Filosofie della simulazione:
le “più realtà” di Chalmers

David J. Chalmers
Più realtà
I mondi virtuali
e i problemi della filosofia
Traduzione di Angelica Kaufmann
Raffaello Cortina Editore, Milano, 2023
pp. 620, € 33,00

David J. Chalmers
Più realtà
I mondi virtuali
e i problemi della filosofia
Traduzione di Angelica Kaufmann
Raffaello Cortina Editore, Milano, 2023
pp. 620, € 33,00


Sono trascorsi esattamente trent’anni tra l’uscita del ponderoso tomo di David Chalmers Più realtà (2022 nell’edizione originale) e due testi che nel 1992 provarono a riflettere sulle conseguenze filosofiche e sociali della realtà virtuale: Reale e virtuale di Tomás Maldonado e Mondi virtuali di Benjamin Woolley. Lettrici e lettori ci scuseranno dunque se nella prima parte di questo articolo, anziché entrare da subito nel discorso dell’ultima fatica di Chalmers, noto filosofo della mente che già da tempo lavora sul tema della simulazione, cercheremo innanzitutto di capire cosa sia successo in questi trent’anni nel discorso sulla realtà virtuale (VR).

Le estati e gli inverni della VR
Nel discorso tecnologico possiamo usare per la VR alcuni elementi caratteristici del discorso sull’intelligenza artificiale (IA). Entrambi sono caratterizzati dal succedersi di cicli di hype e di “inverni”: gli studiosi riconoscono due “inverni dell’IA”, rispettivamente negli anni Settanta e nel periodo a cavallo tra la seconda metà degli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta, in cui a facili entusiasmi seguirono altrettante delusioni e frenate; i cicli di hype sono stati invece, finora, tre: quello inaugurato dalla celebre conferenza di Dartmouth (1956), in cui si credeva di poter risolvere i principali problemi dell’IA entro “un semestre”, sulla scorta del già da tempo scricchiolante edificio della logica simbolica; quello degli anni Ottanta, con lo sviluppo dei sistemi esperti e i primi esperimenti di reti neurali; quello a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, con la rivoluzione del machine learning consolidata poi dall’accesso all’immenso oceano dei Big Data per addestrare gli algoritmi evolutivi (Russell e Norvig, 2021).
Per la VR si può riconoscere qualcosa di simile. Il primo grande ciclo di hype può essere fatto risalire al 1969, quando Ivan Sutherland, dopo aver “dato il via all’intero settore della grafica computerizzata”, realizzò il primo casco visore, da lui definito “lo schermo definitivo”, e parlò per la prima volta di “mondo virtuale” (Lanier, 2019). Durò poco, perché non fu mai commercializzato e d’altronde il settore della grafica 3D era agli albori e incapace di sostenere un intero mercato fondato sulla VR. Il primo inverno finì a intorno al 1982-83, quando vennero lanciate le prime interfacce aptiche, come i data glove (gli iconici guanti tattili), e un profluvio di letteratura e cinema di fantascienza iniziò a discutere di cyberspazio e realtà virtuale, da Tron (1982) a Neuromante (1984). Nel 1987 la VPL Research di Jaron Lanier lanciò sul mercato il primo visore, l’EyePhone, e in seguito la prima tuta tattile completa. Nel 1990, tuttavia, VPL dichiarava la bancarotta e i nuovi azionisti decisero di trasformarla in una normale società di informatica. Iniziava un nuovo lungo inverno, terminato nel pomeriggio del 25 marzo 2014, quando il CEO di Facebook, Mark Zuckerberg, fece una visita a sorpresa agli uffici di Oculus, una promettente società di sviluppo di visori di VR e dichiarò:

“Credo che questo progetto abbia il potenziale per diventare […] non soltanto la prossima piattaforma di gaming, ma il prossimo computer in senso lato”
(Harris, 2019).

Per i ragazzi di Oculus, a cui veniva regalata una copia di Ready Player One di Ernst Cline al momento dell’assunzione, era un sogno che si avverava: Zuckerberg comprava Oculus per due miliardi di dollari e prometteva di trasformare in realtà il metaverso. Nell’ottobre 2021 avrebbe cambiato il nome della società da Facebook a Meta, facendo impazzire gli investitori e i nerd di tutto il mondo.

Un’idea venuta dal futuro
Altro punto di contatto fondamentale nelle traiettorie tecnologie di IA e VR: si tratta entrambe di “iperstizioni”, come il pensiero accelerazionista definisce le visioni del futuro che generano conseguenze nel presente (cfr. Berger, 2017). Anche nei momenti più bui dei lunghi inverni tecnologici, l’immaginario intorno all’IA e alla VR non ha mai smesso di svilupparsi e anzi ha tenuto acceso il fuoco e definito gli obiettivi, come mostra per esempio il ruolo dei supercomputer e degli androidi di Star Trek, o film iconici degli anni Novanta come Il tagliaerba (1992), Johnny Mnemonic (1995) e ovviamente Matrix (1999). Sia Jaron Lanier, definito il “padre della realtà virtuale”, nel suo libro L’alba del nuovo tutto, che lo scrittore Blake J. Harris nel suo Storia del futuro, entrambi incentrati sulla storia della VR, riconoscono un cambiamento occorso a cavallo del millennio:

“Dal cyberpunk in poi, la narrazione della realtà virtuale è diventata ancora più cupa. La trilogia di Matrix o Inception
(Lanier, 2019).

“Film come eXistenZ e Matrix offrivano una visione piuttosto sinistra della VR, piazzando la tecnologia al centro di una metafora cronenberghiana sull’orrore del corpo, o rappresentandola come una prigione congegnata dalle macchine per intrappolare la mente umana. Come diceva Morpheus: «Matrix è il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità»”
(Harris, 2019).

Lanier parla del cyberpunk, che fiorì negli anni Ottanta, ma i film che cita sono rispettivamente del 1999 e del 2010; eXistenZ è a sua volta uscito nel 1999. In un primo momento, l’immaginario cyberpunk alimenta entusiasmi e non paure, soprattutto nella generazione dei primi hacker.
Il “giro di vite” che agli inizi degli anni Novanta colpisce il mondo hacker contribuisce tuttavia a creare una grande frattura: la società non si fida più dei cowboy del cyberspazio, li teme per ciò che sanno e che possono fare, e gli hacker dal canto loro non si fidano più di nessuno. L’agente Smith di Matrix, che si accanisce proprio nei confronti dell’hacker Thomas Anderson, personifica l’immagine delle istituzioni oppressive e reazionarie che gli hacker condividevano alla fine degli anni Novanta.
Matrix fa esattamente questo: trasforma in realtà i peggiori incubi di quanti nella VR hanno fin da subito individuato il rischio di una sostituzione della realtà, a partire dal riferimento d’obbligo, quello di Jean Baudrillard con il suo Simulacres et simulation (1981), da cui non a caso anche Chalmers parte per la sua trattazione.

La VR diventa il mezzo per realizzare il più inquietante complotto che si potrebbe immaginare, quello di sostituire al mondo reale un mondo illusorio, una simulazione indistinguibile dalla realtà, una “prigione di ferro nero” come la descriveva Philip K. Dick (cfr. Paura, 2017). Che il nostro stesso mondo possa essere una simulazione non è un’idea nuova. Chalmers ricorda illustri precedenti storici, ma fa risalire l’idea originaria al romanzo di Daniel F. Galouye del 1964 Simulacron-3 (ritradotto più di recente con il titolo Il mondo sul filo, che era quello del film di Rainer Werner Fassbinder che traspose per la prima volta il romanzo di Galouye sullo schermo; una seconda trasposizione è Il tredicesimo piano di Josef Rusnak, uscito nello stesso anno di Matrix). Dick la esplora quello stesso anno nel romanzo La penultima verità, per poi riprenderla in Labirinto di morte (1970), fino a farne il leitmotiv di tutta la sua riflessione filosofica (cfr. Dick, 2015). Poi arriva Matrix a rendere l’idea popolare e poco dopo il filosofo Nick Bostrom pubblica l’articolo Are We Living in a Computer Simulation? (2003) che inaugura il dibattito filosofico sul tema, argomentando che sì, è più probabile che viviamo in una simulazione piuttosto che nella realtà ultima. Chalmers sarà poi tra i partecipanti al celebre Isaac Asimov Memorial Debate del 2016 al Museo americano di Storia naturale a New York dedicato alla domanda se viviamo in una simulazione, schierandosi a favore dei sostenitori di questa ipotesi, che poco dopo diventerà nota per essere stata sposata da Elon Musk.

Il virtuale è reale
La distanza tra le posizioni filosofiche di Tomás Maldonado nel 1992 e di David Chalmers trent’anni dopo può essere facilmente riassunta mettendo a confronto due frasi dei loro libri. Scrive Maldonado: “Per me virtuale è sinonimo di illusorio”. Chalmers sposa invece la tesi del realismo virtuale, secondo cui

“la realtà virtuale è una realtà autentica, con particolare attenzione alla concezione secondo cui gli oggetti virtuali sono reali e non un’illusione”.

La tesi del suo libro Più realtà è che “la realtà contiene molte realtà e quelle realtà sono reali”. Questo significa che tutto ciò che esiste all’interno di una simulazione VR è reale quanto lo sono gli oggetti e gli ambienti fisici; pertanto, anche una perfetta simulazione del mondo indistinguibile dal livello ultimo della realtà non sarebbe davvero un’illusione, ma una parte della realtà.
Per capire il ragionamento di Chalmers, dobbiamo partire dai cinque attributi che Chalmers assegna alla realtà. Siamo nella realtà se gli oggetti che percepiamo

1) esistono davvero;

2) hanno poteri causali;

3) sono indipendenti dalla mente;

4) sono come sembrano;

5) sono veri.

Sul primo punto, Chalmers sostiene che, certo, gli oggetti in una simulazione sono digitali, frutto di processi informatici, ma questo non li rende meno reali, e tra un attimo capiremo il perché.

 Sul secondo punto, se è vero che Daniel Dennett sostiene che un uragano simulato non ci bagna, Chalmers afferma che nondimeno interagire con un oggetto digitale produce esperienze in noi e quindi tali oggetti hanno poteri causali.

Sul terzo punto, essendo la VR generata da un computer essa è indipendente dalla nostra mente (ciò la distingue dal sogno).

Sul quarto punto, all’interno di una simulazione un fiore digitale resta un fiore anche se è generato da codice informatico e quindi non è illusorio, fintanto che ci troviamo all’interno di una simulazione che non possiamo confrontare con la realtà al di fuori della simulazione.

Per lo stesso motivo, i fiori sono veri e non finti, perlomeno nell’ambito di quella simulazione.

L’argomentazione può risultare scarsamente convincente a chi ritenga che sia sempre possibile distinguere tra mondo reale (il nostro) e mondo virtuale (un’ambientazione VR). Ma il ragionamento di Chalmers si basa sull’argomento della simulazione di Bostrom, che sostiene che non dovremmo dare per scontato che l’universo in cui viviamo costituisca la realtà ultima e non piuttosto una simulazione.
L’argomentazione di Bostrom è molto semplice: se a un certo punto dello sviluppo tecnologico, una civiltà intelligente diventa capace di realizzare simulazioni digitali dell’universo indistinguibili dall’universo fisico, allora esisteranno di gran lunga più universi simulati che reali e dunque in termini probabilistici è più verosimile che ci troviamo all’interno di una simulazione che nel livello fondamentale della realtà. Chalmers non la ritiene un’ipotesi inverosimile, dopo aver analizzato tutte le possibili controargomentazioni. Ciò che lo spinge in questa direzione è l’adesione a un paradigma della filosofia della fisica noto come it-from-bit, coniato per la prima volta nel 1989 dal fisico teorico John Wheeler, secondo cui l’ultima essenza della realtà fisica è costituita da informazione e dunque gli atomi di materia che compongono le cose (it) derivino da atomi di informazioni (bit).
Questo argomento implica che l’informazione fisica è neutrale rispetto al sostrato: che una sequenza di bit sia codificata in una sequenza di acido nucleico o in un microchip, nulla cambia rispetto all’informazione che veicola. Poiché Chalmers sposa inoltre il realismo strutturalista, secondo cui la natura fisica è sostanzialmente descrivibile in termini di struttura matematica soggiacente, che è in sostanza informazione, ciò implica che tra un quark fisico e un quark digitale esista una perfetta corrispondenza e non si possa definire il primo più reale del secondo.

Tutta questa discussione può essere inficiata da alcuni semplici esempi. Se stiamo dormendo e qualcuno ci infila un visore VR cosicché quando ci svegliamo crediamo di fluttuare liberi nell’orbita terrestre, siamo chiaramente di fronte a un’illusione, come affermava Maldonado, e togliendo il visore l’illusione scompare, per cui diciamo di essere tornati nella realtà (tralasciamo il fatto meramente ingegneristico per cui a oggi è impossibile non accorgersi di star indossando un visore). Qui però nuovamente dimentichiamo che il ragionamento di Chalmers si fonda sull’argomento della simulazione, non su classica esperienza VR. Se quindi esiste una simulazione tanto perfetta che chi vi si trova al suo interno non è in grado di dire che essa sia una simulazione, per quelle persone tutto ciò che esperiscono è la realtà, non un’illusione. Gli esseri umani che si trovano dentro Matrix non diranno mai che ciò che accade loro sia illusorio; questo diventa possibile solo quando scoprono di trovarsi all’interno di una simulazione che nasconde il mondo reale. Ma Chalmers non accoglie l’argomentazione di Matrix: la simulazione, dal suo punto di vista, è reale tanto quanto il mondo al di fuori di essa, e vivere nell’una o nell’altra è solo questione di libera scelta.
Potremmo obiettare che Matrix è una simulazione creata da macchine superintelligenti che ci tengono in schiavitù per usarci come batterie, ma nell’ottica dell’argomento della simulazione la controargomentazione è: chi vi dice che anche le macchine superintelligenti e i vostri corpi fisici racchiusi nei bozzoli non siano che simulazioni di un livello più profondo della realtà?

Vita da sims
Esistono ovviamente innumerevoli problemi che sorgono da simili considerazioni, ma il più rilevante per Chalmers (che è pur sempre innanzitutto un filosofo della mente), e forse anche il più rilevante in generale, riguarda la possibilità di avere coscienza in un mondo digitale. L’indipendenza dell’informazione dal sostrato è una cosa diversa dalla teoria dell’indipendenza della mente dal sostrato, che afferma che la coscienza di un essere umano possa continuare a esistere se si sostituisce il suo cervello biologico con una emulazione elettronica. Qui entra in gioco la distinzione operata da Chalmers tra biosim e sim puri. I primi sono esseri umani biologici collegati alla simulazione, per i quali si pone il problema della corrispondenza biunivoca tra il cervello biologico collegato e il cervello digitale della loro simulazione (sim): il secondo è solo una scatola vuota che riceve i segnali del primo, o siamo in presenza di due cervelli coscienti? I sim puri sono invece esseri che esistono solo nella simulazione. L’argomento della simulazione implica che i sim puri possano esistere e sostiene che, se noi viviamo all’interno di una simulazione, siamo sim puri e non biosim (a differenza di come accade in Matrix).

Ma un’entità digitale può essere cosciente? Oggi nessuno sarebbe disposto ad affermare che i personaggi non giocanti dei videogame siano dotati di coscienza: i loro comportamenti sono frutto di algoritmi di IA che imitano quelli umani ma non sgorgano da una coscienza autentica. Sono, nel linguaggio dei filosofi della mente, degli zombie (“un sistema che esternamente si comporta in modo molto simile a un essere cosciente, ma che interiormente non ha alcuna esperienza cosciente”). Ma mentre proprio per questo nessuno crede che, quando spegniamo un videogioco, stiamo commettendo un genocidio, nel caso di una simulazione dotata di sim puri la sua disattivazione avrebbe enormi implicazioni etiche, come affermava Galouye nel suo romanzo. Secondo Chalmers, se si riuscirà a ottenere una simulazione perfetta di un cervello biologico dotato di coscienza, allora anch’esso sarà cosciente. È una tesi azzardata, che però trae le sue motivazioni dal paradigma it-from-bit e dal realismo strutturale: la coscienza non è qualcosa di irriducibile rispetto al resto dell’universo e, se ammettiamo sia possibile simulare perfettamente l’universo, allora sarà possibile emulare anche la coscienza.
“Computabilità”, la chiama Benjamin Wooley nel suo Mondi virtuali:

“Più in generale, i frattali, gli automi cellulari, la teoria del caos, la teoria delle catastrofi, per non citare altri eventi nel mare delle scoperte matematiche, sembrano altrettante prove che il mondo, la natura, la vita stessa, forse, a dispetto di tutto il loro disordine e di tutta la loro complessità, sono computabili”
(Wooley, 1993).

Che anche la mente sia computabile è la grande scommessa dell’intelligenza artificiale. Ecco che le due grandi traiettorie tecnologiche degli ultimi decenni iniziano a convergere, offrendo una possibile interpretazione dell’intera realtà.
Nel suo libro Wooley, giornalista della BBC, intervistava sull’argomento il fisico (poi Premio Nobel) Roger Penrose, noto critico della computabilità della coscienza, tema a cui aveva dedicato il suo celebre La mente nuova dell’imperatore (1989). Wooley ammetteva che le tesi di Penrose andassero “contro una fortissima corrente d’opinione”, ma ne accettava le opinioni:

“La riproduzione della coscienza e dell’intelligenza umana, che viene ormai perseguita dai computazionalisti in maniera ossessiva (ma, vorrei aggiungere, assai poco fruttuosa) non è un obiettivo ragionevole (…). Si tratta semplicemente di qualità che non sono proprietà scientifiche, e neppure parametri matematici”
(Wooley, 1993).

Menti estese
Eppure, oggi i dibattiti dominanti sull’IA partono dal presupposto che l’emergere di una coscienza sia solo questione di tempo. Gli esponenti di Big Tech, gli stessi che stanno bruciando miliardi di dollari nella corsa alla VR, parlano con convinzione dell’avvento della superintelligenza artificiale e delle azioni necessarie per scendere a patti con essa.
C’è stata grande eccitazione quando, alcuni mesi fa, un esperimento realizzato dall’Università di Stanford e Google ha introdotto alcuni “agenti autonomi”, ossia IA generative – la nuova famiglia di IA di cui tanto oggi si parla – in un ambiente virtuale simile al videogioco The Sims, lasciandole libere di agire e vedendo cosa succede (cfr. Park et al., 2023). Gli agenti hanno stabilito interazioni, creato routine quotidiane, avviato lavori e altre cose ancora. È diverso dal modo in cui agivano i personaggi non giocanti di The Sims, mossi da una programmazione rigorosa che lasciava al caso solo la sequenza di caratteri e comportamenti definita per ciascuno. Le IA generative sono in grado di generare comportamenti completamente inediti, senza alcuna programmazione predefinita. Sono coscienti? Ovviamente no, ma qualcuno vede in questi esperimenti l’alba di una nuova era.
Sarebbe allora ingenuo affermare che il vero cambiamento che si è verificato negli ultimi trent’anni sia un cambiamento esclusivamente tecnologico. Certo, il deep learning, la data analysis, il natural language processing e i large language models sono stati altrettanti passi da gigante nel settore dell’IA come lo è stato la crescita esponenziale della capacità di calcolo delle GPU, la generazione procedurale o il tracking posizionale per la VR.

Il cambiamento più sostanziale riguarda tuttavia la visione del mondo che queste tecnologie hanno generato. L’argomento della simulazione, la computabilità della coscienza, ciò che Yuval Noah Harari definisce il “datismo”, la nuova fede che tutto sia composto da dati (Harari, 2017), sono tutte idee emerse negli ultimi tre decenni che hanno influenzato il nostro immaginario, esattamente come il termine “metaverso” introdotto nel 1992 da Neal Stephenson. L’idea stessa di realtà si è trasformata, passando dal singolare al plurale, come suggeriscono le “Più realtà” di Chalmers; la distinzione tra reale e virtuale è diventata più sfumata, come ha chiarito il filosofo Luciano Floridi con il fortunato concetto di onlife. Del resto, quando Ed Fredkin, negli anni Settanta, enfatizzò il collegamento tra informatica e termodinamica, mostrando che ciò che avveniva dentro il computer aveva conseguenze anche fuori (banalmente, in termini di scambio di calore prodotto dai processi di calcolo), veniva considerato un eccentrico, mentre oggi stiamo affrontando le conseguenze sulla biosfera della corsa ai processori per il mining delle criptovalute, che ha effetti notevoli e calcolabili sull’accelerazione del riscaldamento globale.
La teoria della mente estesa, proposta dallo stesso Chalmers, rompe definitivamente la quarta parete del dualismo cartesiano ammettendo che non ci sia differenza tra la memoria di un cervello umano e quella di un computer, dal momento che la mente umana può estendersi ai dispositivi tecnologici (cfr. Clark e Chalmers, 1998). Questa “ideologia della dematerializzzione universale”, come già la chiamava trent’anni fa Maldonado, sembra inesorabile. A noi tocca provare a definirne la finalità, scegliendo – per usare ancora le parole dello studioso argentino – tra un’applicazione tesa alla fuga mundi e una orientata invece alla creatio mundi: ossia tra la fuga nella o dalla simulazione (il primo è il caso del celebre episodio di Black Mirror, San Junipero, il secondo di Matrix), e la creazione di mondi virtuali che possano migliorare la nostra realtà – anche nella sua accezione “estesa” – anziché destabilizzarla e impoverirla.

Letture
  • Jean Baudrillard, Simulacres et simulation, Galilée, Parigi, 1981.
  • Edmund Berger, Flussi sotterranei: una microstoria di iperstizione e resistenza esoterica, Rizosfera, Reggio Emilia, 2017.
  • Nick Bostrom, Are We Living in a Computer Simulation?, The Philosophical Quarterly, vol. 53, n. 211, aprile 2003.
  • Andy Clark, David J. Chalmers, The Extended Mind, Analysis, vol. 58, n. 1, gennaio 1998.
  • Philip K. Dick, L’esegesi, Fanucci, Roma, 2015.
  • Philip K. Dick, La penultima verità, Fanucci, Roma, 2020.
  • Philip K. Dick, Labirinto di morte, Fanucci, Roma, 2021.
  • Daniel F. Galouye, Il mondo sul filo, Atlantide, Roma, 2016.
  • William Gibson, Neuromante, Mondadori, Milano, 2017.
  • Jaron Lanier, L’alba del nuovo tutto, il Saggiatore, Milano, 2019.
  • Tomás Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano, 2015.
  • J.S. Park, J.C. O’Brien, C.J. Cai, M.R. Morris, P. Liang, M.S. Bernstein, Generative Agents: Interactive Simulacra of Human Behavior, arXiv:2304.03442v1, aprile 2023.
  • Roberto Paura, La singolarità nuda, Italian Institute for the Future, Napoli, 2017.
  • Roger Penrose, La mente nuova dell’imperatore, BUR, Milano, 2000.
  • Stuart Russell, Peter Norvig, Intelligenza artificiale. Un approccio moderno, Pearson, Milano-Torino, 2021.
  • Benjamin Woolley, Mondi virtuali, Bollati Boringhieri, Torino, 1993.
Visioni
  • David Cronenberg, eXistenZ, CG Entertainment, 2018 (home video).
  • Rainer Werner Fassbinder, Il mondo sul filo, Ripley’s Home Video, 2015 (home video).
  • Brett Leonard, Il tagliaerbe, Minerva Video – CG, 2020 (home video).
  • Steven Lisberg, Tron, Walt Disney, 2011 (home video).
  • Robert Longo, Johnny Mnemonic, Medusa, 2019 (home video).
  • Christopher Nolan, Inception, Warner Bros, 2011 (home video).
  • Josef Rusnak, Il tredicesimo piano, Universal Pictures Italia, 2009 (home video).
  • Larry e Andy Wachowski, Matrix, Warner Bros, 2014 (home video).