Scrutando il lato mostruoso
di un pianeta chiamato Dante

Lorenzo Montemagno Ciseri
Cerbero e gli altri
I mostri nella Divina Commedia
Carocci, Roma, 2021

pp.139, € 15,00

Lorenzo Montemagno Ciseri
Cerbero e gli altri
I mostri nella Divina Commedia
Carocci, Roma, 2021

pp.139, € 15,00


Nella Divina Commedia, poema popolato di mostri, in larga parte ereditati dalla letteratura classica, troviamo, fra gli altri, un episodio metamorfico che presenta forti analogie con la creatura xenomorfa del film Alien (Ridley Scott, 1979). Siamo nel canto XXV dell’Inferno, settima bolgia, i ladri; Dante e Virgilio hanno appena visto Vanni Fucci venire aggredito da un nugolo di serpi (“Maremma non cred’io che tante n’abbia/quante bisce elli avea su per la groppa/infin ove comincia nostra labbia”, Inf. XXV, vv.19-21). Sulle spalle del Fucci, “dietro dalla coppa” (in corrispondenza della nuca) giace un drago (Caco) con le ali aperte, che spira fuoco. È una delle clamorose presenze vitali delle visioni dantesche persistenti nell’immaginario contemporaneo.

Di Dante la notte di Matteo Freom, uno dei lavori della mostra Inferno, collettanea di illustrazione ideata e curata per la galleria Siotto di Cagliari nel dicembre 2020 da Roberta Vanali.

A ben vedere, le creature mostruose descritteci dall’Alighieri nell’Inferno e nel Purgatorio sopravvivono davvero in gran numero nella cultura pop, come documenta Lorenzo Montemagno Ciseri nel suo recente Cerbero e gli altri.  Ecco dunque che, proseguendo nel cammino, Dante e Virgilio si imbattono in altri dannati, sempre ladri; e qui alla paura si mescola lo stupore: lo stesso Dante, protagonista e cronista del viaggio nell’aldilà, confessa al lettore di credere a stento ai propri occhi. Scrive Montemagno Ciseri:

“Un mostruoso serpente con sei zampe si avventa su uno dei ladri e gli si attacca addosso, aderendo completamente al suo corpo, mettendo anche la coda tra le sue gambe sino a distenderla sulla schiena e mordendogli entrambe le guance. Il mostro si abbarbica al dannato, dice Dante, come l’edera fa con l’albero: i due corpi si saldano e si fondono in una sola creatura. Ricorda molto la scena di Alien (Ridley Scott, 1979) quando il mostro xenomorfo protagonista del film, nella seconda fase del suo ciclo vitale, balza addosso a uno degli astronauti della nave Nostromo attaccandosi al suo volto, e in nessun modo, nemmeno con un intervento chirurgico, si riesce più a staccarlo. Il Facehugger (l’”abbraccia faccia”), così viene chiamato quel mostro spaziale, si aggrappa alla vittima avvolgendo la coda a spirale sul collo e cingendo la testa e il volto con le zampe per poi depositare un embrione nel suo torace al fine di riprodursi e perciò rinascere. Giusto per ribadire la modernità visionaria di Dante, la scena della Commedia ha poco da invidiare alla celebre sequenza della fantascientifica pellicola hollywoodiana”.

La singolare affinità tra il Facehugger visto in Alien e l’azione del serpente a sei zampe qui in una miniatura del XIV secolo (Biblioteca Marciana, Venezia).

L’elenco dei vari tipi di serpenti riportato da Dante nel canto XXIV dell’Inferno (vv. 82-90) prepara la duplice portentosa metamorfosi descritta nel XXV, e si rifà alla dotta elencazione dei serpenti che vivono nel deserto libico, fatta da Lucano, nel suo poema Guerra civile (IX, 700-733). Scrive sempre Montemagno Ciseri:

“Quella della Commedia altro non è che una summa della lunga e favolosa lista di rettili venefici (diciassette circa tra serpenti e draghi) di cui il poeta latino spiega sinteticamente le ‘nature’, ovvero le caratteristiche di ognuno, in una forma che sarà poi propria di tutti i bestiari medievali. L’altra fonte diretta, che giustifica anche la genesi mostruosa di tali serpenti, sono le Metamorfosi (IV, 617-620) di Ovidio ove si narra di come dalla testa decapitata di Medusa, portata in volo da Perseo sulle sabbie della Libia dopo la sua uccisione, grondassero gocce di sangue che fecondando l’arido terreno, dettero vita a tutta quella congerie di serpi letali”.

Mostri classici e mostri moderni
Ovidio e Lucano non sono, ovviamente, le uniche fonti antiche per Dante in materia di esseri mostruosi. Molte “fiere” e/o esseri demoniaci della Divina Commedia (come vedremo Dante userà la parola “mostro” solo più avanti, nel Purgatorio) sono già nell’Eneide: Caronte, Cerbero, Minosse, le Furie e Medusa, il Minotauro, i Centauri, le Arpie, Gerione, i Giganti. Dante non si limita, però, a prelevarli e rimetterli nel suo poema come manichini mitologici, ma ricontestualizza e innova soprattutto le loro funzioni. Li fa suoi. E soprattutto li carica spesso di nuove valenze simbolico-allegoriche.
Prendiamo Gerione. Nell’Eneide è poco più che un nome (“forma tricorporis umbrae”), nella Divina Commedia è una nuova creazione della zoologia fantastica, con volto umano (e “benigno”), corpo di drago e coda di scorpione, che funge da navetta sulla quale Dante e Virgilio scendono nel baratro tra settimo e l’ottavo cerchio (Malebolge); il Gerione dantesco assomma le caratteristiche di diversi mostri classici e medievali, dall’antica e triforme Chimera alla Manticora, animale anch’esso di tre nature, dal volto umano, corpo di leone e coda di scorpione, descritta per la prima volta da Ctesia di Cnido, un medico del V secolo a.C nella sua opera L’India (Indikà in greco antico).

Minosse disegnato da Go Nagai per la sua rivistazione manga della Commedia.

Un altro esempio è Minosse che compare sulla soglia del secondo cerchio dell’Inferno: mantiene il suo tradizionale ruolo di giudice infernale, ma il particolare della coda con cui si riavvolge tante volte quanti sono i cerchi nei quali l’anima dannata deve scontare la sua pena eterna, lo rende ancora più mostruoso e animalesco dell’originale, come si vede anche nella versione manga realizzata da Go Nagai dove la coda serpiforme di Minosse s’avviluppa ai corpi dei peccatori.
A loro volta, le Furie dantesche compaiono all’ingresso della Porta di Dite, tra il quinto e il sesto cerchio dell’Inferno:

Tre furïe infernal di sangue tinte,
che membra femminine avìeno e atto,
e con idre verdissime erano cinte;
serpentelli e ceraste avean per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte
(Inferno IX, 38-42).

Nell’aspetto terrificante non sono molto diverse dalle Gorgòni, e impediscono l’accesso ai due poeti invocando proprio Medusa, una delle Gorgòni, che con il suo sguardo pietrificante minaccia soprattutto Dante. Virgilio interviene prontamente coprendogli gli occhi. Un altro esempio di innovazione dantesca sono le Arpie (Aello, Ocipite e Celeno) che, pur mantenendo a grandi linee la fisionomia tradizionale (“ali hanno late, e colli e visi umani/piè con artigli, e pennuto il gran ventre;/fanno lamenti in su li alberi strani”) sono ricollocate in un ambiente nel quale sembrano adattarsi perfettamente: mangiando le foglie degli alberi sui quali han fatto i loro nidi, lacerano anche gli spiriti dei suicidi che di quegli alberi hanno assunto le sembianze.

Dai Giganti a Lucifero
Nella Divina Commedia non troviamo Polifemo, cui Virgilio dedica un ampio excursus alla fine del terzo libro dell’Eneide, ma in compenso ci imbattiamo in almeno tre giganti: Nembròt, Fialte e Anteo, fra l’ottavo e il nono cerchio, che sporgono dalla vita in su da pozzi nei quali sono tutti incatenati, tranne Anteo che, fatti accomodare Dante e Virgilio nel palmo della sua enorme mano, ne agevolerà il passaggio nel IX cerchio, il Cocito. Sono così alti che Dante li scambia, da lontano, per torri, paragonandoli, con realistica similitudine geografica, alle torri di Monteriggioni, castello senese in Val d’Elsa. Se, come calcolò in seguito Galileo Galilei, Nembròt doveva misurare circa 25 metri, il solo braccio di Lucifero poteva arrivare a quasi 380 metri di altezza! (questi calcoli sono un’elaborazione sulla base di elementi descrittivi forniti da Dante stesso). Ognuna delle sue tre teste maciulla un uomo: non sono tre dannati qualunque, ma Bruto, Cassio e Giuda, le figure storicamente più abiette del tradimento. Quindi il Lucifero dantesco è la summa di tutti i principali mostri immaginabili: è antropofago come Polifemo, è smisuratamente gigantesco, è tricefalo come Cerbero, è dotato di enormi ali da pipistrello, due per ogni testa, grandi ciascuna più di una vela, muovendo le quali Lucifero provoca un vento che raggela tutto il nono cerchio, trasformandolo in lago ghiacciato. Dai sei occhi scorrono le lacrime mischiate alla bava sanguinosa che scende sui tre menti. I tre volti di Lucifero si contrappongono alle tre persone della Trinità, e rappresentano l’impotenza o l’invidia che da essa consegue (la faccia esangue, tra bianca e gialla), l’ignoranza (la faccia nera del colore delle tenebre, contrapposta alla luce che raffigura la chiarezza intellettuale) e l’odio (la faccia vermiglia).

Particolare del Giudizio Universale di Coppo Da Marcovaldo nel Battistero di San Giovanni, Firenze. Fonte: Dante700, mostra fotografica di Massimo Sestini.

Ritroviamo lo spirito di questo super-mostro dantesco più nel Diavolo del Giudizio Universale realizzato da Coppo di Marcovaldo (1225-1276) nel Battistero di Firenze, che in altre rappresentazioni, anche più vicine a noi sul piano cronologico, come quella di Gustave Doré, al quale si ispira l’illustratore giapponese Go Nagai. Il Lucifero di Doré ha una sola testa (e non tre, come nella descrizione dantesca) anche se Go Nagai cerca di mantenere l’idea delle tre bocche immaginandone due laterali sullo stesso capo. Assai più aderente alla realtà del testo la rappresentazione di Lucifero nell’illustrazione di Paolo Barbieri (2021).

Dalla metamorfosi di Aracne alla Sirena
Fra le 135 illustrazioni della Divina Commedia di Gustave Doré, pubblicate tra il 1861 e il 1868, una delle più impressionanti e mostruose è l’immagine relativa al canto XII del Purgatorio: Dante e Virgilio osservano, fra gli esempi di superbia punita, la fine di Aracne, la giovane ricamatrice della Lidia trasformata in ragno da Atena sdegnata dalla bravura della fanciulla che aveva osato sfidarla in una gara nell’arte della tessitura. Doré coglie Aracne a metà del suo processo di trasformazione, è quindi ancora una donna nella parte superiore del corpo (tronco, volto e braccia conservano i tratti sensuali della fanciulla, che espone involontariamente il seno alla vista dei due poeti), ma ha già sviluppato le sei zampe di ragno, a partire dalle gambe. La storia di Aracne è ampiamente narrata da Ovidio nelle Metamorfosi (VI, vv.1-145), ma si noti che Doré dedica, con i dettagli della sua raffigurazione, molta più attenzione di Dante che si limita ad accennare alla fanciulla in tre versi: “O folle Aragne, sì vedea io te/già mezza ragna, trista in su li stracci/dell’opera che mal per te si fè” (Purg. XII, 43-45).

La storia di Aracne nella classica illustrazione di Gustave Doré .

Le metamorfosi sono una delle caratteristiche tradizionali della categoria del mostruoso: abbiamo visto che Dante sfida dichiaratamente Ovidio nel canto XXV dell’Inferno descrivendo la doppia trasformazione di un serpente in uomo e di un uomo in serpente, attraverso un meccanismo di fusione tra corpi che ricorda, nelle sue fasi iniziali, il Facehugger di Alien. Il Lucifero dantesco è la rappresentazione più estrema di una metamorfosi, se consideriamo la sua originaria natura angelica prima della caduta dal cielo al centro della Terra. Un’altra trasformazione, questa volta di natura epico-onirica, è quella della Sirena all’inizio del canto XIX del Purgatorio, dove Dante sogna una donna balbuziente (“femmina balba”), brutta, pallida, trasformata dallo sguardo di Dante in “dolce sirena”, che incanta i marinai:

“Io son” cantava “io son dolce serena
che’ marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!
Io volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meno si ausa,
rado sen parte; sì tutto l’appago!”
(Purgatorio XIX, 19-24).

All’improvviso appare un’altra donna (non è detto chi: forse Beatrice) che esorta Virgilio a strappare le vesti della sirena, denudandola: Dante si sveglia per il puzzo che emana il ventre della sirena. L’attualità di Dante, secondo i dettami della teoria memetica, riemerge rileggendo alla luce di questi versi l’opera (scultura in marmo) di Damien Hirst, Anatomy of an Angel (2008) che esprime, proprio come in Dante, la bellezza che riveste la latente mostruosità del corpo umano, parzialmente rivelata dall’artista attraverso la messa a nudo di alcune parti interne.

Anatomy of an Angel (2008) di Damien Hirst.

Il Grifone
La fantasia dantesca opera un analogo processo di innovazione/ricontestualizzazione con il Grifone, un altro must della zoologia fantastica di epoca classica, un mostro che nemmeno uno dei maestri di Dante, Brunetto Latini, trattando delle meraviglie d’Oriente, manca di elencare nel suo enciclopedico Trésor. Dante rielabora in chiave cristiana la creatura metà leone e metà aquila, seguendo Isidoro di Siviglia. Il cristologico Grifone spicca nella processione simbolica del Paradiso Terrestre, trainando un Carro anch’esso simbolico. In assenza del divino animale dalle due nature, il Carro della Chiesa verrà stravolto da una metamorfosi mostruosa che fa ripiombare il lettore nel clima dell’Apocalisse, con il mostro a dieci teste e dalle dieci corna. E solo in questa occasione, al verso 147 del canto XXXII del Purgatorio, Dante usa la parola “mostro”, dopo aver elencato o descritto almeno una ventina di impressionanti figure in parte umane, in parte animali, o del tutto zoomorfe:

Trasformato così ‘l edificio santo,
mise fuor teste per le parti sue,
tre sovra’l temo e una in ciascun canto:
Le prime eran cornute come bue,
ma le quattro un sol corno avean per fronte:
simile mostro visto ancor non fue.
(Purgatorio XXXII, 142-147).

Il processo di metamorfosi del Carro in nuovo mostro (la nova belva, v.160) non finisce qui: è il preambolo per l’apparizione di due personaggi, la puttana sciolta e il Gigante. Il “feroce drudo” prima bacia la puttana, poi la frusta da capo a piedi, non prima di aver rivolto lo sguardo a Dante. La rassegna dei mostri nella Divina Commedia del libro di Montamagno Ciseri culmina proprio con il Grifone e la Bestia dell’Apocalisse, ma inizia dalle tre fiere (lonza, leone e lupa) che compaiono a Dante nel primo canto del Poema, poco fuori dalla selva selvaggia. Ma attenzione: Dante usa il termine “bestia” solo per la Lupa (la lonza è “la fera alla gaetta pelle”), persino Pluto è definito “fiera crudele” e Gerione è la “fiera con la coda aguzza” o il “fiero animale”. Il Grifone è la “fera ch’è sola una persona in due nature”, cioè di leone e d’aquila figuranti la natura umana e divina della persona di Cristo.

Letture
  • Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Roberto Mercuri, Einaudi, Torino, 2021.
  • Gustave Doré, La Divina Commedia di Dante Alighieri, guida visuale al poema dantesco, Mondadori, Milano, 2021.
  • Marco Anneo Lucano, La guerra civile, Utet, Torino, 2015.
  • Ovidio, Le Metamorfosi, Einaudi, Torino, 2015.
  • Virgilio, Eneide, Mondadori, Milano, 2020.
Visioni
  • Dante Alighieri, L’Inferno di Dante, illustrato da Paolo Barbieri, Sergio Bonelli Editore, Milano, 2021.
  • Go Nagai, La Divina Commedia, Edizioni BD, Milano, 2019.
  • Ridley Scott, Alien, 20th Century Fox – Disney, 2011 (home video).