E il sonno della ragione
creò mostri superstar

Marco Ciardi, Pier Luigi Gaspa
Frankenstein
Il mito tra scienza e immaginario
Carocci, Roma, 2018

pp. 199, € 18,00

Marco Ciardi, Pier Luigi Gaspa
Frankenstein
Il mito tra scienza e immaginario
Carocci, Roma, 2018

pp. 199, € 18,00


A scorrere le pagine del Frankenstein di Marco Ciardi e Pier Luigi Gaspa si resta sbalorditi dall’incredibile numero di film, sceneggiati, opere teatrali, parodie, cartoons, fumetti e altri media in cui è stata trasposta, tradotta (e quasi sempre tradita) l’opera immortale di Mary Wollstonecraft Godwin Shelley, di cui quest’anno si celebrano i duecento anni della prima pubblicazione. La domanda da cui partono i due autori è per quale motivo quest’opera, nata in piena età dell’oro del romanzo gotico e con riferimenti così distanti dai nostri, continui a suscitare tanta attrazione ed emulazione. Per rispondere a questa domanda, nella prima parte del libro lo storico della scienza Marco Ciardi torna a impiegare la stessa metodologia di ricerca già applicata con successo ai suoi studi sul mito di Atlantide e su quello (più moderno) degli antichi astronauti, cercando di ricostruire l’humus culturale in cui l’opera di Mary Shelley si forma e i suoi punti di contatto con la nostra epoca.

L’ultimo dei maghi
Al cuore di Frankenstein sta infatti “una mirabile sintesi di ideali sia romantici sia positivisti, talvolta molto più vicini fra loro di quanto non si possa pensare”, a cui si aggiungono “caratteristiche illuministe”. Spesso si dimentica infatti – perché molti, sottolineano gli autori, non hanno in realtà letto il romanzo originale, ma solo qualche trasposizione poco fedele – che l’opera di Mary Shelley è una sorta di romanzo di formazione di uno scienziato della fine del Settecento, Victor Frankenstein, che alla stregua di Isaac Newton oscilla tra l’essere “l’ultimo dei maghi” (secondo la definizione di John Maynard Keynes; cfr. Rossi, 1997) e il primo degli scienziati moderni.

Non a caso Frankenstein parla ancora di “filosofia naturale”, anziché di scienza vera e propria, perché ci troviamo ancora nel momento di trasformazione della prima nella seconda. Da ragazzino, Frankenstein si imbatte nei testi di Cornelio Agrippa, l’autore rinascimentale del De occulta philosophia, testo fondamentale dell’occultismo, della sapienza segreta e dell’alchimia. Il padre, vedendolo immerso in quelle letture (Victor cita anche Alberto Magno e Paracelso, il quale riteneva possibile attraverso l’alchimia creare l’homunculus, un surrogato artificiale di essere umano), gli consiglia di dedicarsi a opere più moderne, in particolare alla chimica, che inizia ad affermarsi come materia scientifica proprio in quegli anni con gli studi di Lavoisier. Ma quando inizia a seguire un corso di chimica, Victor rimane deluso dalle discettazioni del suo professore, il quale “parlò con molta eloquenza di potassio e di boro, di solfati e di ossidi, termini, questi, che non si collegavano per me ad idea alcuna”. In queste lezioni non trova infatti nulla che possa avvicinarlo alla risposta alla domanda che lo ossessiona: “Da dove, mi chiedevo, veniva il principio vitale?”. È una domanda che ossessiona molti scienziati in quel periodo. Mary Shelley conosceva bene le teorie di Erasmus Darwin sulla generazione spontanea: durante il soggiorno a Villa Diodati, sulle rive del lago di Ginevra, nell’estate del 1816, “l’anno senza estate” in cui, in compagnia di Percy Shelley, Lord Byron e John Polidori, Mary sviluppa l’idea alla base del Frankenstein, ella ricorda che:

“furono discusse varie questioni filosofiche, tra cui la natura del principio vitale e se vi fossero probabilità che venisse scoperto e reso noto. Parlarono degli esperimenti del Dottor Darwin (non mi riferisco a quel che il dottor Darwin fece in realtà, o disse di aver fatto, ma, in quanto più adatto per i miei fini, di quel che si diceva avesse fatto), di come avesse conservato un pezzo di vermicello in un vaso di vetro, finché per qualche ragione straordinaria cominciò a muoversi di moto spontaneo. Non era così, comunque, che si poteva infondere la vita. Forse si sarebbe potuto rianimare un cadavere; il galvanismo aveva dato speranze in questo senso; forse era possibile fabbricare, mettere insieme e dotare di calore vitale le parti che compongono un essere vivente”.

La nuova pietra filosofale: l’elettricità
È al galvanismo, cioè all’applicazione della corrente elettrica sui muscoli degli esseri viventi sperimentata per primo da Luigi Galvani, che Victor Frankenstein si rivolge in cerca del principio vitale. Ciardi ci ricorda che, esattamente come oggi, la nascente fisica dell’epoca era ossessionata dalla ricerca di un principio unificatore, una forza in grado di spiegare tutte le leggi della natura.
Allora, un secolo prima dell’emergere della fisica particellare e della relatività, si guardò con speranza all’elettricità. Come racconta Ernst Benz in Teologia dell’elettricità (2013), è quella l’epoca in cui nascono persino dei “teologi elettrici” che cercano di individuare nella Genesi una spiegazione della forza elettrica, intesa come sostanza incorporea in grado di dare vita all’intero cosmo (“Sia la luce!”), mentre Franz Anton Mesmer con i suoi studi sul magnetismo sconvolge l’intera società europea dell’epoca, sviluppando un’autentica para-scienza, il mesmerismo.
Ciardi ci ricorda, ancora, dagli studi di Giovanni Aldini, nipote di Galvani, che applica l’elettricità ai cadaveri provocando “contrazioni muscolari tali da dare l’impressione di una vera e propria rianimazione”. E nella Ballata del vecchio marinaio di Samuel Coleridge, che Mary Shelley cita nel Frankenstein e che il marito ben conosceva, un fulmine rianima l’equipaggio della nave. I fulmini potenti che accompagnarono il soggiorno a Villa Diodati sono trasposti alla lettera nel romanzo: è alla vista dell’energia che sono in grado di sprigionare che Frankenstein si convince a impiegarli per produrre la scintilla vitale nel mostro che sta assemblando con pezzi di cadaveri.

Non siamo, insomma, semplicemente davanti a un romanzo gotico, di fantasmi e vampiri.
Qui c’è ben altro: sono gli albori della fantascienza, e il Frankenstein rappresenta la prima messa in scena del tema etico del progresso scientifico. Isaac Asimov non a caso parlerà di “complesso di Frankenstein” per definire l’ossessione moderna per il ritrovato scientifico che sfugge al controllo dell’uomo, come nel caso dei robot (un’ossessione oggi più attuale che mai con i dibattiti sull’intelligenza artificiale). Non è un caso, ancora, che gli OGM siano spesso definiti dai loro detrattori “cibo di Frankenstein”, o che questa parola sia usata spesso per definire le ricerche sugli organismi-chimera. Primo testo di fiction a richiamare “al senso di responsabilità degli scienziati”, come ricordano gli autori, Frankenstein rivive oggi non tanto nelle mille trasposizioni cinematografiche e televisive, quasi sempre grossolane, ma nella fiction che s’interroga sui limiti della scienza (avete presente Jurassic Park?) e nei dibattiti contemporanei sull’etica del progresso scientifico.

Letture
  • Ernst Benz, Teologia dell’elettricità, Medusa, Milano, 2013.
  • Paolo Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Laterza, Bari-Roma, 1997.