MALESSERE DELL'ARTE E INTERVENTI D'URGENZA

a cura di Antonello Tolve e Eugenio Viola

12. EDUCATIONAL TURN,
A PROPOSITO
DEL MUSEO
DEL XXI SECOLO

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di Stefania Zuliani

 

Come non mai oggetto privilegiato di riflessione e di studio, di dibattito e di – paradossale? – esposizione, il museo agli inizi del XXI secolo è a tutti gli effetti un dispositivo culturale ed economico potente, un’istituzione dalle molte e persino contraddittorie funzioni la cui (moderna) nascita è, vale la pena ricordarlo, contestuale – e funzionale – alla definizione della sfera pubblica borghese. Di essa, infatti, il museo condivide incertezze e mutamenti, manifestando e assecondando le spinte normative che hanno governato l’affacciarsi della folla sulla scena della storia non soltanto attraverso il progressivo (ed “esemplare”) ordinamento delle proprie collezioni ma anche, come ha puntualmente sottolineato Germain Bazin nel suo ormai classico Le temps des musées, attraverso la propria sacralizzazione. E proprio quando diviene istituzione pubblica non più riservata ad una ristretta élite di soli amatori ma apre le sue porte ad un’utenza molto più ampia e diversificata, il museo si trasforma in “tempio del genio umano”, assicurando ai suoi visitatori un’esperienza di contemplazione e imponendo un rispetto silenzioso (quasi “come in chiesa”, noterà Paul Valéry) che diverrà poi oggetto degli strali delle avanguardie, le quali stigmatizzando la natura cimiteriale del museo – “Musei: cimiteri! Identici, veramente, per la sinistra promiscuità di tanti corpi che non si conoscono” scriveranno nel loro primo manifesto i Futuristi, presto ripresi anche sulle pagine di Der Sturm – finiranno però con l’evidenziarne, non volendolo, il carattere precipuamente moderno, perché anche il cimitero appartiene, proprio come il museo, a quella famiglia di istituzioni che caratterizzano l’episteme moderna. Da quegli esordi tempestosi e rivoluzionari – il museo, ricordava Georges Bataille, nasce con la ghigliottina – il museo ha vissuto nella sua, tutto sommato breve, storia trasformazioni e ed anche crisi profonde (il critico americano Douglas Crimp negli anni Ottanta del secolo scorso ha lungamente scritto delle “rovine del museo”, che però, e per fortuna, erano soltanto quelle del museo modernista) che non ne hanno però veramente scalfito l’autorità e il valore critico tanto che ancora oggi il museo non smette di essere quello che la storica dell’arte e museologa canadese Griselda Pollock appena qualche anno fa ha definito a critical site of public debate.

 

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Agli inizi del Ventunesimo secolo, in un momento in cui la deriva consumistica e il dilagante trionfo delle architetture performative hanno offuscato proprio il ruolo critico e conoscitivo del museo, la questione più urgente è quella di porre al centro dell’istituzione museale la funzione educativa, di gran lunga la più necessaria tra le molteplici azioni del museo attuale: “Il ruolo decisivo nel fissare i criteri di relazione tra le arti e i vari tipi di pubblico lo svolgono attualmente i musei, al cui vertice si collocano i cosiddetti «dipartimenti curatoriali» o artistici, mentre i «dipartimenti educativi», la cui funzione dovrebbe essere centrale nella relazione tra museo e pubblico, rimangono relegati in secondo piano. Si tratta di un paradosso notevole […], nel caso dei musei pubblici il compito educativo dovrebbe essere l’aspetto centrale che legittima la sua esistenza” (Jimenez, 2007).

Così ha sottolineato José Jimenez, che nella sua Teoria dell’arte non ha mancato di evidenziare la nascita di un “nuovo spettatore” e l’esigenza di creare differenti modalità operative nello spazio del museo, formando “équipe di lavoro flessibili in cui possano intervenire quegli artisti che si confrontano complessivamente con gli aspetti espositivi, comunicativi e pedagogici dell’azione del museo, e che sono in gradi di stabilire un’intercomunicazione con il pubblico, un rapporto più fluido e interattivo con le sue esigenze e i suoi timori” (ibidem). Perché l’educazione al (e nel) museo, è persino superfluo sottolinearlo, non coincide affatto con una lineare trasmissione di contenuti, in quanto, nella prospettiva di una formazione permanente e autenticamente democratica, la pratica educativa si propone oggi, dentro e fuori il recinto museale, come condivisa esperienza interpretativa e creativa (Zuliani, 2009). Come performance, persino, ha suggerito Judith Mastai, guardando al teatro della crudeltà di Antonin Artaud e al coinvolgimento diretto e fisico che in esso si realizzava, un “laboratorio”, ha precisato ancora la sociologa (impegnata nel corso degli anni novanta anche nella cura di alcune mostre nei musei d’arte canadesi generate, e non accompagnate, da specifici programmi educativi), che è lo spazio negoziato in cui impegnarsi nel far emergere l’institutional subjectivity, in un processo –veramente una performance, a un tempo individuale e collettiva – la cui condizione è, radicalmente, il cambiamento.

 

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Il superamento della netta distinzione tra attività di curatela ed attività educativa a favore di un più duttile e trasversale lavoro critico (e non a caso Curating and the educational turn è il titolo di una recente antologia di curatioral studies edita in Inghilterra); la partecipazione attiva del pubblico alla fase progettuale dell’esposizione e non soltanto alla sua fruizione; il contributo in termini di esperienza e di ricerca degli artisti, a cui il museo non dovrebbe assicurare tanto un riconoscimento del percorso compiuto e del lavoro già realizzato quanto l’opportunità di un dialogo con i diversi attori del sistema dell’arte (il pubblico, i critici, i curatori, i collezionisti…) meno esposto alla tirannia del mercato e alle ragioni intransigenti dell’opera; un maggior equilibrio tra le spinte spettacolari e comunicative dell’architettura e le esigenze di riflessione e di confronto aperto proprie di uno spazio pubblico che, in quanto tale, non può che essere ogni volta ridiscusso e rinegoziato, nelle sue forme oltre che nelle sue funzioni e prospettive: sono, questi, gli orientamenti – le sfide – irrinunciabili per il futuro prossimo, e non molto “virtuale”, del museo.
Un museo a venire che, nel Ventunesimo secolo, non potrà rinunciare ad essere uno sbarramento all’omologazione del pensiero e alla standardizzazione dei gesti e dei rituali, uno spazio in cui il sapere sia giustamente difficile da conquistare, una “arena pubblica”, magari temporanea, come ad esempio propone, dopo l’allontanamento di Thomas Krens, il nuovo direttore della fondazione Guggenheim, Richard Armstrong, che ha da poco inaugurato a New York il BMW Lab Guggenheim, una pet-architecture in fibra di carbonio, nomade e ospitale che si propone innanzitutto come una piattaforma di elaborazione relazionale (e non è un caso che Rirkrit Tiravanija, artista negli anni novanta del secolo scorso protagonista di quella che Nicolas Bourriaud ha battezzato appunto l’art relationelle, sia fra le menti dell’operazione) e di mediazione urbana. Un museo leggero e transitorio, destinato a migrare, cambiando continente o anche solo quartiere, talvolta regione (come accade per il Centre Pompidou, che intende affidare a dei tendoni da circo il compito di contagiare del virus dell’arte contemporanea la sonnolenta provincia francese), uno spazio di confronto pensato dalla, e non solo per, la comunità all’interno del quale la memoria si costruisce e la storia di interroga, obbligando allo sforzo, irrinunciabile, dell’interpretazione e della negoziazione dei significati. Un perfetto “luogo per l’incertezza” che non vuole concedere alcuna rassicurazione o consolazione, richiedendo piuttosto l’esercizio costante del dubbio ed il coraggio, personale e collettivo, della responsabilità.

 

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LETTURE

× Bazin Germain, Le temps des musées, Desoer, Paris, 1967.

× Jimenez José, Teoria dell’arte, Aesthetica Edizioni, Palermo, 2007.

× Zuliani Stefania, Effetto museo. Arte critica educazione, Bruno Mondadori, Milano, 2009.