Produzione di racconti
a mezzo di racconti: The OA

Zal Batmanglij (regia)
Brit Marling, Zal Batmanglij
(ideatori)
The OA
Seconda stagione

Otto episodi
Cast principale: Jason Isaacs,
Emory Cohen, Scott Wilson,
Alice Krige, Patrick Gibson,
Brandon Meyer, Brandon Perea,
Ian Alexander, Phyllis Smith
Produzione e distribuzione:
Netflix 2019

Zal Batmanglij (regia)
Brit Marling, Zal Batmanglij
(ideatori)
The OA
Seconda stagione

Otto episodi
Cast principale: Jason Isaacs,
Emory Cohen, Scott Wilson,
Alice Krige, Patrick Gibson,
Brandon Meyer, Brandon Perea,
Ian Alexander, Phyllis Smith
Produzione e distribuzione:
Netflix 2019


Pur essendo passati solo tre anni dall’uscita della prima stagione della serie The OA, uno dei primi Netflix originals dopo lo sbarco in Italia, ci sembrano impressi nella memoria solo alcuni flash, ricordi di un sogno distante. In quei primi otto episodi la protagonista, Prairie Johnson, fa misteriosamente ritorno a casa dopo essere scomparsa per sette anni, riacquistando la vista che aveva perso da bambina dopo un incidente.
Si presenta con una storia bizzarra e misteriosa, sostenendo di essere il P.A. (il Primo Angelo nell’edizione italiana, in luogo di Original Angel), riunisce un gruppo di liceali e una professoressa e condivide con loro il suo vissuto, in particolare una danza rituale che permette di viaggiare tra le dimensioni. Il finale, perfettamente in bilico fra fantastico e stringente attualità, lasciava spazio per un sequel pur essendo perfettamente autoconclusivo. Questo perché:

The OA si muove in una commistione sapientemente dosata di thriller, fantascienza e teen-drama. Ma quando crediamo di aver compreso la direzione del racconto tutto si stravolge nuovamente, lasciando lo spettatore e gli stessi protagonisti in balia di un processo narrativo labirintico, pieno di svolte e vicoli cechi. The OA, infatti, è un racconto di racconti, una storia di storie” (Franzoni, 2016).

Brit Marling torna a collaborare con il suo partner di scrittura e regista Zal Batmanglij, i due hanno lavorato insieme nei lungometraggi The Sound Of My Voice (2012) e The East (2013), e la serie è evidentemente caratterizzata dal loro tocco peculiare, raggiungendo il picco della loro maturità creativa. Se la prima stagione mostrava molte assonanze con The Sound Of My Voice, la seconda stagione punta decisamente alla Luna. The OA è ambizioso e filosofico, e mette in luce l’entusiasmante talento dei due cineasti.

Nella prima stagione, l’antagonista principale o, per meglio dire, uno dei protagonisti di questo coro indissolubile di caratteri, il Dr. Hap Aloysius Percy, sostiene che la morte non è altro che un giardino di sentieri che si biforcano. Una metafora botanica che avrà seguito nello svolgimento della seconda stagione, che fa esplicito riferimento, appunto, al racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano (1941) di Jorge Luis Borges, che a sua volta richiama le teorie quantistiche dell’interpretazione “a molti mondi”: queste ultime presuppongono, per ogni misurazione di uno stato quantistico, la divisione della storia dell’universo in mondi distinti che non si intersecano tra essi. Ancora una volta, torniamo all’affascinante meccanismo narrativo del multiverso.
Per comporre una storia così lunga e complessa gli autori hanno indubbiamente attinto a tutto lo scibile paranormale. Hanno letto sicuramente i libri sugli angeli e le near death experiences; non a caso i libri che vengono trovati sotto il letto di P.A. nella prima serie. Hanno studiato sapientemente la storia di John Mack, psicologo impegnato in tutta la sua vita a cercare di comprendere la natura delle abductions.

Il personaggio del Dr. Percy è esplicitamente ispirato, anche dal punto di vista estetico, vista l’impressionante somiglianza, allo psicologo americano. Dagli studi di Mack emerse, nei suoi pazienti, una rinnovata visione del mondo, con un sentimento di spiritualità e di sensibilità ambientalista. I corsivi, nella frase precedente, non sono casuali: sottolineano tutte le similitudini evidenti con il plot delle due stagioni. Nei suoi scritti Mack sottolinea quanto, soprattutto nelle società pre-industriali (egli prende ad esempio i nativi americani), esista una lunga storia di esperienze visionarie socialmente accettate e non interpretate come aberranti malattie mentali.
Nel loro percorso di indagine alla ricerca di riferimenti e spunti narrativi, gli autori si sono sicuramente imbattuti nella leggenda metropolitana de “l’uomo dei sogni”: il ritratto che migliaia di persone farebbero di un uomo sconosciuto che apparirebbe come protagonista deli loro vissuti onirici, a cui è dedicato anche un sito. Secondo alcuni il volto dello sconosciuto farebbe parte di una sorta di subconscio collettivo. Proprio come le visioni collettanee dei sognatori prescelti nella seconda stagione.

Lo psicologo John Mack (a sinistra): “l’originale” a cui ci si è ispirati per il Dr. Percy (a destra) interpretato da Jason Isaacs.

Come in Twin Peaks: Il Ritorno di David Lynch e Mark Frost (2017), The OA esprime più di un’affinità verso il concetto di eterno ritorno, attingendo dal pensiero di Friedrich Nietzsche, Arthur Schopenhauer, ma anche da quello buddista e induista. Ne La gaia scienza (1882), Nietzsche scrive:

“Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere” (Nietzsche, 1991).

Il ragionamento riecheggia nella spiegazione che Hap dà al personaggio interpretato dalla stessa Brit Marling (che inizia a riconoscere dentro sé tutte le personalità che si è trovata a vivere: Prairie, Nina Azarova, The OA): le loro vite sono collegate e, per quanto lei possa odiarlo, non esiste un piano di realtà che non li veda in qualche modo collegati in un entanglement quantistico spirituale. Non ci sorprende quindi che The OA: Part II si concluda con un nuovo inizio. Ciò che scompagina gli equilibri è che lo fa riferendosi alla propria esistenza come opera di finzione. Questa svolta meta-narrativa porta i personaggi della serie di fronte alla loro natura di racconti finzionali e sembra imporre una svolta al percorso circolare.

Se una dimensione produce un’altra dimensione e poi un’altra ancora, in un modo che richiama i motivi floreali ripetuti nel rosone, ciò può significare che il multiverso di The OA continuerà ad espandersi. La quarta parete inizia a vacillare fino a coinvolgere la nostra sfera di realtà. Se anche dovesse finire in questo modo, l’espediente meta-narrativo ci porta a un finale soddisfacente: Karim, uno dei nuovi protagonisti che popolano la “nuova dimensione” introdotta in questa stagione, riesce a raggiungere il rosone, superando gli enigmi di una villa che tanto ci ricorda la casa protagonista del videogame Resident Evil, e raggiungere il punto di vista (“la visione della Terra dalla Luna”) su tutti i multiversi: un set cinematografico, dove ogni attore può interpretare, a seconda del progetto in cui è coinvolto, una vita nuova.

Da questo punto di vista possiamo comprendere come alcuni personaggi non accettino il loro destino e vogliano oltrepassare la parete che li confina nella sfera dell’immaginario per raggiungere “la realtà”. Ma che cos’è la realtà stessa se non una delle tante sfaccettature dell’immaginario che preme per essere realizzata? La danza rituale e liberatoria dei personaggi di The O.A. sembra voler mettere in pratica quanto teorizzato durante i seminari del Collège de Sociologie sul finire degli anni Trenta a Parigi:

“L’immaginario sociale […] non solo secondo questa teoria è «reale», ma domanda di essere realizzato, con più energia di quanto proviene dalla scienza, dalla politica e anche dall’arte. E la «realizzazione» avviene soprattutto attraverso produzioni culturali che simulano con le tecnologie l’apparenza delle cose, incorporando nella loro struttura mitologie e disposizioni emozionali collettive: il cinema, la fotografia, i media dell’immagine, che determinano un rapporto con il tempo fondato su costellazioni di «ricordi» e su «figure» dotate di un’aura, su un potere allegorico, alimentato da una «fantasmagoria», che promana delle cose e degli ambienti”. (Ragone, 2015).

Questa volontà di contaminazione tra arte e vita è esplicitato nel film La rosa purpurea del Cairo (1985) di Woody Allen, che illustra il culmine del consumo di massa del medium cinema negli anni Trenta, con l’introduzione del sonoro e quindi la realizzazione di massima prossimità tra individuo e realtà schermica:

“La storia di Allen narra di un personaggio che a un certo punto del suo film, della sua narrazione, ne esce fuori per entrare nella vita reale così da potersi legare ad una spettatrice di cui, vista in sala, si è innamorato al punto di diventare da simulacro un corpo in carne e ossa. […] Eloquente la battuta che viene pronunciata nel film «la gente vera vuol vivere nella fantasia e quella inventata vuol vivere nella realtà»” (Abruzzese, Borelli, 2000).

La direzione meta-filmica del finale della seconda stagione sembra spingersi verso un futuro narrativamente interattivo, à la Bandersnatch (da Black Mirror e siamo sempre su Netflix) per intenderci. Uno dei tanti finali, uno dei più complessi da raggiungere, dell’episodio interattivo della serie britannica a firma di Charlie Brooker, ci porta proprio su un set, proprio come in The OA. L’interazione sembra essere incarnata nel DNA della serie: non si può cambiare la realtà senza uno sforzo comunitario che nasconde e disvela il meccanismo della scrittura audiovisiva. In un passaggio della seconda serie si fa riferimento al fatto che “una storia, se è potente, influenza altre storie”: non si può non pensare alla selezione algoritmica che Netflix effettua suggerendo nuove storie ai propri spettatori. Le piattaforme di streaming hanno a disposizione, per la prima volta, una mole enorme di dati relativi ai propri utenti: attraggono il proprio pubblico nel gioco e a esso stesso richiedono come proseguire la narrazione, in un intreccio intertestuale che mette insieme tutte le serie in un unico meta-verso narrativo.

The OA si muove in un panorama televisivo che abbraccia sempre più la diversità: i gruppi che si formano attorno alla protagonista ricordano i “losers” del romanzo It di Stephen King o l’idea di ka-tet presente nella saga de La torre nera, un gruppo di persone apparentemente senza nulla in comune che il destino fa incontrare per perseguire uno scopo preciso (cfr. Mazzoni, 2017). Il riferimento può estendersi chiaramente a Lost (2006), portabandiera della golden age della serialità televisiva e del grande ritorno del genere mistery. La struttura ciclica del racconto ci ricorda anche Cloud Atlas di David Mitchell, adattato cinematograficamente dalle sorelle Wachowski. Mitchell, che ha collaborato anche alla stesura della sceneggiatura di Sense 8 (sempre a firma Wachowski), racconta una storia spiritualmente affine.

Sfruttando tutti gli strumenti a disposizione della narrazione, con un uso sapiente delle immagini e dei dialoghi, Batmanglij e Marling riescono a mantenere in equilibrio spettacolo, stupore e racconto. Senza mai abbandonare lo spettatore a sé stesso, sia chiaro, non è per forza un male: Lynch lo fa spesso e il naufragar è dolce in questo mare, rendendo interessanti anche le situazioni più surreali, come il dialogo, mediato da Nina, tra il polpo gigante “grande notte” (giusto per non farsi mancare un rimando a fantasie lovecraftiane) e il pubblico del night club “Syzygy” (termine che indica l’unione, usato in astronomia per sottolineare l’allineamento dei pianeti).

Dietro l’enorme sforzo narrativo e visuale, Marling & Batmanglij potrebbero aver nascosto in bella vista la descrizione del percorso creativo che si compie per scrivere una serie “post-seriale”, che

“dopo decenni di subalternità culturale agli altri linguaggi audiovisivi, […] ha conquistato l’attenzione di spettatori, professionisti e studiosi della comunicazione proponendo universi immaginari estremamente innovativi nei contenuti e nelle forme. Operando in profondità sul tempo del consumo e sulla stessa struttura dei processi di affabulazione, le nuove tv-series […] superano il cinema nella capacità di aderire ai profili identitari del pubblico, restituendone aspettative e inquietudini” (Brancato, 2011).

Proviamo ad azzardare un’interpretazione metaforica: la prima stagione in questo senso rappresenta il passato, il punto di rottura, l’inizio del cambiamento. Il dottor Hap è l’analista, colui che contingentando gli spettatori cerca di scrutare le loro abitudini per decodificarne i comportamenti. Ma P.A. è il primo angelo, il primo spettatore che ha compreso che per accedere ad una narrazione diversa bisogna accettare un’altra modalità di fruizione.

P.A., Personaggio e Attrice, migrano in un’altra storia, simile ma diversa, che appartiene ad una nuova generazione. Si fa strada, quindi, la necessità da parte del vecchio gruppo di connettersi a questo nuovo stato di realtà: è proprio un vecchio televisore, durante una trasmissione broadcasting, a fare da medium.
In questa seduta spiritica, Betty scopre e si rivela come medium; la più anziana percepisce la necessità di guidare la nuova generazione verso nuovi tipi di narrazione che sfuggano definitivamente al genere, (poliziesco, drama, comico, horror, teen) per diventare un flusso di in-coscienza collettiva. In quest’opera di ricerca, il nuovo pubblico viene attratto nella casa (la home page di Netflix?), una casa che altera le coscienze creando dipendenza: quante volte abbiamo sentito queste accuse rivolte al nuovo medium di turno? Karim osserva quella che appare l’inizio di una nuova narrazione, un’ascesa, che poi si rivela ancora una volta fasulla, illusoria.

Interpretata da attori, consapevoli di esserlo, ripresi da una troupe a loro volta ripresi da un’altra troupe. Intoccabile e forse ormai non più risanabile la frattura tra i due mondi, gli autori ci hanno svelato il segreto della creatività necessaria a questa nuova forma di produzione audiovisiva: un botta e risposta coinvolgente, continuo e stancante, che ha bisogno, per esistere, di trasmigrare perennemente verso altre narrazioni, suggerendo al nuovo spettatore di non dimenticare che tutto è storytelling.

Letture
  • Alberto Abruzzese, Davide Borrelli, L’industria culturale: tracce e immagini di un privilegio. Carocci, Milano, 2000.
  • Jorge Luis Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano, in Finzioni, Adelphi, Milano, 2015.
  • Sergio Brancato, Le narrazioni post-seriali: il mondo nuovo della fiction-tv, in Post-serialità, Liguori, Napoli, 2011.
  • Andrea Franzoni, The OA. L’angelo necessario, Settimana News, 30 dicembre 2016.
  • Sara Mazzoni, The OA, Osservatorio Tv, 2017.
  • Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, Edizioni Studio Tesi, Roma, 1991.
  • Giovanni Ragone, Radici delle sociologie dell’immaginario, Mediascapes journal (4), 2015.