Sulla narrazione dei limiti:
dalla realtà ai suoi modelli

“Quella che si può tentare di chiamare “la funzione Oppenheimer-Nolan” (o Majorana-Agamben, o Labatut-Von Neumann…) è uno sforzo di pensare le minorità, le singolarità attraverso cui passano tutte le linee che compongono una cultura e la sua storia, e allora uno sforzo a pensare cosa cultura e storia siano nella loro materialità e non soltanto nei loro contenuti, e in relazione alla realtà o la natura che le discipline scientifiche, per esempio, circoscrivono e ordinano secondo le premesse di un certo contesto”.

“Quella che si può tentare di chiamare “la funzione Oppenheimer-Nolan” (o Majorana-Agamben, o Labatut-Von Neumann…) è uno sforzo di pensare le minorità, le singolarità attraverso cui passano tutte le linee che compongono una cultura e la sua storia, e allora uno sforzo a pensare cosa cultura e storia siano nella loro materialità e non soltanto nei loro contenuti, e in relazione alla realtà o la natura che le discipline scientifiche, per esempio, circoscrivono e ordinano secondo le premesse di un certo contesto”.


L’ultimo decennio di Hollywood non è stato dei migliori. Scandali di varia natura, scelte ponderate economicamente ma forse non artisticamente, tentativi sempre più forzati di accattivarsi il pubblico – soprattutto dopo il disastro del periodo Covid – hanno portato l’industry a un momento di crisi culminato con lo sciopero di attori e sceneggiatori nella calda estate di quest’anno a Los Angeles, e che continua ancora oggi. Nelle parole di Scorsese, rilasciate a Zach Baron per GQ a settembre, i film ad alto budget e le produzioni in franchising hanno portato Hollywood sull’orlo del precipizio in cui si trova ora (cfr. Zach, 2023). Il 19 ottobre è uscito il suo ultimo film, Killers of the Flower Moon; a partire dall’omonimo libro di David Grann del 2017, Scorsese ripercorre una delle tante pagine oscure dei giovani Stati Uniti d’America degli anni Venti, relativa all’uccisione degli indiani Osage, “proprietari” (o abitatori) di terre ricche di petrolio in Oklahoma. Sono anche gli inizi dell’FBI, e di un personaggio centrale alla storia, sotterranea e non, degli USA come J. Edgar Hoover – nel 2011 interpretato da DiCaprio nel film biografico diretto da Clint Eastwood.

Un altro aspetto dell’autorialità
Scorsese, forse come Eastwood, è uno di quei registi che può permettersi di tornare indietro a rimestare nel passato, soprattutto perché ha contribuito a suo modo a costruirlo. Spesso, una tale tentazione è espressa attraverso l’idea di testamento artistico, o come nostalgia di gioventù, come può valere per C’era una volta a Hollywood di Tarantino, o Licorice Pizza di Anderson. Hollywood, che ha sempre assunto l’aura di luogo terreno in cui il Cinema è possibile come espressione artistica, assiste in questi anni a un lavoro sottile ma meticoloso di auto-analisi. Capita che le divinità del pantheon hollywoodiano ripercorrano la propria storia non soltanto per fare riassunto dell’arte che hanno prodotto, ma per chiedersi attivamente: cosa è diventata la cinematografia? È solo industria? È produzione di ricchezza? C’è ancora possibilità di sperimentazione cinematografica? C’è ancora chi è capace di scommettere –– e di perdere la scommessa?

La settima arte è, appunto, solo una delle sette, e molto di rado accade che strati culturali si muovano senza che l’intera struttura cominci a travagliare. L’autoanalisi del Cinema (lungi dall’essere circoscritta all’Occidente americano, ma questo è un altro discorso) non rappresenta che un aspetto di un processo più ampio che interessa vari strati, se non tutti, del corpo culturale. Il Cinema non è che un punto di riverbero. 21 luglio (23 agosto per l’Italia) 2023: esce Oppenheimer, l’ultima pellicola di Christopher Nolan, biopic del direttore del progetto Manhattan, progettista della bomba atomica, e fisico occupato nel campo della meccanica quantistica e della fisica delle particelle. Il tema è delicato – soprattutto per gli statunitensi, per il loro ruolo in quel mondo che va dall’immediato dopoguerra alla caduta del muro di Berlino, e invero fino a oggi. Nolan non interviene eccessivamente sul personaggio Oppenheimer, non interpreta attivamente, tenta di narrare e di offrire qualcosa di grezzo, a livello di elaborazione, allo spettatore. Se i vettori non sono chiari nel contenuto, però, ciò obbliga almeno a esaminare la forma d’espressione: Nolan, che per la fisica ha un certo feticismo, sceglie un personaggio oscuro, ambiguo, da cui tanto è dipeso ma che così (relativamente) poco ha rappresentato nell’Olimpo dei grandi, quali sono Niels Bohr, Albert Einstein, Enrico Fermi, anche l’Ettore Majorana fuggitivo (dal mondo o dalla vita che sia), e poi Erwin Schrödinger e Werner Heisenberg. Oppenheimer è stato sempre più storia che fisica (cfr. Bernstein, 2004). Prima di diventare la musa di Nolan, lo scienziato newyorkese è stato una microcelebrity di internet, tra YouTube (il video nel quale cita il Bhagavad Gita contava 20 milioni di visualizzazioni prima dell’uscita del film) e i canali /pol, /his, e /sci di 4chan, con svariati meme e discussioni. Nolan così sceglie di narrare un uomo, le sue scelte, e il peso delle conseguenze; come sul lettino dell’analista, l’importante è la narrazione, il contenuto e la forma. In un tempo in cui le implicazioni del progetto Manhattan e in generale della storia del secolo scorso riemergono dalla scatola di porcellana in cui Fukuyama le aveva chiuse, come scrive Roberto Paura:

“Nell’uscire dal cinema con impresse le drammatiche immagini che chiudono il film, ci resta addosso la tragica sensazione di vivere in questo tempo sospeso tra il mondo che poteva essere se non ci fosse stata Los Alamos, se Hitler non avesse minacciato il mondo, se la fissione dell’uranio fosse stata scoperta solo qualche anno prima, e il mondo che potrebbe essere, quello dell’olocausto nucleare che ancora pende su di noi come una spada di Damocle. Il mondo in cui J. Robert Oppenheimer, suo malgrado, ci ha condannati a vivere”
(Paura, 2023a).

A marzo 2020, Benjamin Labatut pubblica quello che sarà il suo successo planetario: Quando abbiamo smesso di capire il mondo. Non si tratta di un libro di scienza, ma di un qualcosa simile a ciò che Nolan fa col suo Oppenheimer: il racconto della scienza non come rigido tracciato in progressione, ma come patchwork di eventi e situazioni, contingenze e intuizioni. Labatut accompagna il lettore in momenti salienti della vita di scienziati come Heisenberg o Schrödinger, alla ricerca di ciò che sfugge dall’immagine moderna della produzione scientifica e che contrappone a una scienza maggiore, il tracciato rigido, una scienza minore, molecolare, fatta di inciampi e accelerazioni (cfr. Deleuze e Guattari, 1980). Con Maniac (2023), Labatut continua la sua esplorazione nelle potenzialità imprevedibili del progresso scientifico e tecnologico seguendo lo sviluppo da parte di John von Neumann del calcolatore universale MANIAC I, dei prodromi dell’intelligenza artificiale e dei computer quantistici. Qui, è la macchina “pensante”, la sua possibilità, le sue implicazioni a essere in gioco, sempre un lato oscuro o un confine della scienza, un punto in cui la disciplina sembra sfuggire, sembra creare qualcosa di inumano, affacciarsi alla soglia dell’evocazione magica.

La consistenza del reale
Nel 2016 veniva pubblicato di Giorgio Agamben Che cos’è reale?, in cui il filosofo romano utilizzava la scomparsa di Ettore Majorana come espediente per raccontare una svolta insostenibile nell’ontologia (la fisica quantistica parla di una realtà solo probabilistica e dipendente dalla misurazione, opposta a una dura, posizionata, immutabile) attraverso una magnifica performance artistica (Majorana scompare in un orbitale atomico, in una nube di probabilità proprio come la realtà che scopre lavorando con Fermi). La Dea sbeffeggia Parmenide, la sfera perfetta si scinde e si molecolarizza; le particelle corrono, scompaiono e riappaiono, e forse non sono le stesse ma altre e nuove. È anche la letteratura, così, a mostrare una nuova ossessione verso le scienze dure, ed è proprio tale durezza come predicato delle discipline scientifiche a perdere consistenza. La scienza appare così al centro di una rimessa in discussione generale, che non si limita però a tematizzare i contenuti, gli enunciati, i paradigmi che essa produce. È il vero e proprio soggetto d’enunciazione a venire dissezionato in maniere più o meno fini, più o meno educate. Chi fa scienza?

Letteratura e Cinema riscoprono la potenza della narrazione biografica, l’immersione nelle vite di quelle figure che hanno fatto la scienza, soprattutto del secolo scorso, e che hanno contribuito a creare questo mondo. In Mille Piani, nel capitolo Trattato di Nomadologia, Deleuze e Guattari (seguendo Michel Serres) contrappongono, come fossero due stati di un’onda, una scienza canonica e il suo procedere lineare e una scienza minore, modellata su quelle deviazioni imprevedibili e spontanee degli atomi che Epicuro chiamava clinamen, e che gli erano utili a legare assieme la sua fisica all’etica. Tale scienza minore segue il modello del problema e non del teorema, un assetto di guerra invece che una burocratizzazione dello spazio di conoscenza. I personaggi di questa scienza, che Deleuze e Guattari riuniscono come in un lignaggio sotterraneo alla storia, vanno da Lucrezio ad Archimede, da Garin de Troyes a, direbbe Labatut, Schrödinger e Heisenberg. Su questo piano flottante non si fa la conoscenza, ma si è imbricati nel suo formarsi come nelle ossessioni il nevrotico è annodato ai suoi pensieri (cfr. Deleuze e Guattari, 2017). Che cosa fa la scienza?

Il progresso e il sapere
L’importanza di un testo come La condizione postmoderna di Jean-François Lyotard per capire le tendenze intrinseche all’organizzazione e alla produzione del sapere contemporaneo è indiscutibile ancora oggi: una scienza basata sul sapere applicabile dal capitale, un sapere produttivo e che viene finanziato e replicato sulla base della potenza (cfr. Lyotard, 2014) fa ricchezza, accumula possibilità. Che cosa ha fatto la scienza? Che cosa ha legittimato il progresso, quel progresso che è stato di pari passo tecnologico? Che cosa ha legittimato le scelte relative all’applicazione del sapere scientifico nei vari campi? Quel sapere appare così come un inspessimento o un raddoppio della lente attraverso cui la cultura osserva la natura, e sé stessa. Fin da Nietzsche è esplicito come il ruolo della scienza sia tutt’altro che limitato al lato strumentale della conoscenza: la scienza ha occupato sgomitando, nella macchina culturale moderna, il ruolo esistenziale della religione. La religione tenta di rispondere alla domanda sul senso, ma i risultati del sapere prodotto dalla scienza abbattono tali aspirazioni. Nietzsche però ammonisce: la scienza non sarà in grado di riempire questo vuoto d’essere, poiché essa “non ha alcuna considerazione per fini ultimi” (Nietzsche, 1977). La maggioranza non riconosce tale limitazione, e finisce così a venerare la scienza come una sorta di nuova religione, “un valore oggettivo per un’epoca senza Dio” (ibidem). Il filosofo tedesco spinge a fare un passo in più, a non pensare solo in modo critico alla religione, ma a pensare in modo critico alla conoscenza stessa che la scienza porta in dote.

Nel contesto nietzschiano della fine dell’Ottocento, la religione è già un corpo martoriato dalla critica filosofica, ma anche la scienza, nelle sue pretese universalistiche, diventa oggetto di riflessione. Proprio tali pretese, in quanto prodotti di presupposizioni parte di un retroterra storico-culturale unico – fra società religiosa e società secolare vi è molta più continuità di quanto non appaia (cfr. Vattimo, 1989) – manifestano un gioco dialettico fra ciò che a un tempo è dato, ‘naturale’, tradizionale e ciò che è invenzione, cultura, messa in discussione. Nel contesto sociale illuminista europeo, la religione era la funzione naturale, e la reazione razionalistica e positivistica giocava il ruolo dell’invenzione culturale, così come nel contesto dell’illuminismo greco il mito assumeva il valore di datità naturale di quel socius, mentre i filosofi sofisti, opponendovisi, producevano un nuovo movimento della macchina culturale.

Cultura vs Natura
L’ancestrale e macrocosmica opposizione fra cultura e natura, a osservare bene, si replica eguale su strati sempre più piccoli dello stesso mondo umano che tenta di organizzare e descrivere. Fra il naturale e il culturale, che implicano la distinzione fra natura e artificio, fra mondo e umanità, non si costituisce una relazione diretta, ma mediata per contagio. Dalla caduta di Micene alla nascita delle polis corrono circa quattro secoli. Gli storici definiscono questo periodo come “Età Oscura” o il Medioevo Ellenico (cfr. Brisson, 2004), più per mancanza di fonti che ne discutano gli eventi, che per una qualche allusione negativa. L’ottavo e settimo secolo avanti Cristo sono momenti fondamentali, oltre che per lo sviluppo della Grecia classica, per la nascita della Storia come disciplina e forma di conoscenza. Luc Brisson sottolinea, in uno studio del 2004, come l’apparizione di figure come Ecateo di Mileto, Erodoto, e poi Tucidide su tutti si fosse definita a partire dalla risposta alla cultura mitica dei poemi omerici tramandata dagli aedi. Era rassomiglianza, utilità, credibilità che questi “storici” cercavano: Ecateo, figura d’immensa importanza, sarà il primo a spingersi nei luoghi in cui i miti narravano di eventi magnifici alla ricerca di prove, trattando la propria tradizione culturale come un oggetto di studio e di critica.

Brisson, concorde con molti altri storici e grecisti, sottolinea come questo radicale riorientamento del discorso da intensivo a informativo abbia avuto luogo grazie all’elaborazione e diffusione della scrittura fenicia, che i Greci avevano raffinato e semplificato a partire da ciò che rimaneva del lineare b Miceneo. La memoria veniva esteriorizzata sul papiro o sulla pelle d’animale, diveniva consultabile in ogni momento e riferibile a persone la cui presenza era indiscutibile poiché firmavano i documenti che scrivevano (non più voce unica, ma singole unità produttive). Senza lo sforzo di rammemorare, lo storico –– e poi il filosofo –– potevano elaborare, congiungere, produrre. L’introduzione di un agente di trasformazione, come fu la nuova scrittura, aveva portato un cambiamento radicale di considerazione delle premesse e delle presupposizioni di quella stessa cultura. Di cosa parlano i miti? A cosa ci servono? Che verità ci tramandano? Fu tutta una questione di scienza. Quello greco è solo un esempio che rappresenta, direbbe Roy Wagner, le modalità dialettiche attraverso cui invenzione e convenzione compongono una Cultura, e come all’affermarsi di un’invenzione, l’intero corpo convenzionale cominci a muoversi in tale direzione (cfr. Wagner, 2016). Dall’opera fondamentale di Wagner, The Invention of Culture, la nozione di Cultura emerge definita come la meta-prospettiva (la direzione) propria di un certo contesto, manifesta attraverso le azioni e i prodotti degli agenti che compongono tale contesto. Ma la cultura stessa, suggerisce Wagner, non è che il prodotto di un meccanismo dialettico di giustificazione e ordinamento:

“Le culture devono mettere in discussione e analizzare i loro presupposti relativi a ciò che considerano «reale» [o naturale] prima di fare qualsiasi affermazione scientifica. […] Le realtà stesse su cui basiamo le nostre teorie, azioni e istituzioni sono espedienti dell’invenzione umana e dell’interpretazione convenzionale”
(Wagner, 2016; traduzione dell’autore, ndr).

L’introduzione della scrittura semplificata non equivale soltanto a una perturbazione nei sistemi di stoccaggio del sapere, ma nelle modalità stesse attraverso cui si produce il vero – il mondo, la realtà – o lo si rappresenta. La società greca classica si ritrova a porre in questione il mito e la poesia, cioè la trasmissione orale, la figura dell’aedo, e la funzione della memoria, proprio grazie al suo mostrarsi come medium comunicativo e trasmissivo, e non come unità di contenuto ed espressione. Chi fa il mito? Che cosa fa il mito? Che cosa ha fatto il mito? Come in una reazione a catena, le premesse legittimanti di una cultura appaiono contingenti e non più necessarie: l’invenzione (scrittura, testimonianza) pone in questione la convenzione (oralità, mito, ricordo), e da questa relazione emerge la necessità di un’invenzione ulteriore (storia, filosofia) per sopperire alla contraddizione. Se politicamente, ad esempio, il mito legittimava una certa forma di stato, o socialmente definiva una certa struttura di relazioni fra individui, e in generale offriva un senso e una fondazione al mondo, l’introduzione della scrittura semplificata e la conseguente apparizione degli storici e dei filosofi sanciva una torsione profonda dell’intero corpo culturale. Non più l’eternità della parola mitica, ma l’utilità attuale dell’informazione storica (Tucidide); non più l’allegoria poetica, ma la verità geometrica e ideale del discorso argomentativo (Platone). Ma pure: non più la fluidità che contraddistingue divino-natura-umano nel mito, ma la cesura fra mondo terreno e mondo celeste; barbaro e greco; episteme e doxa; pensiero ed essere.

Una ripresa umanistica della scienza
Appare così ingenuo credere che espressioni culturali come Oppenheimer rappresentino appelli angosciati del soggetto postmoderno nei confronti della natura bivalente dell’elettrone (cfr. Lubrano, 2023), come se si trattasse di una mera opposizione fra la natura e il suo disvelamento tramite ciò che chiamiamo cultura. Nolan raccoglie nel suo biopic attorno al tracciato della fisica anche i tracciati della storia e della politica, quelli dell’istituzione e della libera scelta. Ma la ripresa umanistica della scienza e dei suoi protagonisti non rappresenta che un processo che interessa il rapporto stesso fra il culturale e il naturale: nel cercare di portare alla luce i lati oscuri, i confini, le ragioni-per-cui, gli eventi, le origini che concorrono a costruire questo mondo, figure come Nolan, Labatut, ma anche Scorsese, Anderson per la storia del cinema, o Viveiros de Castro con l’antropologia, e Quignard con la letteratura, non si tenta soltanto di trovare le linee minori, i contorni più nascosti che disfano i visi dei vari organi culturali (e del ‘naturale’ a cui si oppongono), e che manifestano l’inconsistenza di una nozione rigida come quella di Cultura. In un processo ampiamente organico, la minorità stessa sembra voler emergere come sede e custode di ciò che si definisce umano.

Il personaggio Robert Oppenheimer di Nolan, imbricato allora nel contesto di una situazione geopolitica di nuova tensione, con una nuova minaccia nucleare dopo i sospiri di sollievo alla caduta del muro di Berlino, in una crisi generalizzata e multi-fronte, appare come una funzione di interrogazione: “cosa è accaduto?”. Una funzione che si ripete negli esempi esterni al discorso scientifico, nell’esempio del Cinema e della sua attuale condizione, eccetera. Tali funzioni non richiedono soluzioni – le risposte alle domande – poiché operano già nella neutralizzazione di queste ultime; non è una problematizzazione, ma la contemplazione di rotture già avvenute: non ostacoli, ma rovine. E non rovine di una cultura, ma di un modo di concepire l’umano e il suo mondo di cui tanto si è discusso; come riconosce Massimo Cacciari in un realismo a tratti forse eccessivo, l’Occidente si sta misurando non con la propria cultura, ma con l’idea stessa di culturalità (cfr. Cacciari, 2020).

“La funzione Oppenheimer-Nolan”
Quella che si può tentare di chiamare “la funzione Oppenheimer-Nolan” (o Majorana-Agamben, o Labatut-Von Neumann…) è uno sforzo di pensare le minorità, le singolarità attraverso cui passano tutte le linee che compongono una cultura e la sua storia, e allora uno sforzo a pensare cosa cultura e storia siano nella loro materialità e non soltanto nei loro contenuti, e in relazione alla realtà o la natura che le discipline scientifiche, per esempio, circoscrivono e ordinano secondo le premesse di un certo contesto. Nel tentativo di far emergere la molecolarità di questo sistema culturale, il suo dipendere da piccoli e impercettibili scatti e fioriture, rotture e fughe, si fa schermo contro le grandi idee normative come quelle stesse di Occidente, di Scienza, di Arte, di Politica.
A essere in discussione non sono solo paradigmi specifici, né l’idea o il progetto di una scienza in generale, ma ciò che fonda il progetto stesso e che rende possibile e intelligibile in prima istanza il “sogno di una riduzione della realtà a numeri, dati e fondamenti logici” (Paura, 2023b). In altre parole, è la nozione e la funzione di modello a diventare problematica. Quando Turing stabilisce “che gli ‘stati della mente’ ipotizzati per la sua macchina potevano essere contati” (Calasso, 2016), lo fa per un’approssimazione conveniente: “Se ammettessimo una infinità di stati della mente, alcuni sarebbero «arbitrariamente vicini» e si confonderebbero” (Turing, 2004, in ibidem). Roberto Calasso intercetta con finezza la minaccia che Turing sente addosso:

“Occorreva schivare il continuo e perciò trattare gli stati della mente come qualcosa che manifestamente non sono: singoli blocchi ben separati”
(ibidem, 2016).

È il rapporto fra la realtà e le sue modellazioni a disfarsi, e quindi a diventare tematizzabile e osservabile. Nel gioco fra incompletezza, utilità, ed efficienza dei modelli rispetto al reale si costituisce, forse, una nozione di conoscenza nuova, una per cui è manifesto il fatto che nessun atto conoscitivo sia mai neutro – né per l’oggetto, né per il soggetto. Il pericolo e il potenziale è che i modelli sovrascrivano il reale:

“Turing sapeva benissimo che il sistema nervoso non era una macchina a stati discreti come la macchina universale da lui stesso ideata nel 1935. Anzi, precisò che “in senso stretto non esistono macchine di quel genere. In realtà tutto si muove in modo continuo”. […] Il cervello non è e non potrà mai essere una macchina a stati discreti ma, in varie circostanze e per motivi diversi, simula di esserlo”.
(ibidem; corsivo dell’autore, ndr).

Letture
  • Zach Baron, Martin Scorsese: “I Have To Find Out Who The Hell I Am.”, GQ, 25 settembre 2023.
  • Jeremy Bernstein, Oppenheimer: Portrait of an Enigma, Ivan R. Dee, Chicago, 2004.
  • Luc Brisson, trad. ing. C. Tihanyi, How Philosophers Saved Myths: Allegorical Interpretation And Classical Mythology, Chicago University Press, Chicago, 2004.
  • Massimo Cacciari, Il lavoro dello spirito, Adelphi, Milano, 2020.
  • Roberto Calasso, Il Cacciatore Celeste, Adelphi, Milano, 2016.
  • Gilles Deleuze e Felix Guattari, Millepiani, Orthotes, Nocera Inferiore (SA), 2017.
  • Filippo Lubrano, Oppenheimer inaugura ufficialmente l’era della quanxiety, L’Indiscreto, 6 settembre 2023.
  • Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna, trad. it. di C. Formenti, Feltrinelli, Milano, 2014.
  • Friedrich Nietzsche, La gaia scienza e idilli da Messina, Adelphi, Milano, 1977.
  • Roberto Paura, Il distruttore di mondi: Oppenheimer secondo Nolan, Quaderni d’Altri Tempi, 15 settembre 2023a.
  • Roberto Paura, La potenza del numero da Pitagora a Von Neumann, Quaderni d’altri tempi, 13 ottobre 2023b.
  • Gianni Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano, 1989.
  • Roy Wagner, The Invention of Culture, Chicago University Press, Chicago, 2016.
Visioni
  • Paul Thomas Anderson, Licorice Pizza, MGM, 2020 (home video).
  • Christopher Nolan, Oppenheimer, Universal Pictures, 2023.
  • Robert Oppenheimer, “I am become Death, the destroyer of worlds”, YouTube, 6 agosto 2011.
  • Martin Scorsese, Killers of the Flower Moon, Paramount Pictures, 2023.
  • Quentin Tarantino, C’era una volta a Hollywood, Universal, 2020 (home video).