MALESSERE DELL'ARTE E INTERVENTI D'URGENZA

a cura di Antonello Tolve e Eugenio Viola

04. RITRATTO
DELL'IMMAGINARIO
ITALIANO

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di Christian Caliandro

 


Nella nostra città si poteva ricominciare tutto daccapo, 
e in Italia, quanto a cultura (ma anche per il resto)
c’era proprio gran bisogno di ricominciare tutto daccapo.

Luciano Biancardi, Il lavoro culturale


 

Una società chiusa, con problemi strutturali e disfunzioni sociali come quella italiana, inevitabilmente trasmette queste stesse criticità alla produzione culturale. Un Paese e una collettività in declino non possono produrre opere e contenuti di prim’ordine. Semplicemente, non ne sono più in grado: esprimeranno inevitabilmente qualcosa che sia disponibile alla consolazione, alla retorica, all’autocelebrazione.
A meno che… a meno di non fare proprio di questo declino l’argomento dell’elaborazione culturale, e di riflettere criticamente su di esso. A meno di non tematizzare il disagio, riappropriandosi della realtà attraverso l’immaginario, invertendo così il percorso tipico degli ultimi trent’anni. Il vero problema è che, tranne rare eccezioni, questa “trasmissione” non riesce ancora a farsi compiutamente “riflessione”, analisi, interpretazione.
Nell’Italia contemporanea persiste invece ostinatamente il desiderio di negare la realtà. E il modo migliore, più efficace di negarla è offrirne una rappresentazione del tutto dissociata, ideale, finzionale, modellata su schemi importati o sognati. Offrirla agli altri, e soprattutto a se stessi. Così, ogni discorso culturale ruota attorno a premesse esaurite, e fa finta che negli ultimi decenni e anni nulla sia accaduto, se non in meglio. Stiamo continuando una conversazione che si è estinta da tempo: così, per rassegnazione, pigrizia e – soprattutto – paura. Ci aggiriamo nel panorama culturale come spettri, come i guardiani di una città-fantasma. Lo stesso “panorama culturale” è questa città-fantasma.
Ciò accade perché il contesto culturale, in larghissima parte, non riguarda più la realtà – sociale, politica, economica – di cui si nutriva, e della quale era una manifestazione: guarda e riguarda solo se stesso. L’autoreferenzialità del “sistema” non è altro che questo: l’interruzione del legame vitale tra la cultura e il mondo; la dissociazione tra la realtà esterna e il circuito interno, fino al punto in cui il circuito ottunde del tutto la percezione di un contesto più ampio, e si sostituisce ad esso. Come scrive Carla Benedetti: “Dappertutto ci sono ‘giri’, non solo tra i politici, ma anche nei giornali, nelle università e nei luoghi dell’arte. Grazie all’azione di questi meccanismi e di tutti quegli individui condizionati nelle loro scelte, o impegnati a immaginare la media, quella cosa che viene chiamata cultura sta diventando in Italia non solo una zona morta ma anche essa stessa una macchina di sradicamento” (Benedetti, 2011).
Perché ancora oggi ci ostiniamo a lavorare su premesse inventate da altri, seguendo percorsi già definiti e accontentandoci di soluzioni che non ci appartengono, e soprattutto non appartengono in alcuna misura alla vita che stiamo vivendo? Soluzioni artistiche e culturali, soluzioni politiche e sociali progettate in altri tempi e da altre generazioni, per altri individui e per altri fini, in contesti diversi e in sistemi morali diversi.
Eppure, noi oggi ci affidiamo ancora ad esse, sperando che ci servano. Pur di non adottare la prospettiva di crearne di nuove, ci rifiutiamo di accettare che non ci servono, che è assolutamente impossibile che ci servano, e che ci stanno danneggiando.

 

caliandro caliandro
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Il “fare finta di niente”, il continuare per gioco il discorso della cultura su premesse superate e come se nulla fosse accaduto nel frattempo (tanto più se, al di là della convenzione, il lavoro culturale nei fatti si svolge secondo modalità e finalità mutate) è pericoloso perché ci impedisce di andare avanti. Se si vive nella finzione perché è più comodo, non si può poi pretendere che il risultato sia efficace. Se si sceglie di restare lontani – a distanza di sicurezza – dalla realtà, non è possibile immaginare un oggetto culturale che influisca profondamente su di essa. È un atteggiamento infantile. Non si può insomma pensare di realizzare qualcosa di veramente notevole e potente lasciando tutto il resto così com’è: lavorando cioè nella dissociazione, e non sulla dissociazione.
L’attrezzatura culturale in Italia, oggi, tende generalmente ad essere paurosamente inadeguata. L’esplorazione non è una scampagnata, e neanche un’escursione. Gli operatori della cultura in Italia credono invece di poter affrontare la fine tumultuosa di un’epoca, e un mondo sul crinale di trasformazioni ignote e sistematiche, dotati di equipaggiamenti intellettuali ridicoli. Sbagliandosi, ovviamente, e condannandosi all’irrilevanza.
Il non essere all’altezza, perennemente, e il non esserlo con il sorriso sulle labbra, animati dalla convinzione che la proverbiale “arte di arrangiarsi” sia sempre e comunque un metodo infallibile e di successo, che cavarsela sia sempre possibile, è una caratteristica secolare degli italiani che però in questo caso si sta davvero rivelando un’illusione fatale.
Anche perché nulla come un’attrezzatura culturale adeguata può aiutarci oggi a riconoscere il nuovo. E questo è, in definitiva, il senso della critica. Il “nuovo” non è qualcosa che riguarda unicamente le opere d’arte, gli oggetti culturali o le idee: il nuovo è un progetto, orientato alla costruzione della realtà ed alla vita delle persone. 
Forse, l’ostacolo principale risiede proprio nell’idea di “accontentarsi”. Accontentarsi di ciò che si legge, di ciò che si vede, di ciò che si ascolta in giro. Come se il meglio fosse inevitabilmente alle nostre spalle, una festa che è finita prima che arrivassimo. Questo sguardo rivolto costantemente indietro è una trappola mortale. La nostalgia è la rimozione del futuro.
Come in altre fasi storiche, la cultura in questo momento ha il compito di immaginare la nuova Italia. È già accaduto dopo la Seconda guerra mondiale, quando il nostro Paese dovette affrontare e superare i propri traumi, e ricostruire un’identità collettiva: “Fatto eloquente: appena il popolo italiano fu abbandonato dai suoi capi, in quei mesi, si risollevò dalla catastrofe, riacquistò le sue qualità umane, le sue tradizioni di civiltà” (Alvaro, 2011). Una volta strappato il velo delle rappresentazioni fittizie, nuovi romanzi, film, dischi e opere – “nuovi” perché finalmente animati da un atteggiamento diverso rispetto alla propria funzione – ci aiuteranno dunque a capire chi siamo veramente, come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto e soprattutto chi vogliamo diventare. Senza quest’opera fondamentale di prefigurazione da parte dell’immaginario culturale, la sostituzione della vecchia identità non potrà avvenire: assisteremmo, in quel caso, al disfacimento e alla decomposizione finale di ciò che già oggi ci appare privo di vita. C’è bisogno, invece, di generazione e di rigenerazione. C’è bisogno di ricominciare daccapo.

 


 

LETTURE

× Benedetti Carla, Disumane lettere. Indagini sulla cultura della nostra epoca, Laterza, Roma-Bari, 2011.

× Alvaro Corrado, L’Italia rinunzia?, Donzelli, Roma, 2011.