La macchina del tempo
a vapore viaggia spedita

Il documentario Steampunk Connection è uno dei sei titoli della sezione Futurologia del Trieste Science+Fiction Festival 2019.

Annie Deniel
Steampunk Connection
Canada, 2019

Produzione: Les films du Ricochet
Distribuzione internazionale: Vidéographe

Il documentario Steampunk Connection è uno dei sei titoli della sezione Futurologia del Trieste Science+Fiction Festival 2019.

Annie Deniel
Steampunk Connection
Canada, 2019

Produzione: Les films du Ricochet
Distribuzione internazionale: Vidéographe


Occhiali da aviatore risalenti all’era avventurosa dei primordiali biplani, motori a vapore, insetti metallici, giganteschi ingranaggi, costumi d’altri tempi, precedenti la Grande Guerra: benvenuti nel reale mondo della comunità steampunk, quattro milioni di persone in tutto il mondo, un popolo di fedeli dell’era vittoriana/eduardiana parallela. Una comunità artistica internazionale appassionata tanto della fantascienza delle origini, Jules Verne e H. G. Wells in primis (sebbene per qualcuno sia da considerare Edgar Allan Poe il primo vero autore di una storia steampunk in virtù del racconto La beffa del pallone [The balloon Hoax, 1844]), quanto delle meraviglie tecnologiche della seconda rivoluzione industriale tutta sbuffi, vapore, clangore, prototipi di strane macchine volanti e quant’altro.
Un humus culturale che alimenta la propaggine in carne e ossa dei personaggi che abitano le storie create dai fondatori letterari del genere, o per meglio dire di quanti si sono collocati nel genere da quando questo è stato battezzato steampunk da Karl W. Jeter nel 1987, ovvero Paul de Filippo, Tim Powers, William Gibson, Bruce Sterling, Michael Moorcock, Neal Stephenson per fermarsi ai soliti noti.
Vi ha scrutato amorevolmente dentro la filmaker di stanza a Montréal, Quebec, Annie Deniel nel suo documentario Steampunk Connection, poetica indagine inclusa nella sezione Futurologia della edizione numero diciannove del Trieste Science+Fiction Festival. Tre anni di lavori e riprese in cinque nazioni, USA, Canada, Lussemburgo, Austria e Francia, partendo dalla comunità quebechiana, in compagnia di personaggi all’altezza della situazione.

Mescolando anche documenti d’antan con allestimenti e filmati realizzati per l’occasione, Deniel passa in rassegna una folla variopinta di cosplayer (ma in questo caso il termine è riduttivo) che vestono i panni di alcune figure chiave dell’era nata sotto il segno della regina Vittoria (“lo steampunk è un palcoscenico” si afferma a un certo punto). A iniziare da quella che meno ti aspetti in una società che relegava le donne a ruoli precisi e circoscritti in base a una severa moralità: l’eroina/avventuriera.
Personaggio diffusissimo nello steampunk e che affonda le sue origini in personaggi letterari anti convenzionali per l’epoca, a iniziare da Irene Adler avvistata con Sherlock Holmes in Uno scandalo in Boemia (1837) di Arthur Conan Doyle alla prima vera detective femminile raccontata da Wilkie Collins ne Il diario di Anne Rodway (1856), per non dire dell’anarchica Zalma de Pahlen, creazione di T. Mullett Ellis nel romanzo Zalma del 1895. Una figura, la donna avventurosa, che calamita tuttora la fantasia degli autori di storie fantastiche, come prova Vera Merlin, eroina da prendere con le molle, nata dalla penna di Max Gobbo, che in storie come L’occhio di Krishna (2017) propone una versione italiana dello steampunk, un (sotto)genere alternativo di una realtà alternativa: il fantavapore, un rimescolamento di carte avventuroso che vede insieme il Vate ed Emilio Salgari compresi i suoi celeberrimi eroi Sandokan a Yanez de Gomera.
Non ci sono soltanto queste donne libere da convenzioni nella pellicola di Annie Deniel. Nell’aggirarci in questo strano mondo ai confini del tempo, ci si imbatte in alieni, soldati di guerre a venire o già concluse, in mostri antropomorfi, esploratori, artisti e matti inventori, i protagonisti di edisonade, per stare all’adeguata definizione coniata da John Clude in The Encyclopedia of Science Fiction (1979), mutuandola dallo storico robinsonade impiegato per indicare le storie di sopravvivenza. Figure ambigue gli inventori e gli artisti, dentro un mondo di per sé fatto di confini friabili. I primi, fabbricanti di marchingegni che sono frutto di oggetti tecnologici obsoleti appositamente restaurati, gli altri, creatori di oggetti ispirati all’estetica steampunk, ma spesso le differenze sono impercepibili.

Se i veri attori principali della pellicola sono gli abiti, i gioielli e gli accessori (abbondano guanti di merletto, corsetti, cappelli a cilindro, monocoli e orologi da tasca), le macchine (dalle locomotive ai robot ragno), gli stili di vita, le acconciature, i sogni e le riflessioni amare sul nostro presente, alcuni protagonisti, in un certo senso, sono presenti nel documentario. Abbiamo modo di far conoscenza con personaggi straordinari, connazionali della regista, che la hanno accompagnato la regista nel suo girovagare: Daniel Proulx, scultore che costruisce strutture in metallo in stile (steampunk, ovviamente), un ex docente, Clara Charles, ora nota come Tisha Gozen, che si è dedicata a disegnare abiti per la comunità steampunk, François Bonneau (alias Professor Bones) un artigiano/collezionista che gira tra una convention e l’altra scambiando e condividendo gli oggetti delle sue passioni (nella vita fa il medico). Tra i degni di menzione, c’è Alexandre Adam, ovvero il Barone Celsius Von Farenheit (un programmatore), inventore e conduttore di una sorta di show intitolato Kinestetic Parlour, dove si incontrano altri personaggi straordinari. È lui a fare da testimonial per così dire sulla locandina della pellicola. A New York, troviamo invece Diana Pho, nota (come Ay-leen the Peacemaker) studiosa impegnata in ambiti eterogenei (convention, conferenze accademiche, social media) a favore della multiculturalità steampunk. In particolare, anima il blog Beyond Victoriana seguito regolarmente da diverse migliaia di affezionati lettori.

Per tutti costoro l’età vittoriana è uno spazio utopico piuttosto che materia accademica, un ripartire da quando il futuro, grazie alle meraviglie della scienza e della tecnica, prometteva un mondo migliore, o quantomeno lasciava intravvedere un futuro, oggi invisibile. Sul finire Tisha Gozen regala questa considerazione che riassume tutta la poetica del movimento: “Forse un certo passato in cui abbiamo immaginato, appare molto più rassicurante che smarrirsi in un momento in cui è così difficile immaginare il futuro”. È il paradosso che tiene in vita lo steampunk: spostarsi indietro, tuffarsi nel passato cercando il futuro, motivo ben colto dai curatori del TS+FF che lo hanno collocato, come si è detto, nella sezione Futurologia.
È anche uno spazio di creatività dove manipolare la tecnologia per umanizzarla e restituirgli un’altra virtù smarrita, forse perduta per sempre, quel sense of wonder cantato in innumerevoli storie di fantascienza. ed è una delle innumerevoli contee presenti nei territori del fandom.
Un po’ visionari, un po’ robivecchi, tutti a bordo di una macchina del tempo collettiva, girovagando alla ricerca del tempo perduto e forse anche di un’identità fattasi inafferrabile, che solo il ruolo impersonato e la sua collocazione in una comunità riesce a fermare (in questo e per questo sono cosplayer), i protagonisti di Steampunk Connection, questi romantici fuori orario sotto sotto giocano a fare della frankenfiction, se il neologismo regge, perché rimettono in vita cose morte con lacerti disparati per attivare narrazioni di cui sono protagonisti e che a ben vedere raccontano pure di noi, del malessere contemporaneo, agitando emozioni diverse, intrattenendo, anche divertendo, emozionando e finanche riuscendo a commuovere, come negli avvolgenti romanzi ottocenteschi in cui si rispecchiano. In fondo, Annie Deniel è nata a Nantes in Francia, dove nacque Verne. Sarà un caso?