La storia è una mascherata,
parola di Watchmen

Damon Lindelof (ideatore)
Watchmen
Prima stagione

Nove episodi
Cast principale:
Regina King, Louis Gossett Jr.,
Jeremy Irons, Don Johnson,
Tim Blake Nelson, Jean Smart
Produzione: DC Entertainment,
Warner Bros. Television
Distribuzione: HBO, 2019

Damon Lindelof (ideatore)
Watchmen
Prima stagione

Nove episodi
Cast principale:
Regina King, Louis Gossett Jr.,
Jeremy Irons, Don Johnson,
Tim Blake Nelson, Jean Smart
Produzione: DC Entertainment,
Warner Bros. Television
Distribuzione: HBO, 2019


Come dice il Dr. Manhattan (che vive contemporaneamente nel passato e nel futuro) “non esiste una fine”. Certi supereroi di successo sembrano proprio non voler morire mai. Oggi si fatica a creare nuovi miti e si preferisce esplorare meglio quelli già esistenti. A fronte di un immaginario sempre più segmentato e personalizzabile per via delle tecnologie, il racconto supereroico (e il cinecomic in particolare) riesce ancora ad essere socialmente significativo perché mantiene lo status di narrazione popolare coinvolgendo un vasto pubblico trasversale grazie a una serie di contingenze tra cui la transmedialità e il merchandising. Solidità di miti radicati, comfort zone dell’immaginario, festival della nostalgia o forse bisogno di creare un ponte tra le generazioni: sta di fatto che le pietre miliari dell’immaginario anni Ottanta sono un faro per moltissima serialità action e per la fantascienza audiovisiva contemporanea.

L’inadattabile Alan Moore
Con la fine delle grandi narrazioni (cfr. Lyotard, 2014) la destrutturazione del super-eroe e del super-ottimismo ci porta dritti al 1986, l’anno in cui escono due grandi graphic novel: Il ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller e Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons. Quest’ultima è l’opera che più di ogni altra ha rivoluzionato il modo di concepire il fumetto e l’analisi del fumetto (cfr. Nigro, 2006). L’unico fumetto ad aver vinto un premio Hugo (1988) e il primo a entrare nella lista di Time dei cento migliori romanzi in lingua inglese. Torna in rilievo (e torna anche nelle fumetterie italiane) grazie alla serie tv HBO, un adattamento ideato da Damon Lindelof che riesce a non cadere nella trappola della soggezione e del ricalco.

Lo sceneggiatore statunitense (popolare per serie di successo come Lost e The Leftovers) si appropria delle maschere e le sposta in un discorso sulla trasmissione intergenerazionale di miti e sentimenti focalizzando in particolare: 1) l’eroismo e gli usi sociali e istituzionali della violenza; 2) il razzismo e la manipolazione dell’opinione pubblica; 3) il valore della memoria storica. Condito con spruzzate di sense of wonder fantascientifico, il lavoro di Lindelof riesce in parte a traslare quella felice intuizione di Alan Moore che utilizza elementi ucronici per generare spunti di satira politica.
Strano che Alan Moore abbia sempre odiato gli adattamenti audiovisivi visto che la sua arma principale è quella pazza voglia di collage postmoderno. Come nel fumetto originale, anche la serie del 2019 tiene insieme le parti del racconto con ripetizioni e parallelismi condensando gradualmente un tutto armonico molto denso di riferimenti intertestuali.
Interessante in questo senso l’esperimento della Peteypedia, (dove scopriamo, per esempio, l’identità segreta dell’ineffabile Lube Man, L’Uomo Lubrificante) il portale di HBO che contiene documenti e informazioni sul mondo di Watchmen, approfondendo alcuni angoli della serie tv attraverso brevi letture, ricalcando così i racconti brevi che furono aggiunti in coda a ogni numero del Watchmen pubblicato nel 1986-1987 (Il nome del sito deriva da Dale Petey, agente speciale della task force anti-vigilanti). Da notare che il maccartismo e il feroce anticomunismo americano degli anni Cinquanta hanno relegato il medium fumettistico nel reparto “storie per ragazzi” (cfr. Di Nocera, 2005) dal quale sono venuti fuori, nel corso dei decenni successivi, le prime potenti contaminazioni postmoderne a smontare l’immaginario industriale come sistema unico di organizzazione della realtà. Senza troppi filtri e affettazioni, la serie di Lindelof si presenta relativamente indipendente da logiche di mercato e critica la storia americana correndo parallela a quella briosa macchina destrutturante che è The Boys, altra straordinaria serie del 2019 dedicata ai supereroi, a sua volta visibile su Amazon Prime.

Damon Lindelof coglie dunque le inquietudini e le intuizioni della graphic novel scritta da Alan Moore e mette la sua visionarietà (o i suoi eccessi a seconda dei punti di vista) al servizio di quello spirito. Come quando (capitolo 6) gli effetti visivi accompagnano la soggettiva di Angela che sceglie di ingerire le pillole di Nostalgia per rivivere in forma allucinatoria i ricordi di Giustizia Mascherata in un vertiginoso rimbalzo attraverso le epoche. I raccordi di montaggio e i movimenti di macchina alternano mood cromatici e stati di coscienza in un surreale flip book che sembra voler fondere insieme a velocità folle tavole di fumetti poste una sopra l’altra.

La persistenza della maschera
La serie tv di Lindelof è concepita come un sequel ambientato in un 2019 alternativo con ampi riferimenti a un corso politico ucronico. In USA i supereroi sono fuorilegge mentre i poliziotti sono protetti da maschere che cercano di tutelarne la privacy. La minaccia principale è costituita dal terrorismo dei suprematisti bianchi. Al centro della bilancia morale pesanti questioni razziali mai risolte, come per esempio la strage di Tulsa (1921): geniale l’idea di mettere quei fatti storici realmente accaduti al centro di una narrazione ucronica visto che sono talmente clamorosi e poco raccontati da sembrare quasi un’invenzione.
In un panorama mediatico che consuma eroi, narrazioni e fatti di cronaca a un ritmo vertiginoso, alcuni personaggi resistono (forse anche troppo secondo alcuni) nella memoria collettiva e lo sceneggiatore deve trovare il modo per giustificarne la persistenza in nuove narrazioni. L’esatto momento dell’origine dell’eroe diventa fondamentale e deve potersi sovrapporre a tutti i momenti della striscia seriale che seguirà. Generalmente c’è una vendetta o la decisione di abbracciare un sentimento vendicativo raccogliendo il testimone da un genitore o da una persona cara. Giustizia Mascherata sceglie come travestimento il cappuccio nero e il cappio per ricordare a sé stesso il tentativo di linciaggio a cui è stato sottoposto. Da quel momento fondativo il vendicatore afroamericano trae la sua forza e la sua motivazione. Watchmen investiga sull’unicità del momento, sviluppando anche una riflessione sulle origin story che si disciolgono in flussi di serialità intergenerazionale.

Le maschere di Rorschach indossate dai suprematisti bianchi sono il simbolo della vendetta contro l’establishment politicamente corretto ma anche l’espressione di un paradosso della contemporaneità: le narrazioni sui vigilanti mascherati, individui che si sacrificano per raddrizzare torti e difendere la pace sociale, alimentano le fantasie di altri individui che ancora sognano il concetto di razza superiore. Come ha notato lo stesso Alan Moore (cfr. Sahsan, 2019), il film Nascita di una nazione è una pietra miliare delle audiovisioni superomistiche. A ben vedere l’iconografia del Ku Klux Klan mostrata nella pellicola del 1915 di D.W. Griffith introduce nel Novecento cinematografico la complessa materia dei vigilanti tra burocrazia, tutela della legge e rispetto delle minoranze. E sottolinea l’importanza simbolica delle maschere.

L’amore e l’apocalisse permanente
L’eccezionalità del Dr. Manhattan (alias Jon Osterman) non deriva da una vendetta ma dagli esiti imprevisti di un esperimento di fisica nucleare in piena guerra fredda USA/URSS: il quasi raggiunto baratro della terza guerra mondiale conduce a un sorprendente upgrade da uomo a semi-dio. Ma le capacità acquisite sono una responsabilità troppo grande nei confronti del genere umano. Dal suo Olimpo cosmico il dio blu potrebbe giudicare e manipolare la storia umana a piacere, ricongiungendo i componenti nella giusta sequenza così come gli insegnò il padre orologiaio. La presenza dell’essere dalla pelle blu trasforma la narrazione in un sistema pulsante di energia quantistica in cui ogni vettore influenza gli altri e i livelli temporali sono intimamente connessi. Come in un orologio, ogni ingranaggio muove un altro come quest’ultimo ne muove un altro e così via.
Jon percepisce questo meccanismo sentendo le vibrazioni di ogni singolo atomo anche proiettato nel tempo in senso quadrimensionale. Bene e male sembrano solo vaghe astrazioni perché il dio vede gli umani come organismi pluricellulari destinati alla polvere. Jon trova un suo equilibrio diventando un deus otiosus (cfr. Brelich, 2003) perché la sua coscienza abbraccia contemporaneamente tutti gli istanti del suo passato e del suo futuro. Ma il super blu ha sempre avuto un debole per le figure femminili. Qui Lindelof si diverte a lanciare allusioni alla mitologia greca, puntando in particolare sull’abitudine di Zeus di trasformarsi in cigno o altro per poter avvicinare le figure femminili di interesse. L’uovo “fecondato” dal dio blu è forse un riferimento al mito di Leda.

In una storia d’amore il momento dell’innamoramento e quello della fine sono vissuti e rivissuti continuamente da Jon. Eppure, nonostante la sovrapposizione, egli riesce a distinguere con esattezza il momento in cui si innamora della donna con cui sceglie di condividere la parte finale della sua esistenza. Gli americani amano usare la parola momentum, un termine mutuato dalla fisica. In ambito sportivo, definisce l’esatto istante della partita in cui un atleta o una squadra (che sia in vantaggio o in rimonta) “vede” la vittoria finale e si fa forza con quello slancio. In una scena emotivamente ben costruita la nuova fiamma del Doc si illude di poter modificare il corso degli eventi gettandosi in una sparatoria suicida per proteggere il suo amato. Commosso dalla finitezza umana Jon Osterman capisce che si può solo sfiorare il divino e accetta il limite umano lasciandosi prendere.
Gli dei si rivelano dunque umani e nessuno controlla i controllori. Resta sul campo la domanda: la “natura selvaggia dell’uomo” (Moore, Gibbons, 2019) porterà inevitabilmente al suo annientamento? In effetti l’orologio del Giorno del Giudizio segna sempre pochi minuti alla mezzanotte, oggi come negli anni Ottanta di Alan Moore. L’agente Blake nota che tutti parlano della fine che si avvicina, di un’apocalisse imminente, ma poi non accade nulla. L’apocalisse può essere sognata facendosi terrorizzare dal futuro oppure può essere ricordata continuamente come nel caso dei sopravvissuti di Tulsa 1921. L’umanità resta “condannata” a muoversi desiderando un giudizio divino che però non arriva mai. Come dice una segreteria telefonica ad Angela che cerca risposte (almeno genetiche) sulla sua appartenenza: “le risposte ai misteri della vita sono le storie della vita”.

La soggettiva psicologica del bambino
Jon Osterman ci ha provato a mescolarsi con il genere umano cancellando la memoria e mascherandosi da uomo, ma qualcosa è andato storto. Decide di lasciarsi distruggere per poi trasmettere ad altri i suoi poteri. E con essi la responsabilità. Affida al più anziano dei vendicatori (Louis Gosset jr., in grande spolvero a 83 anni) gli indizi chiave e quindi il ruolo di notaio. Ma alla fin fine l’eredità del Doc è una prigione: è il cerchio di quella umanissima volontà di potenza che si trasmette ancora una volta.

Decisivo per il passaggio intergenerazionale il momento in cui il figlio del vendicatore osserva la maschera del genitore. La scena con il figlio di Giustizia Mascherata viene poi replicata con il figlio di Sorella Notte. Anche Lady Trieu esiste in funzione del progetto di mostrare le sue abilità al padre. Proprio quest’ultima (che accusa il padre di essere un villain ripetitivo con la sua ossessione per calamari e calamaretti) e il clan dei suprematisti bianchi finiscono male nel tentativo di forzare le geometrie e di rivoluzionare il giro di valzer tra le generazioni. La vita è un palcoscenico su cui i genitori recitano e i figli osservano la messa in scena. Proprio come faceva un giovanissimo Giustizia Mascherata seduto sulla sua seggiola di legno in quel piccolo cinema di Tulsa. La domanda posta da Alan Moore “chi guarda i controllori?” viene trasformata da Lindelof in “cosa guardano i figli dei controllori?”. Il Watchmen HBO colloca spesso gli eroi davanti a quella macchina da presa vivente che è il punto di vista dei bambini. La retina infantile come pellicola mentale altamente infiammabile. A volte è un rischio, ma per partecipare a quel ballo in maschera che è la storia dell’umanità bisogna perlomeno contribuire al passaggio di saperi e di segni ai posteri.
Resta incerta però la sorte di questa serie tv targata HBO. Lindelof non sembra interessato a scrivere una stagione due. Forse l’Ozymandias dei telefilm è consapevole di aver consumato tutte le sue cartucce migliori. Almeno per il momento.

Letture
Visioni
  • Alan Moore, Dave Gibbons, Watchmen, RW Lion, Novara, 2019.
  • Zack Snyder, Watchmen, Universal Pictures, 2009 (home video).