Per parlare ancora
della mia generazione

David Batty
My Generation
Cast principale: Michael Caine

con David Bailey, Roger Daltrey,
Marianne Faithfull,
Paul McCartney,
Mary Quant, Twiggy.
CG Entertainment
(home video) 2019

David Batty
My Generation
Cast principale: Michael Caine

con David Bailey, Roger Daltrey,
Marianne Faithfull,
Paul McCartney,
Mary Quant, Twiggy.
CG Entertainment
(home video) 2019


I fatti sono noti, acquisiti e passati alla storia pressoché metabolizzati. A mezzo secolo di distanza dalla conclusione della Decade con la maiuscola, ovvero il decennio che ha generato il mondo attuale, una beffarda nemesi, rivoltata come un guanto, anima infinite celebrazioni di ogni istante dei Sessanta.
Tra anniversari senz’anima, retromanie di ogni genere, operazioni di marketing furbastre più che mai e genuine quanto insane ricerche del tempo perduto, pervengono anche documenti preziosi estratti dagli archivi del passato che, senza necessitare di particolare maquillage, conservano una insospettabile freschezza.
Quella Decade vide l’avvento di un nuovo soggetto sociale, i giovani, la cui nascita determinò una rivoluzione culturale e di costume con un ribaltamento degli stili di consumo, avvenuto negli Stati Uniti prima e in Europa poi, che tuttora segna la nostra vita quotidiana. Un nuovo soggetto vitale, desiderante, creativo, insofferente all’ordine costituito, alle norme e ai divieti, che si impose in ambiti disparati, dalla musica alla moda, dal design al cinema e le arti visive tutte.

Nel bel mezzo di questa vera rivoluzione culturale d’Occidente, Michael Caine si trovò a dire la sua riguardo a emancipazione femminile, distanze e barriere tra i ceti sociali, il tutto condito da varie spiritosaggini e colto in presa diretta nel documentario realizzato nel 1967 da Peter Whitehead: Tonite Let’s All Make Love in London.
Caine aveva smesso da pochi anni i panni di Maurice Joseph Micklewhite Jr., come venne registrato all’anagrafe, per vestirne diversi, in particolare quello della spia internazionale Harry Palmer (in Ipcress del 1965 e l’anno dopo in Intrigo a San Pietroburgo), recitando con il nome d’arte che lo ha reso celebre.
Ai tempi del documentario di Whitehead, Caine aveva già fatto il botto con Alfie (1966) guadagnandosi un posto a fianco di altri personaggi già all’epoca trasfiguratesi in icone del decennio. In seguito sarebbe diventato sir Caine, ma senza dimenticare le sue origini proletarie londinesi, per esser precisi: cockney.

I suoi genitori erano uno scaricatore al mercato del pesce di Billingsgate e una domestica, come ci ricorda subito in My Generation, il documentario realizzato da David Batty presentato in anteprima alla 74° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2017) e ora disponibile nel formato dvd. Prende a prestito il titolo dal brano degli Who (dal celebre verso “Spero di morire prima di diventare vecchio”) e Caine funge da testimone, mezzo secolo dopo, di eventi che il tempo ha collocato ormai, come si è detto, nella sfera della celebrazione permanente.
My Generation è un lavoro prezioso per fattura, calibrato nei toni e dalla narrazione originale quanto basta, sospinto da un ritmo coinvolgente dettato da una strepitosa colonna sonora, a base di Kinks, Who, Rolling Stones, Small Faces, Beatles, Spencer Davis Group, Zombies, Animals, Donovan, Bob Dylan, insomma tutti i mattatori dell’epoca; soprattutto evita la nostalgia canaglia che in questi contesti ci va a nozze, anzi ci sguazza proprio. Una sfida non semplice da vincere, qui portata vittoriosamente a termine e quando la nostalgia fa comunque capolino è soffice come zucchero filato.

Il documentario si compone di tre parti, la prima intitolata Something in the Air, come l’hit (l’unico) dei Thunderclap Newman firmato da Pete Townshend, affidato alla band che creò quasi come un dopolavoro dagli Who e nella quale si dava da fare come bassista sotto le mentite spoglie di tal Bijou Drains.
Qui Caine torna a ricordarci, in modo più argomentato che nello storico documentario, quanto forti fossero le differenze di classe, di ceto e generazionali nell’Inghilterra all’alba dei Sessanta. Quanto i comportamenti fossero codificati, le norme ultra rigide, gli steccati insormontabili e come fu quella generazione a dare un calcio a tutto ciò. Parlano per tutti le avventure dei pirati di Radio Caroline, anni dopo diventate un racconto in parte infedele del regista Richard Curtis in The Boat That Rocked (2009), film da noi noto come I Love radio Rock. Era il 28 marzo 1964, quando Chris Moore e Simon Dee al largo delle coste dell’Essex annunciarono a bordo di una vecchia nave passeggeri danese riciclata l’inizio delle trasmissioni di Radio Caroline, infrangendo il monopolio della BBC. La prima bordata sparata fu Non Fade Away dei Rolling Stones. C’era davvero qualcosa nell’aria. Questa parte iniziale del racconto di My Generation è anche quella che più intreccia la biografia dell’attore con le vicende di quegli anni.

Anche la seconda sezione prende a prestito il titolo di un brano, I Feel Free, che apriva l’edizione statunitense del primo album dei Cream: Fresh Cream (1966). In Mi sento libero si celebra l’avvento della nuova generazione, del colore che annega il fumo di Londra, la libertà sessuale che fece tremare benpensanti e istituzioni. È la parte del racconto dedicata soprattutto alla moda, alla creatività generalizzata, ai fotografi, alle modelle, agli stilisti, alla musica ovviamente, e a Caine, che ricorda come a quel punto la condizione di cockney si fosse ribaltata in un plus, come egli stesso mostrò in Alfie. Si celebra anche la città, che apparve a un certo punto abitata soltanto da giovani che avevano voglia di divertirsi. Si chiude con il capitolo All was not as it seemed (Non tutto era come sembrava) e si dirà poi il perché di questa disillusione.
Torniamo al titolo: My Generation. Il brano e poi l’ellepì uscirono alla fine del 1965, l’anno che accese i Sessanta, secondo Jon Savage, giornalista, critico musicale, nonché conduttore televisivo e radiofonico britannico, che da alcuni anni va compilando una personale storia della musica e della cultura della Decade.

Anche se pubblicate ignorando qualsiasi ordine cronologico, le annate della serie si srotolano dal 1965, appunto (The Year The Sixties Ignited) fino al 1968 (The Year The World Burned), e nel mezzo ci sono i fondamentali 1966 (The Year The Decade Exploded), il primo a uscire come accompagnamento alla lettura dell’omonimo libro scritto da Savage e 1967 (The Year Pop Divided). È un altro esempio di documento autentico e privo di ammiccamenti dozzinali, come testimoniano le scalette dei brani inclusi, con presenze di gruppi e solisti ormai dimenticati.
Il documentario di Batty per certi versi fa molto di più perché rimanda sugli schermi, grandi e piccoli, frotte e folle di giovani per le strade e le piazze di Londra, anonimi testimoni d’epoca assieme ai diversi protagonisti di primo piano, tra cui anche molti dei luoghi che fecero da palcoscenico di quella rivoluzione. Il montaggio che a tratti si fa battente, punta a restituire la febbre, l’esaltazione bruciante dei tempi e al tempo stesso mette in risalto il poderoso lavoro su migliaia di ore di materiale d’archivio che ne ha reso possibile la realizzazione.

A fare da Virgilio in questo viaggio, lo si è detto, c’è Caine, quello di ieri e quello di oggi, grazie a un’ingegnosa soluzione: lo osserviamo a più riprese nei panni dei personaggi da lui interpretati nei Sessanta, da alcune scene tratte dai suoi film, che vengono montate assieme alle riprese odierne dell’attore inglese, che ritorna, per così dire, sul luogo del delitto. Un tour nella capitale inglese che è anche un viaggio nel tempo. Esemplare la sequenza che vede Caine recarsi al nightclub Ad Lib, luogo di ritrovo notturno della nuova gente londinese e che Caine frequentava anche al di fuori del set.
Posto all’ultimo piano di un edificio di Leicester Place, vi si accedeva con un piccolo ascensore, che mezzo secolo dopo Caine riprende. Lo frequentavano i quattro Beatles (John Lennon fu il primo), c’era sempre Marianne Faifthull, c’erano i Rolling Stones, e poi Julie Christie, Sean Connery, e c’era Caine. È lì che il fotografo David Bailey insegnò a Rudolf Nureyev come ballare il twist; lo ricorda egli stesso divertito non poco al ricordo che il grande ballerino russo, capace di fare l’impossibile ne Il lago dei cigni, fosse assai impacciato con quel ballo dove dimenarsi era d’obbligo.
Bailey fu autore di ritratti memorabili, così come altrettanto fecero Terence Donovan e Brian Duffy, la cosiddetta trinità nera dei fotografi di moda. Riecheggeranno tutti in qualche modo nel Thomas interpretato da David Hemmings in Blow Up (1966), ovvero quando Michelangelo Antonioni provò a fotografare la Swinging London, intuendo il ruolo di primo piano della moda nella trasformazione in atto.

I fotografi del settore svolgono un ruolo importante in questo racconto, che qui si riassume disordinatamente perché non c’è altro modo di farlo, essendoci mille e una storia che si svolgono tutte al contempo. Si ascoltano le voci di un tempo e le conversazioni fuori campo di alcuni di loro con Caine, ma in camera appare solo l’ottantacinquenne sir Caine. Lui racconta, ricorda, ma la sua non è l’unica voce che si ascolta: questo è un racconto corale fatto dai protagonisti, nessuno dei quali compare com’è oggi, tranne Caine, appunto.
In My Generation tutti e tre i fotografi sono ripresi al lavoro tra modelle e pop star. Nello studio di Bailey ritorna Caine, immortalato anch’egli in celebri scatti, così come Mary Quant, Mick Jagger, John Lennon & Paul McCartney, The Who e Penelope Tree, compagna oltre che modella di Bailey. Altre modelle in scena sono Joanna Lumley con Duffy, Jean Shrimpton con Donovan e naturalmente in primo piano c’è l’icona per eccellenza: Lesley Hornby, ovvero Twiggy, qui memorabile specialmente in una surreale intervista condotta da Woody Allen (!) sui suoi filosofi prediletti. Lei e Shrimpton vennero ribattezzate The Face and The Image of the Sixties; arrivò anche il matrimonio definitivo tra moda e musica, quando George Harrison sposò un’altra modella, Patti Boyd. Il giro per Londra tocca inevitabilmente i templi dell’abbigliamento giovanile, boutique come Biba, Lady Jane o il Bazaar di Mary Quant. Degno di nota in special modo è il materiale filmato relativo al salone di bellezza del parrucchiere Vidal Sassoon, l’uomo che inventò tagli sbarazzini che hanno fatto il look dell’epoca, a iniziare da quello indossato da Mary Quant.

Moda, costume, musica, un intreccio mai più sciolto, ingenuo ma già scaltro, che fece della Swinging London la capitale di un nascente paese delle meraviglie fatto di capelli lunghi, minigonne, complessi che sorgevano come funghi insieme ad altrettanti fan, voglia di divertirsi, di far fracasso: il New York Times nel maggio del 1966 definì l’area compresa tra Kings Road e Soho come la nuova Sodoma e Gomorra.
Nella prima parte del documentario fanno capolino esponenti della pop art inglese, come David Hockney, Alan Aldridge, Dudley Edwars e Pauline Boty, che fece anche l’attrice e flirtò con Caine ai tempi di Alfie. Scomparve appena ventottenne nel 1966 per una rara forma di tumore. Una grande perdita, perché “il suo modo di trattare i brillanti colori pop e l’immaginario iconico degli anni Sessanta la resero la più pura e forse la migliore tra gli artisti pop britannici dell’epoca” (Davis, 2012).
Sono di scena dall’inizio alla fine i musicisti, a iniziare dagli Who e compare ripetutamente Marianne Faithfull, bella più che mai – e Caine lo sottolinea – folgorante nella breve scena tratta da The Girl on a Motorcycle (1968) con la sua tuta di pelle nera in sella a una Harley-Davidson Elecra Glide.
Ci sono Eric Burdon, Donovan (il cantautore), Lulu, Sandie Shaw e un giovanissimo David Bowie. Appaiono a più riprese i Rolling Stones, e ancor di più i Fab Four in varie occasioni, dalle esibizioni al Cavern di Liverpool dove ogni tanto capitava Caine in pausa da uno spettacolo nel quale lavorava a quello sul tetto del palazzo di Savile Row a Londra.

Si mastica anche un po’ amaro sul finire e il titolo della terza parte lo anticipa: All was not as it seemed. Arrivano gli eccessi, gli abusi di sostanze pericolose, gli arresti (quello celeberrimo di Mick Jagger e Keith Richards), i divieti, le manifestazioni, gli scontri. Ci si oppone al razzismo, alla guerra. Appare Timothy Leary a suggerire l’antidoto: un sano sballo. Una volta di più riascoltiamo McCartney nella celebre intervista in cui dichiarò di aver fatto uso di allucinogeni. Tutto si raggruma nella morte di Brian Jones il tre luglio 1969 accompagnata da una considerazione di Richards che si toglie i panni del cinico e appare commosso per un istante: quasi irreale.
Fine del decennio, forse delle illusioni, le cose in seguito si complicarono non poco, le immagini si riavvolgono iper veloci e l’inquadratura si restringe vieppiù risucchiata fino a sparire, sfondo: il buco nero del tempo: “I’m just talkin’ ‘bout my g-g-g-generation (Talkin’ ‘bout my generation)”.

Ascolti
  • Autori vari (a cura di Jon Savage), 1965: The Year The Sixties Ignited, Ace Records, 2018.
  • Autori vari (a cura di Jon Savage), 1966: The Year The Decade Exploded), Ace Records, 2015.
  • Autori vari (a cura di Jon Savage), 1967: The Year Pop Divided, Ace Records, 2017.
  • Autori vari (a cura di Jon Savage), 1968: The Year The World Burned, Ace Records, 2018.
Letture
  • Barry Miles, London Calling. La controcultura a Londra dal ’45 a oggi, EDT, Torino, 2012.
Visioni
  • Richard Curtis, I Love Radio Rock, Universal Pictures, 2010 (home video).
  • Peter Whitehead, Tonite Let’s All Make Love in London, Network, UK, 2017 (home video).