Lo scienziato come ribelle:
Freeman Dyson, genio eretico

Freeman Dyson (1923-2020). Pur non avendo mai vinto il Nobel, tra i tanti premi ricevuti figurano il premio Wolf per la fisica (1981) e il premio Templeton (2000).

Freeman Dyson (1923-2020). Pur non avendo mai vinto il Nobel, tra i tanti premi ricevuti figurano il premio Wolf per la fisica (1981) e il premio Templeton (2000).


“Era un uomo esile, tutto nervi e vene, con il naso adunco e gli occhi infossati e vigili. Sembrava un mite predatore. Il suo contegno era in generale freddo e riservato… finché non rideva. Allora si metteva a sbuffare dal naso, alzando le spalle come uno scolaretto di dodici anni che senta raccontare una barzelletta spinta. Era una risata sovversiva, la risata di un uomo che vedeva lo spazio come un rifugio per «fanatici religiosi» e «adolescenti riottosi», e insisteva nel dire che la scienza è, nella sua veste migliore, «una ribellione contro l’autorità»”
(Horgan, 1998).

Questo profilo di Freeman Dyson fu tracciato dal suo intervistatore, John Horgan, redattore di Scientific American, quando lo intervistò nell’aprile del 1993 all’Institute for Advanced Study di Princeton. All’epoca Dyson aveva settant’anni ed era stato nominato professore emerito di quella prestigiosa istituzione dove lavorava dal 1948, e in cui avevano trovato rifugio scienziati come Albert Einstein, Kurt Gödel, Robert Oppenheimer. Nomi d’altri tempi, eppure erano tutti lì insieme a Dyson, che ha lasciato questo mondo lo scorso 28 febbraio all’età di 96 anni, forse ricongiungendosi con quella Unità Cosmica che aveva immaginato permeare l’universo fin da quando aveva dodici anni.

Fisico nucleare suo malgrado
Per essere stato un fervente pacifista, Freeman Dyson si ritrovò suo malgrado ad avere a che fare fin troppo volte con la guerra. Nato in un piccolo villaggio del Berkshire, e cresciuto a Winchester, nell’Hampshire, nel 1944 fu reclutato nel battaglione impegnato a bombardare la Germania. Anche se non sganciò mai nessuna bomba, Dyson lavorava per rendere più efficiente il bombardamento strategico aereo.
In una bellissima pagina della sua autobiografia Turbare l’universo (1979), racconta di come si trovò costretto a modificare man mano i suoi imperativi categorici per accettare il ruolo sempre più diretto che si trovò a giocare nella morte di oltre 300.000 tedeschi. “Nell’ultima primavera di guerra non potei trovare più scuse… Avevo abdicato un principio morale dopo l’altro, e alla fine non era servito a niente” (Dyson, 2010). Si può allora immaginare la sua sorpresa quando, giunto negli Stati Uniti per lavorare alla Cornell University con il futuro premio Nobel Hans Bethe, che nel progetto Manhattan aveva diretto la divisione teorica, scoprì che i suoi colleghi che avevano lavorato alla bomba atomica non si sentivano affatto responsabili delle centinaia di migliaia di vittime di Hiroshima e Nagasaki. Già pochi mesi dopo essere giunto in America, Dyson conobbe Oppenheimer attraverso Bethe.

Giovane e ingenuo, durante una pausa pranzo dichiarò ad alta voce che era stata una fortuna che Arthur Eddington (di cui aveva divorato i libri da ragazzo in Inghilterra) avesse dimostrato che non si poteva costruire una bomba all’idrogeno. Sulla tavola scese un gelido silenzio. Poco dopo, fu messo a parte della notizia che Eddington era nel torto e che la costruzione della bomba all’idrogeno era già in corso. A guidare quel progetto era Edward Teller, con cui Dyson si trovò a sua volta a lavorare. Ma con le bombe non voleva avere più niente a che fare e si dedicò piuttosto alla fisica teorica.
Il grande enigma su cui all’epoca molti fisici lavoravano riguardava il meccanismo dell’elettrodinamica quantistica, ossia il modo in cui è possibile descrivere la forza elettromagnetica attraverso la meccanica dei quanti. Si trattava, in estrema analisi, di capire come si comportassero gli elettroni. In quel grande sforzo teorico, il più avanti di tutti era Richard Feynman. Dyson e Feynman erano entrambi personaggi stravaganti, ma in modi diversi. Feynman, da perfetto americano, era chiassoso, eccentrico, sgarbato (se era occupato in qualche calcolo, non mancava mai di liquidare Dyson con un “Vai via, ho da fare”); Dyson, da perfetto inglese, aveva modi eleganti, sapeva citare a memoria i versi di Thomas Stearns Eliot e Geoffrey Chaucer, John Milton e Dylan Thomas. Ma Dyson fu il primo a capire che quella bizzarra formulazione dell’elettrodinamica quantistica formulata da Feynman, la “somma sui cammini” (come poi sarebbe stata battezzata), era di gran lunga più efficace degli astrusi metodi sviluppati dal discepolo di Oppenheimer, Julian Schwinger. Nonostante la freddezza con cui i fisici trattavano l’approccio di Feynman, Dyson lo difese e dimostrò che era perfettamente equivalente, ma più semplice, di quello di Schwinger e del giapponese Sin-Itiro Tomonaga. Furono Feynman, Schwinger e Tomonaga a vincere il Nobel nel 1965, ma Dyson non se n’ebbe a male: aveva già compreso di non riuscire, come gli altri, a tenere la mente ferma su una sola sfida alla volta. Voleva spaziare.

Verso lo spazio
L’idea di proseguire sulle orme della QED, la teoria di Feynman, per scoprire una “teoria del tutto”, l’ambita unificazione della fisica che aveva ossessionato il vecchio Einstein, e che ora contagiava i suoi colleghi, non lo entusiasmava. Intuì che, come Einstein, anche gli altri fisici sarebbero finiti in un vicolo cieco. Ebbe ragione. Iniziò invece a interessarsi allo spazio. Non gli piaceva Wernher von Braun, riteneva che i suoi progetti per raggiungere la Luna e poi Marte fossero troppo dispendiosi e alla fine si sarebbero rivelati insostenibili sul lungo periodo. Anche in quel caso ci vide lungo.

Riuscì così a convincere la General Atomic con cui collaborava a investire nel progetto “Saturn by 1970”, che intendeva rivoluzionare l’approccio ingegneristico all’accesso allo spazio per arrivare a una spedizione umana su Saturno nel 1970. L’idea era di sostituire la propulsione chimica con quella nucleare, usando le bombe atomiche per spingere nel vuoto un’astronave. Sarebbe stato possibile in tal modo accelerare a velocità significative e risparmiare enormi quantità di denaro utilizzando una propulsione già esistente sotto forma di migliaia di bombe atomiche. Era il sogno di Dyson: “trasformare le spade in vomeri”.
Affinché il suo progetto, ribattezzato Orion, potesse realizzarsi, Dyson accettò persino di andare contro i suoi principi morali e scrivere sulla prestigiosa rivista Foreign Affairs un articolo contro la proposta di mettere al bando i test nucleari in atmosfera, contro cui si opponeva anche Teller, il padre della bomba all’idrogeno con cui Dyson collaborava. Teller e Dyson avevano naturalmente obiettivi diversi. Il primo non voleva mettere limiti alla possibilità di costruire e testare armi sempre più potenti; il secondo era consapevole che un bando del genere avrebbe impedito al progetto Orion di realizzarsi. La campagna di lobbying non riuscì e il progetto Orion fu messo da parte (un colpo ancora più duro giunse con il trattato sullo spazio, che prevedeva il divieto di dispiegare armi nucleari in orbita).

Sentirsi a casa nel futuro
“Non riesco a ricordare quando è iniziata la mia ossessione per il futuro”, scrisse in Turbare l’universo. Dyson non si definiva un futurologo, perché non credeva alla prevedibilità quantitativa del futuro. “Sul lungo termine i cambiamenti qualitativi oltrepassano sempre quelli quantitativi”, scrisse (Dyson, 2010). Gli interessavano le idee nuove, in grado di cambiare “le regole del gioco”. Il progetto Orion era una di quelle.
Un’altra fu la sua idea di costruire colonie spaziali sugli asteroidi, anziché in orbita come proponeva Gerard O’Neill con i suoi costosissimi “cilindri” che avrebbero replicato la biosfera terrestre. Dyson aveva intuito per primo che l’espansione umana nello spazio sarebbe stata possibile solo con un radicale mutamento di paradigma nell’ingegneria spaziale, in grado di abbattere di un fattore cento i costi di accesso allo spazio. Propose di sviluppare gli automi cellulari teorizzati da John von Neumann negli anni Quaranta per costruire habitat nello spazio senza l’intervento umano, favorendo così la colonizzazione su larga scala. Tutti i futuristi di allora erano ossessionati con l’idea della colonizzazione spaziale e Dyson era in prima linea in quell’ossessione. Era convinto, come oggi Elon Musk o Stephen Hawking, che l’umanità dovesse espandersi rapidamente nello spazio se voleva sperare di evitare il collasso. Come Isaac Asimov, immaginava di poter trasferire le industrie e le attività minerarie nello spazio e trasformare la Terra in un immenso giardino. Presto iniziò a stancarsi del nucleare (in particolare quando capì che i suoi progetti di reattori puliti e sicuri non avrebbero mai trovato una strada commerciale) e divenne sostenitore dell’energia solare.

Alla sua infaticabile attività a sostegno del disarmo nucleare, affiancò quella di primo teorico dei “rischi esistenziali”. Lavorò nelle commissioni etiche sulla tecnica del DNA ricombinante, analizzò le possibilità offerte dall’ingegneria genetica di mutare la specie umana e vi si oppose strenuamente, da lettore incallito delle opere di pionieri del transumanesimo come J.B.S. Haldane e Julian Huxley, che ammirava per le visioni futuristiche ma di cui non condivideva gli assunti. Non era un sostenitore della yankee ingenuity: accettò la cittadinanza americana solo quando scoprì che la sua terza figlia, avuta da quella che sarebbe diventata la sua seconda moglie, era considerata dal Regno Unito “illegittima” e quindi apolide. Ma sentì tutto l’orgoglio di essere cittadino americano quando, durante una festa improvvisata di fuochi d’artificio per il 4 luglio, dei bambini afroamericani offrirono ai suoi due figli (tra cui il futuro brillante storico della scienza George Dyson), rimasti senza fuochi da sparare, qualcuno dei loro. Capì che ciò che contava, e che i suoi colleghi, tanto scienziati quanto ingegneri, non vedevano, era che il futuro avesse un volto umano, e non fosse piuttosto il terreno di sperimentazione di nuovi apprendisti stregoni. “Il futuro è la mia terza casa, dopo l’Inghilterra e l’America”, scrisse (Dyson, 2010).

In cerca dell’Unità Cosmica
Pur definendosi non credente, Freeman Dyson frequentava la chiesa e aveva idee panpsichiste. Da ragazzino fu attratto dall’idea che tutte le persone siano espressione di un’unica Unità Cosmica, trovandovi un’elegante soluzione al problema della sofferenza, del bene e del male. Cercò di convertire qualche suo compagno di scuola, ma scoprì di non avere la stoffa del predicatore. In età più tarda, seguendo quel filone a metà tra cosmologia, filosofia e metafisica nato intorno al  «principio antropico», si convinse che “l’universo, in un certo senso, doveva già sapere che saremmo arrivati” (Dyson, 2010).
L’universo, propose riprendendo l’interpretazione radicale di von Neumann della meccanica quantistica, esiste perché esiste chi lo osserva. La coscienza, dunque, esisterebbe in un grado minimo in ogni atomo e in ogni componente della materia; un’idea successivamente ripresa dal collega Sir Roger Penrose. Era una presa di distanze dall’idea dell’orologiaio cieco, un tentativo di rendere scientificamente plausibile il vecchio argomento teologico del progettista, ma senza immaginare un Dio-progettista:

“Non faccio una netta distinzione tra mente e Dio. Dio è ciò che la mente diventa quando ha oltrepassato la scala della nostra comprensione. Dio può essere considerato sia anima del mondo sia un insieme di anime del mondo. Noi siamo i principali emissari di Dio su questo pianeta nello stadio attuale del suo sviluppo. Possiamo successivamente crescere con lui oppure possiamo rimanere indietro” (Horgan, 1993).

Critico nei confronti dell’idea che ipotetiche civiltà aliene siano interessate a diffondere messaggi per l’universo attraverso le onde radio (come invece propone il progetto SETI), suggerì di cercare tracce indirette di civiltà tecnologiche avanzate.
L’idea gli venne leggendo un romanzo di Olaf Stapledon, Il costruttore di stelle, che aveva comprato in una bancarella a Paddington Station a Londra molti anni prima. Una civiltà tecnologica, propose nel 1960 in un articolo su Science, potrebbe smantellare un pianeta e usare i materiali di risulta per costruire un guscio intorno al proprio sole, al fine di ottimizzare l’energia solare e alimentare la propria biosfera tecnologica. Una simile civiltà emetterebbe una particolare “firma” nell’infrarosso, prodotta dal guscio intorno al sole, che perderebbe invece luminosità. Quando, nel 2015, si scoprì che una stella nella costellazione del Cigno distante da noi 1.500 anni-luce subiva curiose variazioni di luminosità, molti scienziati proposero che intorno a quella stella fosse in costruzione una sfera di Dyson. Ma il tentativo di captare segnali alieni provenienti dalla stella non ebbe successo e si trovò una spiegazione più prosaica. Analisi approfondite della popolazione stellare non hanno finora trovato tracce di sfere di Dyson.

Il suo senso del futuro apparteneva senza dubbio a un’epoca ormai lontana; di fronte alle più serie e concrete preoccupazioni riguardo i cambiamenti climatici, Dyson è stato tra i fisici che hanno messo in discussione le tesi del riscaldamento globale e ha promosso in tempi recenti un’organizzazione nota per le sue pubblicazioni negazioniste e pseudoscientifiche sul tema.
Aveva idee ingenue sull’evoluzionismo, che scambiava per il darwinismo sociale, e sulla politica internazionale, proponendo a Washington bizzarre varianti di teoria dei giochi che potessero favorire il disarmo globale. Non era perfetto e non voleva esserlo. Voleva solo, come recita il titolo della sua autobiografia, “turbare l’universo”. Senza dubbio, ci è riuscito.

Letture
  • Freeman Dyson, Search for Artificial Stellar Sources of Infrared Radiation, Science, vol. 131, giugno 1960.
  • Freeman Dyson, Turbare l’universo, Bollati Boringhieri, Torino, 2010.
  • John Horgan, La fine della scienza, Adelphi, Milano, 1998.