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VISIONI / CLOUD ATLAS


di Lana Wachowski, Andy Wachowski, Tom Tykwer / Eagle Pictures, 2013


 

La via di redenzione è sull'atlante

di Roberto Paura

Tra le pagine dell’Atlante delle nuvole di David Mitchell e tra le scene del Cloud Atlas cinematografico si nasconde molto più di una semplice storia, o di un insieme di storie apparentemente diverse ma strettamente intrecciate tra loro. La potenza straordinaria dell’affresco narrativo di quest’opera, così strana ed enigmatica nella sua composizione come nella sua ermeneutica, sta nell’ergersi addirittura come nuova metanarrazione del mondo in cui viviamo. Cloud Atlas è più di un semplice libro, più di un semplice film. Va a coprire un autentico vuoto esistenziale che si è radicato nella società contemporanea dopo la fine di tutte le grandi narrazioni del passato, soprattutto di quelle religiose così incapaci di tenere il passo con un mondo continuamente impegnato a ridefinire i propri valori. Un vuoto che è emerso prepotente da uno strappo nella continuità storica di cui Cloud Atlas rappresenta la costante, incessante, implacabile riproposizione: l’universo concentrazionario della metà del XX secolo gravitante intorno al buco nero di Auschwitz.

Ci hanno ragionato un po’ tutti, su questa pietra d’inciampo dell’umanità. L’opera-chiave, quella del filosofo Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz (2005), è stata la prima a tentare un ragionamento assolutorio nei confronti dell’Onnipotente, che proprio attraverso la decostruzione operata da Jonas perdeva i connotati dell’onnipotenza riducendosi a un Dio infinitamente buono, certo, ma tragicamente limitato nella sua capacità d’intervento nel Creato. La grande narrazione del monoteismo, di qualsiasi provenienza, ma principalmente cristiana, che Jonas aveva cercato di salvare, ne usciva inevitabilmente con le ossa rotte. L’idea di un Dio non onnipotente privava la religione della sua componente consolatoria, in cui tutto ciò che avviene nel mondo “al di qua” risponde a una logica, a un volere imperscrutabile volto a far trionfare sempre il bene. La tesi esposta da Hans Jonas, quella per cui “il male c’è solo in quanto Dio non è onnipotente”, poiché solo “a questa condizione possiamo affermare che Dio è comprensibile e buono e nonostante ciò nel mondo c’è il male”, ha creato più problemi di quanti si prefiggeva di risolvere. Ed è in questo vuoto di senso che sono proliferate, nei decenni, dottrine tra le più varie, legate al tentativo di offrire una nuova metanarrazione consolatoria in un mondo in cui Dio, se non è morto, è comunque inaccettabilmente menomato.

Cloud Atlas riprende parecchie di queste “dottrine”, le fonde insieme e le lega esplicitamente al dramma dell’Olocausto. Quando il signor Cavendish urla ai vecchi rinchiusi nella prigione dorata della casa di riposto che “Soylent Green è fatto con le persone”, la scena risulta comica, come l’intera vicenda di Cavendish, ma il messaggio è spaventoso. Il riferimento, che ogni cultore della fantascienza subito coglie, è all’omonimo film di Richard Fleischer del 1973 (barbaramente tradotto in Italia come 2022: i sopravvissuti), a sua volta ispirato al romanzo-cult della fantascienza sociologica Largo! Largo! di Harry Harrison (2007). Il Soylent Green è l’alimento che serve per sfamare un mondo trasformatosi in una bomba demografica fuori controllo, che il protagonista scoprirà alla fine della storia essere fatto con i cadaveri delle persone sottoposte a eutanasia. È la stessa scena che i fratelli Wachowski, registi di Cloud Atlas insieme a Tom Tykwer, mettono di fronte allo spettatore in tutta la sua raccapricciante potenza: i corpi macellati dei cloni (gli “artifici”) dopo la fine della loro vita operativa vengono riciclati per produrre il sapone, principale fonte di nutrimento dei cloni stessi. Gli orrori di Auschwitz riprendono vita finendo per essere persino superati: la presunta saponificazione dei cadaveri ebrei, se non addirittura la loro riduzione a carne in scatola con cui sfamare i deportati, probabilmente non avvenne davvero, ma l’agghiacciante sospetto si è impresso indelebile nella coscienza collettiva con la quale tutti siamo tenuti a fare i conti.

Nonostante il tono differente con cui le sei diverse storie di Cloud Atlas vengono raccontate, su tutte si staglia l’ombra lunga dell’Olocausto. Il signor Cavendish si paragona ad Aleksandr Solženycin, suggerendo che la casa di riposo in cui il fratello lo ha rinchiuso non sia molto diversa dall’arcipelago gulag. Unica storia ambienta ai giorni nostri, quella di Cavendish permette di trarre un’amara morale riguardo il ruolo che i vecchi ricoprono oggi, e ancora più in futuro, in una società che non ha più spazio né tempo per loro. I vecchi diventano i nuovi ebrei deportati in campi di concentramento diretti da dottori e infermiere, tra cui la terribile infermiera Noakes, un’autentica kapò. Da qui all’idea di un’eutanasia per i vecchi, come preconizzava nel 1950 il romanzo di Isaac Asimov Paria dei cieli (1995), il passo è breve. Ed è infatti realizzato nell’episodio successivo, quello ambientato nel prossimo futuro, dove l’eutanasia non si applica agli anziani (o forse anche a loro, non lo sappiamo) ma agli artifici, i cloni come Somni-451 che, dopo dieci anni di lavoro dentro una caffetteria sottoterra, costretta a turni massacranti e galvanizzata solo dal sapone che ingurgita, dalle luci abbaglianti e dalla musica assordante del locale, deve morire per essere riciclata.

Come avviene già in un film inquietante come Moon (2010), dove il protagonista scopre che, al termine dei tre anni di contratto in solitudine nella base lunare di estrazione dell’elio-3, il suo destino è essere ucciso e sostituito con uno dei centinaia di suoi cloni già pronti sottoterra (vedi "Quaderni d'Altri Tempi" n. 28), Somni-451 – l’autentica eroina di Cloud Atlas – scopre grazie ai ribelli di Neo-Seoul che dopo i dieci anni di lavoro non l’aspetta la liberazione e una lunga vacanza nelle Hawaii, ma solo la morte e la trasformazione del suo corpo in sapone. È l’estrema frontiera della precarietà contemporanea, dove i lavoratori sono riciclati e immediatamente sostituiti da altra forza lavoro a tempo determinato. Il MacDonald o l’ufficio di call center dell’italiano Tutta la vita davanti, in cui il triste lavoro della protagonista viene abbellito da un’istrionica coach che s’inventa inni aziendali, balli di gruppo e sms spinterogeni al mattino, sono gli antenati del mondo di Somni-451. Cloud Atlas non fa altro che tirare dunque le fila di una storia eterna di oppressioni e prevaricazioni che scandiscono il ritmo dell’esistenza umana, dai neri impiegati nelle piantagioni delle colonie, contro il cui sistema si batte Adam Ewing nel primo episodio, all’amore omosessuale del musicista Robert Frobisher, agli affaristi del petrolio oggetto dell’indagine di Luisa Rey, per giungere poi al mondo post-olocausto al termine della lunga parabola discendente.

Insieme a questi temi, non mancano quelli delle prevaricazioni personali compiute da quei perbenisti che invece rappresentano il vero cancro dell’umanità. Il dottor Goose che cerca di avvelenare Adam Ewing nel suo viaggio di ritorno a San Francisco, per ottenere il denaro che custodisce nel forziere che porta con sé; il compositore Vyvyan Ayris che sfrutta il talento di Frobisher per appropriarsi del suo concerto Atlante delle nuvole; il dirigente corrotto della centrale nucleare che sta per saltare in aria grazie alla complicità delle multinazionali petrolifere per bloccare l’ascesa dell’energia atomica; il fratello del signor Cavendish che lo rinchiude nel buen retiro di una casa di riposo-lager. Tutti rappresentanti di un establishment che alla fine assume i contorni molochiani della “coprocrazia” (mai termine più appropriato, quello inventato dall’autore David Mitchell) di Neo-Seoul, dove l’intera società è solo un’apparenza, uno spettacolare set cinematografico che nasconde orrori indicibili.

Mentre il romanzo suggerisce a più riprese, ma solo sommessamente, con tracce lasciate qua e là, una visione esistenzialista che strizza l’occhio alla teoria della reincarnazione, il film non esplora quest’elemento, pur recuperandone la simbologia incarnata dalla voglia a forma di cometa sulla spalla dei diversi protagonisti delle varie storie. Così come le comete, dopo orbite anche lunghissime, tornano sempre al punto di partenza, le vite che compongono L’atlante delle nuvole ritornano sempre, generazione dopo generazione, incarnate in altri corpi, destinati a scontare i propri karma. La forza di questo riferimento sta nell’esplicito rigetto di qualsiasi filosofia new age – l’autore lo fa dire a uno dei suoi personaggi, Cavendish – stonata e inconsistente rispetto alla grande narrazione che Cloud Atlas ci propone. La reincarnazione non ha nessun’importanza, quello che importa è un altro concetto, che prende forma nel discorso messianico finale di Somni-451: “La nostra vita non ci appartiene. Da grembo a tomba [nell’originale, from womb to tomb] siamo legati ad altri, passati e presenti, e da ogni crimine e ogni gentilezza generiamo il nostro futuro”.

Qui sta il senso di un’opera così impegnativa come Cloud Atlas. L’intrecciarsi delle storie – che nel romanzo seguono una struttura a matrioska, nel film una giustapposizione a mosaico – sottolinea che ogni azione, buona o malvagia che sia, ha un suo seguito nel futuro, contribuisce a forgiare la storia umana. Questa è l’unica teoria della salvezza che possiamo accettare nell’epoca del post-olocausto, l’unica ermeneutica consolatoria possibile per accettare un mondo dove Dio non ha più posto, sostituito da Somni-451, nuova “messia” destinata a portare al mondo la buona novella. Non troveremo un paradiso o un inferno ad attenderci, e non sarà un Dio manifestamente non onnipotente (o, ancor peggio, non infinitamente buono) a evitare le cattiverie del mondo. Questo compito spetterà a noi, con l’unica consolazione che le nostre buone azioni avranno un impatto su altre vite, presenti e future: una goccia, certo; ma, come leggiamo nell’ultima riga del romanzo, “cos’è l’oceano se non una moltitudine di gocce?”.

Nonostante l’happy ending assente nel romanzo, il film si rivela a tratti anche più pessimistico. Mentre infatti Mitchell non offre soluzioni immediate al mondo post-olocausto finale che chiude la vicenda, in cui l’umanità torna a uno stato tribale minacciata da cannibali e barbari di ogni sorta, i fratelli Wachowski guardano al cielo. Meronym, la donna che proviene dall’unica isola dove la civiltà degli Antichi è sopravvissuta, si fa aiutare dal vecchio Zachry a raggiungere la sommità del Mauna Kena, dove si trova un antico impianto di comunicazione con le colonie extramondo. Lì scoprono centinaia di cadaveri di persone morte nella speranza di una salvezza dal cielo mai arrivata. Ma Meronym riesce a riattivare il radiotelescopio per mandare un messaggio verso le stelle, diretto alle colonie umane sparse nel sistema solare, e forse oltre. L’ultima scena si svolge su un pianeta lontano (ma in realtà forse è semplicemente Marte, visto che il vecchio Zachry indica ai bambini la Terra, una minuscola luce blu nel buio della notte stellata), dove l’umanità ha iniziato la ricostruzione, salvata dal deus ex machina sceso letteralmente dal cielo. Non si tratta solo di un pizzico di fantascienza che, d’altro canto, dona anche più solidità a quest’episodio che nel romanzo è piuttosto debole. È quasi un’altra, ancora più futuristica, promessa di palingenesi salvifica.

C’è una celebre scuola di pensiero, sul problema del “silenzio dell’universo” (Davies, 2011), il problema cioè del mancato contatto con civiltà extraterrestri, che sostiene l’esistenza di una legge ferrea delle civiltà tecnologiche, per cui ciascuna razza intelligente, arrivata a un certo grado di sviluppo, finisce in poco tempo per autodistruggersi. Se così fosse, probabilmente l’umanità non ha molto ancora davanti da sé. Un’altra scuola di pensiero sostiene invece che una o più civiltà extraterrestri siano riuscite a superare questo “momentaccio” fino a creare una sorta di ONU galattica che monitora i pianeti in via di sviluppo e interviene prima che sia troppo tardi. Un topos che ritorna spesso in molta letteratura e cinema di fantascienza, soprattutto nel periodo della “guerra fredda” (basti pensare a Ultimatum alla Terra), in cui non pochi credevano che l’ondata di avvistamenti di dischi volanti fosse legata ai test atomici e all’intenzione degli extraterrestri di fermarci prima dell’olocausto nucleare. Non pochi autori, tra cui soprattutto Asimov in molti suoi testi divulgativi, affermano che la scoperta di civiltà extraterrestri sarebbe l’unica via di salvezza per l’umanità, sia per la nuova rivoluzione copernicana che tale scoperta comporterebbe, sia perché un eventuale contatto ci permetterebbe di accedere a conoscenze da utilizzare per uscire dall’impasse in cui si trova l’umanità. Che il tema ritorni oggi in un film come Cloud Atlas significa che questa sorta di esoteologia è ancora viva e promette, a chi crede che il nostro mondo sia segnato, che lassù c’è ancora qualcuno che ci ama, ma non è Dio.

 


 

LETTURE

  Asimov Isaac, Paria dei cieli, Mondadori, Milano, 1995.
Davies Paul, Uno strano silenzio, Codice Edizioni, Torino, 2011.
Harrison Harry, Largo! Largo!, Mondadori, Milano, 2007.
Jonas Hans, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Il Nuovo Melangolo, Genova, 2005.
Mitchell David, Cloud Atlas - L’atlante delle nuvole, Frassinelli, Milano, 2012.

 


 

VISIONI

  Fleischer Richard, Soylent Green (2022: i sopravvissuti), Warner Bros Home Video, 2003.
Jones Duncan, Moon, Sony Pictures Home Entertainment, 2010.
Wise Robert, Ultimatum alla Terra, 20th Century Fox Home Entertainment, 2006.