Aspettando l’infoapocalisse:
i tecnognistici di Erik Davis

Erik Davis
Techgnosis.
Mito, magia e misticismo
nell’era dell’informazione
Traduzione di Francesca Massarenti

Produzioni Nero, Roma, 2023
pp. 495, € 32,00

Erik Davis
Techgnosis.
Mito, magia e misticismo
nell’era dell’informazione
Traduzione di Francesca Massarenti

Produzioni Nero, Roma, 2023
pp. 495, € 32,00


Un fantasma si aggira per la tecnosfera contemporanea: è il fantasma dentro la macchina intelligente, il cui manifesto apparve nel 1998 a firma di Erik Davis, il primo a rendersi conto di star assistendo all’inveramento di una profezia di Philip Dick, secondo cui “il nostro mondo ingegnerizzato «comincia a dotarsi di ciò che l’uomo primitivo attribuisce al mondo esterno: l’anima»” (cfr. Dick, 1972). Il titolo, Techgnosis, sintetizzava con felice crasi la convinzione di Davis che il processo di accelerazione tecnologica si stesse trasformando, da motore della secolarizzazione, in promotore di un nuovo reincanto, termine coniato in quegli stessi anni dal filosofo francese Pascal Bruckner.

L’alba del sublime tecnologico: la prima edizione di Techgnosis
Quando diede alle stampe la sua opera prima, Davis era un giovane giornalista culturale di appena 31 anni, nato e cresciuto in California, dove era precocemente andato in fissa con Philip K. Dick, autore al quale aveva dedicato la sua tesi di laura a Yale. Fu tra i primi a mettere le mani sull’enorme e confusa mole di dattiloscritti che Dick chiamava “l’Esegesi”, un tentativo di dare senso alle esperienze mistiche iniziate nel 1974 da cui avrebbe tratto la Trilogia di Valis (1981-1982). In seguito, nel 2011, insieme a Jonathan Lethem Davis portò a termine la faticosa impresa di dare alle stampe un sunto (pur imponente) di quegli scritti (editi in Italia da Fanucci nel 2015); ma già dalle prime letture, si rese conto che Dick incarnava il nuovo spirito del tempo che si respirava in California, dove la controcultura, il tecno-utopismo, la fantascienza, le esperienze allucinogene, la passione per gli UFO e la cultura hacker stavano fondendosi in un tutto che Alberto Abruzzese avrebbe definito, nella prefazione alla prima edizione italiana del libro, “l’odierno californismo universale”.
Il successo di Techgnosis – tradotto in cinque lingue nel giro di un paio d’anni dalla sua prima edizione – si può spiegare con il fatto che appena un anno dopo usciva nelle sale cinematografiche un film di cui il libro di Davis rappresentava la perfetta chiave di lettura: Matrix. In Italia a cogliere l’assoluta innovatività di quel libro che, come recitava il sottotitolo, si occupava di “miti, magia e misticismo nell’età informatica”, fu il gruppo di studiosi di immaginario della facoltà di Sociologia dell’Università di Napoli guidati da Gianfranco Pecchinenda e Antonio Cavicchia Scalamonti che, attraverso la casa editrice Ipermedium, curarono la prima edizione del 2001 nella traduzione di Marcello Buonomo, nello stesso anno in cui per lo stesso editore usciva anche la traduzione di La tentazione dell’innocenza di Bruckner, che presentava la sua tesi del reincanto del mondo (nel 2013 la stessa casa editrice pubblicò poi una prima parte di Codici nomadi, raccolta di saggi di Davis). Fu il primo contatto, nel nostro paese, con un pensiero che andava controcorrente rispetto alle letture sociologiche dell’epoca, mettendo in evidenza il cortocircuito tra il neo-positivismo dei tecno-entusiasti e il misticismo New Age (cfr. Fattori, 2007), oltre un decennio prima che lo storico e futurista Yuval Noah Harari arrivasse a parlare di “datismo” come nuova religione della Silicon Valley (Harari, 2017). Riedito ora da Nero nella traduzione di Francesca Massarenti condotta sulla nuova edizione leggermente rivista dall’autore nel 2015, Techgnosis si propone ai lettori contemporanei come un’opera di sconcertante profetismo, a cui rivolgere la massima attenzione perché, oltre a offrire una lente di interpretazione dei fenomeni avvenuti negli ultimi vent’anni, suggerisce un modo di guardare alle “macrotendenze” del presente per intuirne le future traiettorie. Come scrive l’editore nel risvolto di copertina:

“Dai tempi di AltaVista e Yahoo agli attuali proclami dei vari Elon Musk e Peter Thiel, nulla sembra essere cambiato: il gergo tecnocratico dei geek si condisce di pensiero magico e sfumature occulte […]. In un periodo storico in cui a destra fanno scalpore sogni i sogni immortalità dei «titani hi-tech» e dilagano filosofie come il lungotermismo e l’estropianesimo, Techgnosis torna […] per guidarci ancora una volta tra i sogni utopici e le visioni apocalittiche dell’era digitale”.

Perturbazioni nel campo della realtà
Racconta l’autore nella “Postfazione 2.0” che chiude la nuova edizione americana del 2015 che il punto di partenza fu la sua partecipazione alcuni anni prima dell’uscita del libro “al primo e unico Cyberthon, un raduno tecnologico a motivi cachemire tra i cui relatori figuravano Timothy Leary, Terence McKenna e Bruce Sterling”. A commissionargli un saggio sull’evento fu Mark Dery, critico culturale studioso di cyberculture che nel 1994 curò un numero speciale del “South Atlantic Quarterly” dal titolo Flame Wars: The Discourse of Cyberculture, nel quale fu ospitato l’articolo di Davis, intitolato Techgnosis: Magic, Memory, and the Angels of Information:

“Ben oltre Palo Alto e il MIT, ai margini e sulle reti, fantasmi aleggiano sull’elaborazione dell’informazione tecnologicamente mediata che costituisce sempre più la nostra esperienza. Oggi c’è talmente tanta pressione sull’informazione – la parola, lo spazio concettuale, ma anche la materia stessa – che essa crepita di energia, attirando a sé mitologie, metafisiche, accenni di magia arcana”
(Davis, 1994).

Al centro della riflessione di Davis si situa il concetto di gnosticismo. Era forse un caso, si chiedeva nel suo libro, se la preziosissima biblioteca gnostica di Nag Hammadi ritornasse alla luce tra le sabbie del deserto nel 1945, lo stesso anno in cui esplodeva la prima bomba atomica, ma soprattutto all’alba dell’era informatica inaugurata dalle macchine di Alan Turing? Quella curiosa coincidenza, che tale è solo agli occhi di chi cerca le connessioni nascoste dello zeitgeist, aveva affascinato tra i primi Philip Dick, che nella Trilogia di Valis spedì il vescovo Timothy Archer, dimessosi dal suo ruolo episcopale, nel deserto egiziano per attingere alla vera fonte della rivelazione (similmente a quanto fece il vescovo James Pike, amico di Dick, morto nel deserto della Giudea sulle tracce dei manoscritti di Qumran). Anche senza seguire fino in fondo le ossessioni di Dick, secondo cui una misteriosa intelligenza aliena risalente al tempo dei primi gnostici avrebbe ripreso a mandare messaggi criptati per risvegliare le coscienze assopite, Davis intuì che la tradizione gnostica forniva

“una chiave mitica per il genere di infomania e di pensiero complottista che finì per pervadere il mondo postbellico, terrorizzato da perfide congiure, tecnologie narcotiche e invisibili messaggeri dell’inganno”.

È il caso della teoria dell’informazione sviluppata da Claude Shannon, della cibernetica di Norbert Wiener, della scoperta della struttura a doppia elica del DNA, le cui basi nucleiche avveravano il presagio della mistica ebraica secondo cui Dio avrebbe creato il modo a partire da “una sfilza di lettere cifrate” inscritte nella Torah. Nell’America contemporanea, Davis individuò la variante tecnologica dello gnosticismo nel mito del cyberspazio, uno spazio virtuale a cui per primo William Gibson in Neuromante (1984) diede nome e forma, e nell’utopia dell’estropianesimo, precursore del transumanesimo, con la sua fede nella possibilità di poter liberare la propria anima (o meglio, la propria “informazione”) nel cyberspazio e lì vivere per sempre, liberi dalle costrizioni della carne:

“Il sogno dell’upload può essere ricondotto ai primi decenni dell’era informatica, quando la cibernetica, l’intelligenza artificiale e la teoria della comunicazione lasciavano presagire che la filosofia meccanicistica della scienza moderna potesse finalmente colonizzare il più incorporeo dei territori: la mente umana. Sebbene il corpo fosse stato considerato per secoli una macchina di carne e la psicologia ottocentesca avesse sposato l’immagine del «cervello brulicante», i nuovi approcci ai sistemi d’informazione complessi suggerivano che la mente potesse essere finalmente descritta come un marchingegno nervoso che elaborava cicli di feedback di simboli e precetti e, nel mentre, in qualche modo produceva l’io”.

Davis rintraccia le origini di questa svolta in quella corrente oppositiva alla concezione meccanicistica del mondo che iniziò a farsi strada con Giordano Bruno e gli ermetisti cristiani, prendendo posizione contro la rivoluzione di Cartesio e trovando poi nella teoria dell’elettromagnetismo una conferma della propria visione dell’universo fatta di effluvi, simpatie, attrazioni. Queste concezioni eretiche, di cui furono espressione Ernst Benz e Christoph Oetinger, Franz Anton Mesmer e Madame Blavatsky, sarebbero poi sfociate in quella concezione denominata da Leo Marx (1964) “sublime tecnologico”. La metafora dell’universo come computer, coniata tra i primi dal fisico e pioniere della filosofia digitale Edward Fredkin, non andrebbe dunque letta in chiave meccanicista – una nuova versione dell’universo-macchina – ma in chiave tecnognostica: il computer realizza l’ambizione di creare infiniti mondi virtuali personalizzati completamente smaterializzati, realtà molteplici in grado di sostituirsi all’unica realtà percepita.

Realizzando la profezia dell’iper-realtà di Jean Baudrillard (1981), il cyberspazio rappresenta tuttavia anche una minaccia se messo al servizio dei “nuovi arconti”, come Davis tra i primi si rese conto. Quanto e più dell’LSD a cui gli esponenti della controcultura californiana si erano rivolti negli anni Sessanta e Settanta per realizzare la loro ambizione di esplorare nuovi piani della realtà, il cyberspazio sarebbe stato destinato a mettere in discussione l’esistenza di un un’unica realtà consensuale, rischiando di inverare lo scenario tratteggiato da Philip Dick nel suo romanzo Labirinto di morte (1970), nel quale i protagonisti si rendono conto di vivere in una simulazione tenuta in piedi solo fintanto che la sua esistenza non viene messa in discussione, ma destinata a disintegrarsi non appena se ne cominciano a indagare le fondamenta. Oltre a rappresentare, evidentemente, un’anticipazione di Matrix e una dimostrazione di quanto quel film-cult attingesse a un immaginario di cui Davis si era rivelato il primo esploratore e cartografo, queste considerazioni hanno anche anticipato tutto il moderno dibattito sulla postverità, la manipolazione dell’informazione online e il dilagare del fake, fino al punto da realizzare quella falsificazione della realtà da cui i romanzi e i racconti di Dick ci hanno messi in guardia in tempi non sospetti.
Davis ha intuito per primo il successo a cui erano destinati i meme nell’era informatica, anticipandone anche gli usi “tecnopagani” (per usare un’altra sua espressione) fattene dagli ambienti dell’alt-right americana e l’immaginario della meme magick cavalcato dalla propaganda trumpista. Le teorie della CCRU e dell’accelerazionismo sulla possibilità di avvalersi dei meme come “iperstizioni” per trasformare la realtà sono anticipate in modo sorprendente da Davis, così come l’intuizione che il loro uso per influenzare la realtà tragga ispirazione dal culturame del “pensiero positivo” figlio della New Age.

“Il futuro è il nostro mondo. Il futuro è il nostro tempo”
La datapocalypse profetizzata da Erik Davis nel capitolo eponimo del libro (che fa il verso all’infoapocalisse del romanzo-cult di Neal Stephenson Snow Crash, ampiamente citato Davis) è oggi realtà. Alle grandi narrazioni dei guru tecnologici, che pescando a piene mani dall’escatologia di Gioacchino da Fiore immaginano l’avvento di una nuova Età dello Spirito (è il caso della teoria della singolarità tecnologica propagandata da Ray Kurzweil e dai suoi epigoni) si affianca il tradimento del grande sogno anarco-libertario della Rete dei primordi, destinato a “soccombere alla spinta di forze storiche più prosaiche e, soprattutto, alla potente risacca del denaro e del potere”. Davis ci mette in guardia dal pericoloso darwinismo sociale che emerge nei discorsi dei tecno-utopisti, dall’idea “che le capacità spontanee, simbiotiche e autorganizzanti dei sistemi complessi equivalgono a niente meno che la «mano invisibile» dell’evoluzione”:

“Al posto di vecchi governi stantii, antiquate filosofie umaniste e istituzioni sociali moribonde, dovrebbe essere la novità creativa dell’universo a guidare lo sviluppo tecnologico, le reti economiche e la cultura umana”.

Ancor prima delle derive securitarie post-11 settembre, Davis mostrava “quanto prontamente abbiamo ceduto piccole libertà in nome della sicurezza, dell’efficienza e della convenienza”, cedendo i nostri dati e le nostre identità a “un labirinto di database interconnessi pieni zeppi di informazioni finanziarie, mediche, legali e di mobilità”. I palazzi di dati, nel gergo di Davis, che deve molto alle suggestioni di William Gibson, si contrappongono alle autostrade dell’informazione che nella retorica utopistica degli anni Novanta avrebbero trasformato il mondo, e suona di certo come una profezia l’affermazione secondo cui dopo la fine dell’Unione sovietica “il mondo capitalista del commercio globale, dei media di consumo e della finanza internazionale” sia “in procinto di dominare «ogni tribù, popolo, lingua e nazione»”. Qui Davis fa il verso alle teorie del complotto del Nuovo Ordine Mondiale di matrice apocalittico-evangelica, ma osserva che se la loro visione del futuro “appare ridicolmente esagerata”, nondimeno “le preoccupazioni relative alla nostra bestiale economia virtuale non lo sono”. La silicolonizzazione del mondo, per usare la fortunata formula di Éric Sadin (2018), è qui ampiamente preconizzata, così come la distopia del lungotermismo, che sacrifica gli interessi del 99% più povero oggi a favore di quelli dell’1% più ricco destinato a prosperare domani e per sempre, raccontato con lucidità cronachistica da Douglas Rushkoff nel suo recente Solo i più ricchi (2023) ma anticipato dalla minacciosa frase dell’agente Smith di Matrix: “Il futuro è il nostro mondo, il futuro è il nostro tempo”. Appare così ancora una volta come profezia questo brano di Davis:

“Oggigiorno, si invocano i «geni egoisti» e la ricerca morale dell’«adattamento» per giustificare le politiche sociali (o la loro mancanza) nell’evoluzione tecnocapitalista. Alcuni libertari e animisti del mercato credono che, una volta liberato dalla pietà progressista e dalle illusioni dell’ingegneria sociale, sarà il mercato ad agire da enorme meccanismo di selezione, che separerà naturalmente gli umani innovativi da quelli senza ambizione, i supersvegli dagli indolenti, i transumani dagli sfornati fin-troppo-umani”.

A questa deriva, Davis contrappone il postumanesimo di Sadie Plant, l’attivismo ambientalista, il manifesto cyborg di Donna Haraway, il ribaltamento della simbologia verticistica dell’albero a favore di quella orizzontale e sotterranea del rizoma. Pur riconoscendo che “la relazione simbiotica tra l’aria fritta del discorso postmoderno francesizzato e i nuovi congegni è un’arma a doppio taglio”, il suo auspicio è che il postmodernismo sia solo una “fase da attraversare”, per approdare a una visione del mondo alternativa a quella degli arconti contemporanei. Come scrive nella postfazione dell’edizione del 2004, la gnosi non è solo strumentale al discorso dei padroni della Rete, ma funzionale alla liberazione dalla Prigione di Ferro Nera in cui secondo Dick l’umanità è inconsapevolmente tenuta prigioniera:

“La gnosi ci ricorda che esiste un altro modo di essere fedeli al nostro retaggio spirituale occidentale, un modo che non consista in una religione di consumo basata su una presuntuosa elezione e una paura intollerante”.

Da qui l’invito, più attuale che mai, con cui si conclude Techgnosis, a intrufolarci nella cabina di pilotaggio per sottrarre i comandi dell’astronave Terra ai Prometeo prima che il mondo finisca “in un groviglio di lingue di fuoco”.

Letture
  • Jean Baudrillard, Simulacres et Simulation, éditions Galilée, Parigi, 1981.
  • Pascal Bruckner, La tentazione dell’innocenza, Ipermedium, Napoli, 2001.
  • Erik Davis, Techgnosis, Magic, Memory, and the Angels of Information, in Mark Dery (a cura di), Flame Wars: The Discourse of Cyberculture, Duke University Press, Durham-Londra, 1994.
  • Erik Davis, Techgnosis, Ipermedium, Napoli, 2001.
  • Erik Davis, Codici nomadi. Volume 1 – Avventure nell’esoteria moderna, S. Maria C.V., 2013.
  • Philip K. Dick, L’androide e l’umano, 1972, in Se vi pare che questo mondo sia brutto, Feltrinelli, Milano, 1999.
  • Philip K. Dick, L’Esegesi, Fanucci, Roma, 2015.
  • Philip K. Dick, Labirinto di morte, Fanucci, Roma, 2016.
  • Philip K. Dick, La trilogia di Valis, Fanucci, Roma, 2020.
  • Adolfo Fattori, A colloquio con lo sciamano Erik DavisQuaderni d’Altri Tempi, n. 7, inverno 2007.
  • William Gibson, Neuromante, Mondadori, Milano, 2023.
  • Yuval Noah Harari, Homo Deus, Bompiani, Milano, 2017.
  • Leo Marx, The Machine in the Garden: Technology and the Pastoral Ideal in America, Oxford University Press, 1964.
  • Douglas Rushkoff, Solo i più ricchi, Luiss University Press, 2023.
  • Éric Sadin, La silicolonizzazione del mondo, Einaudi, Torino, 2018.