MALESSERE DELL'ARTE E INTERVENTI D'URGENZA

a cura di Antonello Tolve e Eugenio Viola

09. PARLAR CHIARO

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di Pierfrancesco Giannangeli

 

Scriveva un acuto “intellettuale pratico” come Paolo Grassi nel 1946 in un celebre articolo per “L’Avanti!”, intitolato Il teatro, pubblico servizio: “Il teatro, per la sua intrinseca sostanza, è fra le arti la più idonea a parlare direttamente al cuore e alla sensibilità della collettività, mentre il teatro è il miglior strumento di elevazione spirituale e di educazione culturale a disposizione della società. Noi vorremmo che autorità e giunte comunali, partiti e artisti, si formassero questa precisa coscienza del teatro, considerandolo come una necessità collettiva, come un bisogno dei cittadini, come un pubblico servizio, alla stregua della metropolitana e dei vigili del fuoco, e che per questo preziosissimo pubblico servizio nato per la collettività, la collettività attuasse quei provvedimenti atti a strappare il teatro dall’attuale disagio economico e al presente monopolio di un pubblico ristretto, ridonandolo alla sua vera antica essenza e alle sue larghe funzioni” (Grassi, 2009).
Dunque, volendo ricondurre a sintesi i concetti, il teatro è un bene pubblico al servizio della collettività. Affermazione decisiva nell’Italia appena uscita dalla guerra mondiale, e altrettanto attuale per un Paese, come il nostro, ora nell’occhio del ciclone della guerra finanziaria, che non fa morti a causa del fuoco, ma miete vittime in nome del denaro. E quando “pubblico” e “collettivo” entrano in gioco, l’informazione è chiamata a fare la sua parte. Per sua natura, infatti, l’informazione è rivolta a fruitori individuati come massa e il principale criterio di notiziabilità di un fatto è la sua rilevanza per una collettività vasta. 
Nel teatro, così come nelle altre arti, l’informazione è veicolata soprattutto (anche se non sempre) da un personaggio che nel gioco dei ruoli è identificato con la sgradevole definizione di “critico”, una funzione che Silvio D’Amico è riuscito ad alleggerire nei primi passaggi, preludio a una riflessione ben più seria, di una conferenza degli anni Quaranta (D’Amico, 1994). Bene: a nostro avviso una delle più clamorose urgenze del nostro tempo è appunto quella di definire le condizioni di possibilità di una critica che prima di tutto sia informazione. Dunque le ragioni di una critica che non parli a se stessa o al ristretto circolo degli addetti ai lavori. Partendo da una ridefinizione dei ruoli suggerita proprio dallo stesso D’Amico, il critico è prima di tutto un cronista e come tale deve confrontarsi con le materie che ha davanti. Materie, al plurale, poiché sono almeno due. Da una parte infatti c’è lo spettacolo da analizzare, dall’altra il racconto dei fatti destinato al pubblico. Le due cose sono collegate proprio da ciò che rappresenta l’urgenza della nostra epoca: il linguaggio.

 

teatroteatro

 

La lingua, cioè, di quella “letteratura bastarda”, per dirla con Claudio Marabini, che costituisce il sostrato comunicativo dell’informazione culturale (Marabini, 1995). La capacità di interpretare, l’onestà intellettuale, la sincerità nei resoconti sono questioni precedenti, che nel nostro discorso diamo (colpevolmente) per scontate. Quando si sta davanti alla pagina bianca, prima di iniziare un pezzo e immaginando chi ci entrerà in relazione, questi problemi devono già essere superati, altrimenti meglio cambiare mestiere. La domanda allora è un’altra: si possono comunicare significanti e significati complessi in una lingua semplice? Proviamo a far rispondere un giornalista di razza come David Randall, autore anche di libri e interventi decisamente chiarificatori: “Il giornalismo non è letteratura ma, in fondo, neanche gran parte della letteratura lo è. Scrivere sui giornali non è come scrivere un romanzo o un racconto, ma la differenza è meno grande di quanto penserebbero alcuni. Tutti i tipi di buona prosa hanno alcuni elementi in comune: sono chiari e facili da leggere, usano un linguaggio vivace, stimolano e intrattengono. Questo vale tanto per un articolo di giornale quanto per un romanzo e indipendentemente dalla lingua in cui si scrive […]. Un articolo deve sempre essere contraddistinto da chiarezza di pensiero, di organizzazione e di linguaggio. Altrimenti va riesaminato e riscritto” (Randall, 2004).
L’opinione di un giornalista è di parte, potrebbe essere l’obiezione. Ma sarebbe miope. Perché non si può cercare spazio in un medium – e quante lacrime, in questi anni, abbiamo versato perché, ad esempio nei giornali, gli spazi sono contratti: ma è poi così vero, considerando che i modi dell’informazione stanno cambiando con la velocità del nostro tempo, dove oggi non è mai uguale a ieri? – e poi comportarsi come se le regole di quello specifico mondo non esistessero.

 

teatro

 

In sostanza, ciò che cerchiamo qui di dimostrare è che un buon servizio fornito al teatro consisterebbe nell’essere chiari, efficaci, diretti, sintetici. Imparare da altri settori dell’informazione come si racconta un fatto che diventa notizia – e uno spettacolo teatrale è un fatto e come tale va trattato se lo si vuole divulgare a qualcuno, senza tante storie – significherebbe anche ampliare la platea, perché spiegare con termini comprensibili l’universo-teatro è il percorso privilegiato per creare nuovo pubblico e per rinnovare la capacità di ascolto dei frequentatori abituali. Chi è avvezzo a scrivere quotidianamente, poi, sa benissimo che è molto più difficile essere sintetici piuttosto che sovrabbondanti, e che è maledettamente complicato usare termini chiari al posto dell’usuale vocabolario tecnico per pochi intimi. L’accusa di banalizzare, dunque, va rivolta altrove e non a chi si spende per farsi capire. Che la vera difficoltà sia la lingua e non lo spazio, per la critica teatrale, d’altra parte era stato evidenziato già quasi quarant’anni fa da Tullio Kezich: “Ho sentito dire che i giornali italiani dedicano poco spazio alla critica teatrale: a mio parere dedicano uno spazio enorme. Semmai è proprio l’eccesso di spazio che i giornali concedono a questo aspetto della vita civile del nostro paese, che induce forse qualche volta il critico alla divagazione, alla mancanza di icasticità, di precisione e di violenza che molte volte noi lamentiamo […]. Ritorneranno in sede saggistica, come è anche giusto, perché tutto sommato uno spettacolo come il Re Lear uno lo vede la prima volta, va in redazione e che scriva una cartella o ne scriva quattro è perfettamente lo stesso. Basterebbe scrivere un giudizio rapido, essenziale, un pezzo di buona informazione giornalistica per chi poi lo spettacolo non lo vedrà mai, ma in qualche modo ne fruisce attraverso il pezzo del critico” (T. Kezich, 1974).
Appare evidente come il problema sia di linguaggio e non di spazio. Risulta chiaro come la fatica del concetto sia legata alla sua espressione vitale, non a una misura stabilita.
Teatro come bene pubblico a servizio della collettività, diceva allora Grassi. In una società veramente contemporanea ci pare appunto che un’urgenza fondamentale per la vita del teatro sia dunque quella di non girare intorno a un problema centrale come quello del linguaggio dei suoi esegeti, affinché la collettività possa esprimere il suo giudizio anche sui problemi della scena, dopo averli capiti. La responsabilità, per chi è chiamato a spiegarli, è altissima, non dimenticando che il teatro è l’arte che fin dalla classicità greca venne ritenuta la principale forma di espressione e comunicazione umana. Sappiamo di aver citato in questo articolo nomi che arrivano dal passato. Lo abbiamo fatto consapevolmente, poiché ancora oggi sono dei maestri. E non si pensi che l’era di internet ci possa rendere immuni dalle considerazioni fatte fin qui. Anche la rete ha bisogno di essere chiara quando comunica informazioni, a maggior ragione quando si consideri che è in grado di raggiungere un numero illimitato di utenti. Anche le potenzialità infinite hanno bisogno di rigore linguistico. Nel nostro caso ancora di più, in quanto gli argomenti sono settoriali: dipende se si vuol farli rimanere tali. Una necessità, affinché il critico teatrale possa tornare a essere quel gabbiano che vola sulle ali del vento e annuncia la tempesta all’orizzonte. La frase è di Adriano Tilgher, un altro gigante sulle cui spalle possiamo salire per vederlo nitidamente, quell’orizzonte (Tilgher, 1973).

 


 

LETTURE

× D’Amico Silvio, La vita del teatro. Cronache, polemiche e note varie, vol I: 1914-1921. Gli anni di guerra e della crisi, Bulzoni, Roma, 1994.

× Grassi Paolo, Il coraggio della responsabilità. Scritti per l’”Avanti!” 1945-1980, Skira, Milano, 2009.

× Kezich Tullio, Sporcarsi le mani, Bulzoni, Roma, 1974.

× Marabini Claudio, Letteratura bastarda. Giornalismo, narrativa e terza pagina, Camunia, Milano, 1995.

× Randall David, Il giornalista quasi perfetto, Laterza, Roma-Bari, 2004.

× Tilgher Adriano, Il problema centrale. Cronache teatrali 1914-1926, Edizioni del Teatro Stabile, Genova, 1973.