Visioni del post-umano
tra arte, scienza e hi-tech

NEAR + FUTURES + QUASI + WORLDS
a cura di Manuel Ciraqui

in collaborazione con Silvana Fiorese
Bologna, 5-29 maggio 2022

NEAR + FUTURES + QUASI + WORLDS
a cura di Manuel Ciraqui

in collaborazione con Silvana Fiorese
Bologna, 5-29 maggio 2022


In un testo profetico dei primi anni Settanta, The Image of the Future, il sociologo Fred Polak evidenziò il rapporto tra crisi di immaginazione e scomparsa del futuro. La de-immaginazione, scrisse, stava producendo una de-futurizzazione, ossia una “spietata eliminazione dell’idealismo futuro-centrico [sostituito dal] realismo presente-centrico” (Polak, 1973). Apparentemente questa crisi di immaginazione non sembra toccarci, se guardiamo a quanta importanza rivesta l’immaginario nella società contemporanea: se anche il cinema è in crisi, serie televisive vengono sfornate a ritmi vertiginosi dalle grandi piattaforme di streaming e anche l’industria videoludica sembra essere più in forma che mai.
Eppure, a ben rifletterci ciò non sembra giovare alla capacità di immaginare mondi altri, futuri diversi dalla mera proiezione del presente: pensiamo alle ambientazioni di serie di fantascienza che ricalcano pedissequamente quelle della Terra presente, con poche variazioni sul tema. Mentre invece le “infinite forme bellissime” della natura che l’evoluzione ha generato in milioni di anni ci dovrebbero stimolare ad andare oltre l’immaginario antropocentrico per proiettarci in un possibile futuro post-umano dove le possibilità della scienza sono messe al servizio dell’immaginazione di “strani, nuovi mondi”.

Egor Kraft, Content Aware Studies (foto © Lorenzo Burlando).

È questa la sfida raccolta dalla mostra NEAR + FUTURES + QUASI + WORLDS, nata per celebrare i risultati dei primi cinque anni dell’iniziativa S+T+ARTS della Commissione europea per esplorare le contaminazioni tra scienza, tecnologia e arte, e giunta ora a Bologna grazie a Kilowatt, che nella città gestisce l’innovativo progetto de Le Serre ai Giardini Margherita, luogo di sperimentazione di nuovi modelli di convivenza tra natura e cultura. Le opere esposte, frutto di residenze artistiche ospitate dalle principali organizzazioni e centri di ricerca in Europa e nel mondo, rispondono infatti all’obiettivo di mettere l’innovazione scientifica e tecnologica al servizio di modi nuovi di pensare al rapporto tra l’essere umano e il mondo, riprendendo l’invito di Donna Haraway di “escogitare modi di relazionarsi alla natura che vadano oltre la sua reificazione e possessione” (Haraway, 2019). È l’idea esposta dal curatore, Manuel Cirauqui, filosofo di formazione e specializzato in estetica e teoria dell’arte contemporanea, curatore al Guggenheim Museum Bilbao, attraverso il titolo scelto per tenere unite le opere esposte: pensare a futuri vicini non tanto nel tempo, quanto nello spazio-tempo, ossia a realtà parallele, “quasi-mondi” che si insinuano nelle fessure del reale per farci scorgere altre possibilità.
È il caso per esempio di I’m Humanity, l’installazione del giapponese Etsuko Yakushimaru, basata sul concetto di “musica per la post-umanità”: qui è possibile ascoltare una canzone la cui musica e parole, convertite in codice genetico, formano una sequenza del DNA inserita nel cromosoma di un cianobatterio. Questa forma di vita geneticamente modificata continuerà a replicarsi anche quando l’umanità non esisterà più, conservando al suo interno la sequenza di nucleotidi da cui una futura civiltà intelligente potrà estrarre la musica e scoprire la natura “artefatta” del cianobatterio. In Putting the Pieces Back Together Again il berlinese Ralf Beacker esplora a sua volta le suggestioni di una “vita artificiale” con una ipnotica rappresentazione che ricorda il Gioco della Vita di John Conway (richiamato anche da Yakushimaru): su un piano verticale una vasta serie di tessere che un meccanismo casuale muove in alternativa binaria oraria-antioraria reagiscono l’una ai movimenti dell’altra andando così a formare strutture complesse a partire da comportamenti stocastici. Per Backer si viene così a formare uno “strumento epistemologico”, utile a osservare e pensare a “dinamiche di organizzazione non-gerarchica e collettive”.

Evelina Domnitch e Dmitry Gelfand, Hilbert Hotel (foto © Evelina Domnitch e Dmitry Gelfand).

L’interazione tra algoritmi ed esseri umani è esplorata nelle sue potenzialità dall’americano Refik Anadol con Melting Memories, installazione realizzata in collaborazione con il Neuroscape Laboratory dell’Università della California: l’idea è di osservare “la materia di cui sono fatti i sogni”, o meglio – in questo caso – i pensieri, traducendo i dati raccolti da elettroencefalografie di volontari umani in una resa visiva dell’attività del cervello, che prende la forma di una sorta di mare in tempesta, o anche – dato il colore lattiginoso – di un mare di nebbia, confermando l’ipotesi di Marcel Proust della fisicità e al tempo stesso della nebulosità dell’«immenso edificio del ricordo».
Inquietante appare invece la potenzialità di un’altra ibridazione uomo/algoritmo: quella proposta dal russo Egor Kraft nella serie intitolata Content Aware Studies, in cui a un algoritmo di facial recognition di quelli in grado di riconoscere i volti o di generare a sua volta volti sintetici vengono dati in pasto manufatti che replicano busti dell’antichità, parzialmente rovinati, con il compito di completarne le parti mancanti. In risposta, l’algoritmo genera un’infinita serie di possibili volti non tutti autenticamente umani, sfociando rapidamente nella “valle del perturbante” in cui la nostra coscienza è destinata a smarrirsi di fronte ai tentativi della macchina di replicare l’umano a modo suo.
Tra le opere che stimolano alla riflessione su quanto fragile sia il posto che l’Uomo occupa nel tempo e nello spazio c’è Martian Sun Series di Félicie d’Estienne d’Orves che, usando i dati del Laboratoire de Météorologie Dynamique di Parigi, proietta su una riproduzione topografica della superficie del Marte una luce artificiale mobile che replica intensità della luce e altezza del Sole in tempo reale sul Pianeta Rosso, mentre l’insondabile creazione di Kasia Molga e Robin Rimbaud (in arte Scanner) By the Code of Soil: (de)Compositions consente di osservare il lavorio dei lombrichi che modellano la terra in cui si trovano (all’interno di una colonna di plexiglass), monitorati da sensori che codificano la loro azione in colori e suoni. Ancora, con Setae jacket l’austriaca Julia Koerner realizza un abito che, attraverso la stampa 3D, codifica i colori e la trama della falena Urania del Madagascar, la cui sopravvivenza è legata al destino della foresta pluviale dell’isola africana.
Queste e altre installazioni ospitate fino al 29 maggio nell’Auditorium Enzo Biagi della centralissima Biblioteca Salaborsa di Bologna sono insomma un invito a estendere i nostri sensi oltre i confini dell’Antropocene e a scardinare il “presente esteso” nel quale viviamo, immaginando nuove connessioni e ibridazioni con il mondo non-umano (naturale e artificiale) che ci circonda e l’esigenza di un’alleanza post-umana per garantire alla nostra specie e alle sue evoluzioni un altro futuro, tutto da immaginare.

Letture
  • Donna Haraway, Le promesse dei mostri, DeriveApprodi, Roma, 2019.
  • Fred Polak, The Image of the Future, Elsevier, Amsterdam, 1973.