’androide replicante tanto vituperato da Philip K. Dick (2017) e, in un altro momento storico, poeticizzato da Ridley Scott nel film Blade Runner. Una coscienza artificiale veramente altra rispetto a ciò che definiamo essere senziente e autocosciente dovrebbe perlomeno dare conto di quell’intelligenza collettiva basata sulle voci di tutte le coscienze collegate in rete. Nonché di tutte le pratiche e le teorie che hanno lavorato il codice informatico originario. Forse quello che ci serve per capire meglio un’intelligenza non soggettiva è il ponte concettuale offerto dalle ibridazioni.
Nel saggio Homo cyborg. Il corpo postumano tra realtà e fantascienza, Naief Yehya mette in evidenza le differenze tra robot tradizionali, androidi e cyborg nell’immaginario. Se i primi e i secondi sono costituiti da circuiti elettronici e parti meccaniche, i terzi sono esseri ibridi che di biologico conservano senz’altro il cervello e che aprono tutto il resto del corpo a qualsiasi tipo di innesto o potenziamento tecnologico. Se “il cyborg rappresenta la fusione, la combinazione o la relazione parassitaria tra la sfera biologica e quella culturale” e se stiamo davvero mettendo in discussione “le differenze tradizionali fra l’organico e l’inorganico”, allora stiamo cominciando ad ammettere una “evoluzione guidata della nostra specie” (Yehya, 2017). La coscienza cyborg (o coscienza aumentata) è caratterizzata da una componente organica che sentiamo vicina a noi ma anche da potenziamenti che consentono l’accesso a un universo di informazioni molto più vasto.
Per questa via potremmo renderci conto meglio di quella tendenza a scomporre non solo la realtà ma anche l’apparato cognitivo in parti e funzioni. Lo mostra bene il gameplay di Detroit: Become Human che integra speciali visualizzazioni tattiche che perquisiscono il contesto ambientale proponendo al robot-giocatore sagome e perimetri etichettati e classificati, proiettabili anche nel loro possibile divenire cronologico.

Visioni di robot che discendono dal mitico sguardo in rosso del T-800 modello 101 (foto sopra) in Terminator: occhi che sondano lo spazio alla ricerca di specifiche tracce di calore umano da sterminare o proteggere a seconda del task da completare. Detroit è, in fondo, un giochino che cela, dietro la facciata narrativa ed emotiva estremamente coinvolgente, una sequenza di micro-task molto semplici e con leggere variazioni (proprio come prescrive la fabbrica toyotista) risolvibili con specifiche combinazioni di gesti su pad o tastiera/mouse. La realtà aumentata e le informazioni su cui si basa costituiscono un’allucinazione collettiva consensuale che mette tutti e tutto in connessione perenne. Forme di socializzazione digitale accomunano i droni figli di Skynet in Terminator, i borg di Star Trek e gli homo sapiens che consultano Instagram per decidere quale costume da bagno acquistare. L’uomo moderno può essere automa eterodiretto ma anche decisore supportato dalle voci di un’intelligenza collettiva. Lampi cyborg che ci ricordano quanto siamo un po’ automi ma anche quanto siamo partecipi di un nesso strutturale con gli altri viventi modulato dalle tecnologie per comunicare. Così la prospettiva umanistica è agli sgoccioli.

Letture
  • Isaac Asimov, Abissi d’acciaio, Mondadori, Milano, 1995.
  • Federico Butera, Il cambiamento organizzativo. Analisi e progettazione, Laterza, Bari-Roma, 2009.
  • Alessandro Casilli, Schiavi del clic: Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo?, Feltrinelli, Milano, 2020.
  • Philip K. Dick, Blade Runner, Fanucci, Roma, 2017.
  • Mark Fisher, Il nostro desiderio è senza nome. Scritti politici. k-punk/1, minimum fax, Roma, 2020.
  • David S. Landes, Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri, Einaudi, Torino, 2000.
  • Ian McEwan, Macchine come me, Einaudi, Torino, 2019.
  • Edgar Allan Poe, Il giocatore di scacchi di Maelzel, Rizzoli, Milano, 2021.
  • Naief Yehya, Homo cyborg. Il corpo postumano tra realtà e fantascienza, Elèuthera, Milano, 2017.
Visioni
  • David Cage, Detroit: Become Human, Quantic Dream, 2018 (videogame).
  • James Cameron, Terminator, 20th Century Fox Home Entertainment, 2012 (home video).
  • Gene Roddenberry, Star Trek: The Next Generation – The Full Journey, Sony Pictures Home Entertainment, 2019 (home video).
  • Patricia Ryczko, I am REN, SciFi Club/MyMovies, 2021 (streaming).
  • Ridley Scott, Blade Runner, Warner Home Video, 2016 (home video).
  • Sam Vincent, Jonathan Brackley, Humans, Channel 4, Amazon Prime Video / TIMvision, 2015-2018 (streaming