Storie di sistemi integrati,
AI e prospettive distopiche

Loretta B. Angiori
Libellule nella rete
Zona42, Modena, 2023

pp. 328, € 15,90

Loretta B. Angiori
Libellule nella rete
Zona42, Modena, 2023

pp. 328, € 15,90


Libellule nella rete racconta di un mondo tutto sommato piuttosto simile al nostro. Potrebbe tranquillamente essere l’Italia di un futuro non troppo lontano dal tempo in cui viviamo. È evidentemente successo qualcosa, poiché il romanzo è costellato di riferimenti a eventi che hanno costretto gli uomini a una riorganizzazione piuttosto radicale della struttura sociale. Probabilmente si è trattato di un grave disastro ecologico, come si intuisce da quanto viene accennato in diversi passaggi. In questo tempo vivono le due protagoniste principali, Rei e Chiara, che condividono alcune conoscenze comuni, ma che vivono la prima in città e la seconda in una comunità agricola in campagna, dove si è rifugiata per sua stessa ammissione. Entrambe sperimentano un profondo disagio esistenziale, e non riescono a trovare benessere nelle vite che il loro ruolo sociale le induce a fare. L’inquietudine che le anima le spinge a guardarsi intorno, in una ricerca apparentemente caotica, senza un obiettivo particolare, nel tentativo di far emergere le cause di questo malessere che le assilla, e di trovare un qualche modo per venirne a capo. Il loro mondo è un sistema in cui la presenza della rete e dei social network è diventata totalmente invasiva, e quasi tutto ciò che ogni individuo fa o agisce si trasforma e si codifica in informazione diffusa in rete, rendendo così la vita di una persona ampiamente trasparente agli occhi degli altri. Il possesso dei dati, e la gestione degli stessi, diventa il tema centrale intorno a cui ruotano le riflessioni di Rei e Chiara, oltre che gli eventi di cui si narra. La prima vive una vita usuale, ossessionata da una madre iperprotettiva, e ha una attività in rete, dove pubblica contenuti molto basic su di una piattaforma, a proposito di riciclo e di sostenibilità ambientale. La sua ansia interiore la porta, nei suoi momenti liberi, a frequentare ambienti semi illegali, feste clandestine, le parti più oscure e apparentemente meno controllate, ma più pericolose, come verrà a scoprire, di una società che ha fatto del controllo il suo fiore all’occhiello.

Questi luoghi sono effettivamente molto vicini a quel mondo di esperienze alternative e di ricerca che sono stati i centri sociali soprattutto a Milano, dove la ricerca sul cyberpunk è stata particolarmente fertile. A questo proposito nel romanzo è descritta una esilarante assemblea particolarmente infuocata che, per chi vi ha partecipato, è una rappresentazione perfetta di quanto accedeva in certi contesti. Il senso di rabbia interiore che, in ambito differente, prova invece Chiara è legato alla sua difficoltà a fare i conti con un passato di cui inizialmente non sappiamo nulla e che ci viene rivelato solo quando risulta indispensabile alla comprensione del racconto. In questa comunità autonoma dove risiede, nella misteriosa Piana di Urlele (nome apparentemente inventato, ma che potrebbe essere una variante dell’acronimo URL, che definisce ogni indirizzo web), Chiara è a contatto, tra l’altro, con una specie robotica intelligente e autonoma, i mer, esseri eccentrici con cui gli abitanti della comunità convivono pacificamente. L’analisi del loro linguaggio, e il modo in cui hanno deciso di porsi nei confronti degli umani, è uno degli elementi più avvincenti del romanzo, seminando nel lettore l’idea per cui sarebbe possibile un approccio comunicativo radicalmente nuovo.

Infrastrutture virtuali
Il concetto cardine intorno a cui ruota l’intero romanzo è quello di infrastruttura, inteso sia da un punto di vista materiale che da quello virtuale. È Giona, uno dei personaggi, a definire l’orizzonte in cui questo principio trova la sua applicazione:

“Nel decennio passato abbiamo assistito a una propaganda sulla privacy incentrata sulla proprietà dei dati. Questa condizione è stata descritta come la base fondamentale per rivendicare diritti. Tuttavia, questa ipotesi non è mai stata indagata su ampia scala o all’interno del sistema economico reale, nemmeno da chi ne faceva una bandiera del proprio agire. Non siamo riusciti a orientare i discorsi sulla portabilità e interoperabilità dei dati. Dobbiamo tristemente constatare che è stato questo a dare l’impulso allo sviluppo delle attuali infrastrutture. Quello che abbiamo sottovalutato è la schiacciante disparità tra i singoli e le entità proprietarie delle infrastrutture informatiche. Legare una singola identità pubblica alla proprietà dei suoi dati non è stato un terreno di contrattazione, piuttosto la gabbia in cui abbiamo confinato l’utente dopo averlo addomesticato. Allo stato attuale solo la possibilità di avere più identità, non necessariamente riconducibili al singolo, permette di sfuggire a questa nuova forma di oppressione. La libertà di scelta spaventa quelle persone che nascondono forti interessi economici dietro falsi postulati in cui la sicurezza è eletta a condizione cardine del vivere sociale”.

Le infrastrutture virtuali, la somma dei dispositivi integrati, sono il fulcro di un sistema, e quindi di conseguenza anche il suo punto debole, e le infrastrutture diventano visibili quando si rompono. L’integrazione nella rete è nei fatti sinonimo di invisibilità, essendo il virtuale il luogo dove ognuno di noi diventa uno spettro, dove siamo tutti omogenei, dove possediamo dei volti standardizzati, accettabili dal riconoscimento facciale. Gilles Deleuze e Félix Guattari in Mille piani dedicano una intera sezione all’analisi del concetto di “viseità”, a partire dalla percezione del viso come il risultato di un contrasto tra lo sfondo e il rilievo (tra la superficie e il buco, nel loro linguaggio) e proprio dalla distruzione del viso come significante dell’identità potrebbe partire una critica alle infrastrutture virtuali insite in quei dispositivi di controllo che sono i social network, e più in generale la rete. L’emergenza del corpo erotizzato al posto del viso omologante è uno snodo centrale del romanzo, la visione di una sorta di simulacro del sé, che improvvisamente assurge a identità principale. Lasciando a questo punto al lettore, anche al non esperto del linguaggio spesso complesso usato dai personaggi, il compito di seguire la trama fino alle sue conseguenze, è importante mostrare il legame profondo tra l’autrice e la sua opera, che, sebbene non dovuto a priori, qui assume un rilievo assolutamente centrale.

Identità virtuali
Loretta B. Angiori è lo pseudonimo di Loretta Borrelli (Angiori è l’acronimo delle iniziali delle sue sorelle, che lei coinvolge quasi come co-autrici nella pagina dei ringraziamenti), e questo è il suo primo romanzo, ma certo non la sua prima opera. Borrelli difatti ha nel suo curriculum una nutrita serie di pubblicazioni su diverse riviste legate in modo più o meno diretto al mondo digitale, seppur con una prospettiva ampia e variegata, ed è inoltre insegnante di progettazione multimediale presso l’Accademia di Brera. Pur avendo sempre mantenuto una immagine pubblica piuttosto discreta, l’autrice è una figura centrale nel mondo culturale milanese, o almeno in quella parte che, sin dalla fine del secolo scorso, si è posta il problema di comprendere le conseguenze a medio-lungo termine derivate dall’introduzione nella vita di ognuno da noi delle cosiddette nuove tecnologie. Intellettuale e attivista, nella sua ricerca ha sempre cercato di analizzare ruolo e dinamiche della rete sin dalle sue prime emergenze, e certamente può essere inserita tra i pochi italiani riconosciuti interpreti non superficiali di quel mondo. Identità virtuali, intelligenze artificiali, femminismo radicale, l’emergenza di figure per lei cruciali come Ursula K. LeGuin, Donna Haraway, Katheryne Hayles e Antonio Caronia, tutto ciò traspare nelle pagine del romanzo, e la tematica della critica al capitalismo delle piattaforme si rivela il sostrato teorico del romanzo. In particolare, nella riflessione sull’eredità di Caronia, Borrelli ha svolto un ruolo centrale, anche come co-curatrice di due antologie di scritti di e su di lui. Certamente la riflessione su questi temi è ormai pluridecennale, e forse la questione in questo contesto è più rilevante – oggi come oggi – per comprendere il motivo per cui l’autrice è giunta alla conclusione che la narrativa, più che la saggistica, fosse un mezzo adatto a far emergere il lato oscuro delle dinamiche di rete. Come si è visto questo è un tema centrale del romanzo, e a questo proposito è illuminante questo breve estratto di un articolo da lei pubblicato nel 2017:

“Il problema non è se usare un social o no, ma capire, nel momento in cui lo scegli, in che modo vuoi starci. Una critica radicale ai social network prevede una conoscenza molto approfondita dell’algoritmo e delle regole di quel linguaggio. Per aprire un conflitto, bisogna obbedire a quella grammatica e pensare un altro ordine logico. Se invece il desiderio non è quello di risignificare le interfacce e l’algoritmo, ma di usare strumentalmente i social per veicolare un messaggio politico, sento come necessario valutare i rischi e le criticità. Bisogna essere consapevoli che c’è una parola altrui che ti guida e che si è coinvolte in giochi di potere”
(Borrelli, 2017).

Sono parole che potrebbero senza difficoltà essere pronunciate da uno dei personaggi del romanzo, e questo conferma come Libellule nella Rete sia evidentemente il frutto di una lunga meditazione, dato che più si procede nella lettura, più ciò si mostra evidente, e se la prima decisione è stata verso la forma romanzo, la seconda è certamente quella di presentarlo come narrativa di genere. Si trattava di una scelta evitabile, in un contesto editoriale come quello contemporaneo che ingloba facilmente nel mainstream anche gli oggetti narrativi più vari. È quindi più che probabile che si sia trattato di una decisione ponderata, visto che la science fiction fa esplicitamente parte del bagaglio culturale dell’autrice, spingendola verso una adesione consapevole. Come ha scritto la stessa Borrelli

“[…] la fantascienza del secolo scorso è stata la sola forma di letteratura che, a partire dell’ibrido natura/cultura, abbia saputo raccontare l’impensabile, cioè l’umano in rapporto al non umano”
(Borrelli in Caronia, 2020).

È una dichiarazione di appartenenza, insomma, ma contestualmente anche una presa di distanza. Difatti, la science fiction a cui fa riferimento Borrelli non è più quella contemporanea, sul cui statuto si dibatte da tempo. Libellule nella rete è un romanzo, per quanto le tematiche siano evidentemente quelle della nostra quotidianità, che in realtà le affronta con una logica inattuale, nel tentativo di mostrare al lettore quanto c’è di permanente in un meccanismo che appare invero come immemore, instabile e problematico. In un mondo in cui le dinamiche dei social network hanno invaso ogni più piccolo ambito delle nostre esperienze, dove il tema della privacy è IL tema di ogni relazione, dato che diventa estremamente complesso limitare l’accesso altrui alla propria intimità, riuscire a identificare quanto vi è di solido e stabile nell’identità propria e altrui è un compito prometeico, che nel romanzo di Borrelli ognuno dei personaggi deve affrontare nella sua fetta di mondo, e ogni volta che accetta di esistere in quanto connesso.

Una scrittura particolare
Come nei romanzi del Samuel Delany più maturo, manca perciò quasi del tutto il sense of wonder, così come l’avventura viene vista più come un accidente che come una componente prevista dalla narrazione. Si ha una certa difficoltà a identificarsi con i personaggi, che rimangono distanti proprio a causa del loro essere non stereotipati e con un passato sconosciuto al lettore, che emerge con difficoltà nel corso del romanzo. La scrittura è lineare, procede con una paratassi non forzata e adeguata a un ritmo lento e ponderato. Anche gli aggettivi e le metafore sono ridotti all’osso. Vi è stato evidentemente un importante lavoro di editing, teso ad asciugare il testo, così da rendere la lingua una presenza strutturale e concettuale, piuttosto che vettoriale. Borrelli descrive ciò che accade, ma non lascia mai trasparire un filo conduttore teleologico, un senso che porti il romanzo inevitabilmente in una direzione piuttosto che un’altra. Non vi sono afflati e impulsi empatici, se non in minima parte. Questo non vuol dire che manchi il dato umano: i personaggi hanno un passato, un carattere, ambizioni e relazioni (più o meno complicate) da gestire. È però una sorta di patina, dotata di una certa trasparenza selettiva, per cui il lettore viene reso edotto solo di una parte di queste informazioni, mentre incontra dettagli e indizi seminati nel testo a proposito di quanto non esplicitamente dichiarato. È perciò proprio la caratura dei personaggi a renderli veri, e quindi parzialmente nascosti all’occhio dell’autrice, in questo caso volutamente non onnisciente.
La lettura di questi momenti chiave e rivelatori che Borrelli semina nel testo è particolarmente rilevante anche perché sono i momenti in cui realizziamo ciò l’autrice sta cercando di comunicare, e sono anche le circostanze più alte dal punto di vista linguistico. Un esempio su tutti, in un dialogo tra Chiara e Bernardo a proposito di Emma, una comune amica recentemente scomparsa ed il cui ruolo è un elemento centrale della trama:

“Da Emma ho imparato molto […] soprattutto che bisogna smettere di creare strutture confortevoli in cui incastrare quello da cui dipendiamo. Emma cercava di mettere in luce questa tentazione al dominio, giocando con oggetti come i libri e le interfacce. Però non c’è un modo giusto. Tu, io e tanti altri abbiamo imparato grazie a lei che è utile mettere in discussione le cose che diamo per scontate […]. Ma non è mai stato un compito che spetta a una singola persona […]. Siamo in tanti, è più facile farlo insieme … ognuno a modo suo”.

In conclusione, Libellule nella rete non dà risposte sul nostro tempo, come è giusto che sia, tranne un sentito e accorato appello alla comunità, che con i suoi (molti) limiti si rivela ancora in fondo l’unico approccio possibile verso le problematiche della società odierna, che nel romanzo vengono esasperate da una visione eccessivamente individualista. Rei e Chiara, dopo l’incontro delle loro strade e un breve cammino condiviso, si ritroveranno perciò a seguire percorsi diversi, ma entrambe con lo stesso modello di vita, una libellula.

Letture
  • Loretta Borrelli, La Rete è nella nostra realtà. Come starci? Libreria delle donne di Milano, 20 novembre 2017.
  • Antonio Caronia Dal cyborg al postumano. Biopolitica del corpo artificiale, Meltemi Milano, 2020.
  • Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mille piani, Orthotes, Napoli, 2017.