I Centipede di Keith Tippett,
o dell’utopia in musica

Centipede
Septober Energy
Esoteric Recordings, 2022

FORMAZIONE
Direzione e pianoforte:
Keith Tippett

Ottoni:
Peter Parkes, Mick Collins (tromba),

Ian Carr (tromba, flicorno soprano),
Mongezi Feza (tromba tascabile),
Mark Charig (cornetta),
Nick Evans, Dave Amis,
Dave Perrottet, Paul Rutherford (trombone)
Ance:
Elton Dean (contralto, saxello),

Jan Steele (contralto, flauto),
Ian McDonald (contralto),
Dudu Pukwana (contralto),
Larry Stabbins, Gary Windo
Brian Smith, Alan Skidmore (tenore)
Dave White (baritono, clarinetto)
Karl Jenkins (baritono, oboe)
John Williams (sassofono basso e soprano)
Chitarra:
Brian Godding
Violino:
Wendy Treacher, Jihn Trussler,

Roddy Skeping, Wilf Gibson,
Carol Slater, Louise Jopling,
Garth Morton, Channa Salononson,
Steve Rowlandson, Mica Gomberti,
Colin Kitching, Philip Saudek,
Esther Burgi
Violoncello:
Michael Hurwitz, Timothy Kramer,

Suki Towb, John Rees-Jones,
Katherine Thulborn, Catherine Finnis
Basso:
Roy Babbington, Jill Lyons,

Harry Miller, Jeff Clyne,
Dave Markee, Brian Belshaw
Batteria:
John Marshall (anche percussioni)

Tony Fennell, Robert Wyatt
Voce:
Maggie Nicols, Julie Tippetts,

Mike Patto, Zoot Money, Boz Burrell

Centipede
Septober Energy
Esoteric Recordings, 2022

FORMAZIONE
Direzione e pianoforte:
Keith Tippett

Ottoni:
Peter Parkes, Mick Collins (tromba),

Ian Carr (tromba, flicorno soprano),
Mongezi Feza (tromba tascabile),
Mark Charig (cornetta),
Nick Evans, Dave Amis,
Dave Perrottet, Paul Rutherford (trombone)
Ance:
Elton Dean (contralto, saxello),

Jan Steele (contralto, flauto),
Ian McDonald (contralto),
Dudu Pukwana (contralto),
Larry Stabbins, Gary Windo
Brian Smith, Alan Skidmore (tenore)
Dave White (baritono, clarinetto)
Karl Jenkins (baritono, oboe)
John Williams (sassofono basso e soprano)
Chitarra:
Brian Godding
Violino:
Wendy Treacher, Jihn Trussler,

Roddy Skeping, Wilf Gibson,
Carol Slater, Louise Jopling,
Garth Morton, Channa Salononson,
Steve Rowlandson, Mica Gomberti,
Colin Kitching, Philip Saudek,
Esther Burgi
Violoncello:
Michael Hurwitz, Timothy Kramer,

Suki Towb, John Rees-Jones,
Katherine Thulborn, Catherine Finnis
Basso:
Roy Babbington, Jill Lyons,

Harry Miller, Jeff Clyne,
Dave Markee, Brian Belshaw
Batteria:
John Marshall (anche percussioni)

Tony Fennell, Robert Wyatt
Voce:
Maggie Nicols, Julie Tippetts,

Mike Patto, Zoot Money, Boz Burrell


“… un intreccio di circostanze plasmò a Londra un’intera generazione di musicisti; l’amore per i maestri americani, la passione per i toni insurrezionali del free, la fedeltà tutta inglese, indistruttibile, alla tradizione, al folk, il piacere di suonare blues, il divertimento adolescenziale del putiferio beat, la provocazione intellettuale suggerita dal gruppo Fluxus, le caleidoscopiche avventure nello spazio psichedelico e l’incontro ravvicinato con i fratelli sudafricani”
(Bonomi, Fucile, 2005).

Il senso profondo dell’utopia Centipede, il mastodontico progetto musicale messo in piedi dal pianista inglese Keith Tippett, è probabilmente racchiuso in queste righe, una sorta di sintesi delle diverse anime e correnti musicali e culturali che attraversarono con inusuale energia la città di Londra nella seconda metà degli anni Sessanta. Un flusso che Tippett riuscì in qualche modo a convogliare in quel bellissimo Septober Energy, doppio album ora rimasterzzato dai nastri originali e ristampato dalla Esoteric, pubblicato nell’ottobre del 1971 dalla RCA, quasi a chiudere metaforicamente i fermenti del decennio precedente. Chiudere perché, purtroppo, l’operazione Septober Energy non solo non ebbe seguito ma soprattutto non produsse quei significativi effetti che forse un po’ tutti i protagonisti si aspettavano. Quella fusione di stili, culture e pratiche musicali così in apparenza diverse fu praticamente bypassata proprio dal suo opposto: una proliferazione di generi musicali che favorì velocemente la creazione di compartimenti stagni in luogo della condivisione. E per questo che Septober Energy può benissimo dirsi un progetto utopistico, nonostante la sua realizzazione, perché i suoi assunti non vennero recepiti, non diedero i frutti auspicati. Soltanto elencare i gruppi più o meno coinvolti in Centipede dà il senso della visionarietà ma anche delle profonde intuizioni che erano alla base di questo progetto: King Crimson, Soft Machine, Blossom Toes, Patto, Keith Tippett Group, Nucleus, The Blue Notes, più musicisti di estrazione classica della London School of Music e vari battitori liberi provenienti dalla scena free impro inglese.
In pratica una sorta di Woodstock in studio che pone su di un terreno comune, collettivo, tutte le istanze musicali e culturali scaturite nel decennio precedente. E dove la pratica improvvisativa assume un ruolo centrale, da collante delle diverse esperienze; proprio quello che invece risulterà praticamente assente negli anni successivi.
Ma facciamo un passo indietro, cercando di inquadrare storicamente ciò che avviene a Londra e in generale in Gran Bretagna, e che risulterà determinante per il rock e il pop a livello mondiale.

Un quadro storico
Il miracolo economico degli anni Cinquanta, soprattutto negli Stati Uniti, e poi anche in Gran Bretagna e nel resto d’Europa, produsse per la prima volta nella storia dell’Occidente una massa di adolescenti in grado di consumare oggetti e musiche per il loro tempo libero e quindi di affermarsi come area omogenea, ben distinta dai bisogni e dalle esigenze degli adulti. Questo trasformò l’industria musicale, che si ritrovò a disposizione un mercato diverso dal passato ma ricco di esigenze e affamato di novità, di fatto scalzando il jazz come musica di riferimento giovanile.

“…la musica rock divenne il mezzo multiuso per esprimere desideri, istinti, sentimenti e aspirazioni dell’età che andava dalla pubertà al momento in cui gli adulti si sistemano in qualche nicchia sociale convenzionale, nella famiglia o nella carriera; divenne insomma la voce e l’idioma di una gioventù e di una cultura giovanile consapevoli nelle moderne società industriali”
(Hobsbawm, 2007).

Le vendite dei dischi negli Stati Uniti, dal 1955 (anno di nascita del rock‘n’roll) al 1959, crebbero con percentuali altissime rispetto al passato e mostrarono le potenzialità che la nuova musica giovane aveva per l’industria discografica. Industria che tuttavia, agli inizi degli anni Sessanta, si trovò in difficoltà nel tentare di proporre cloni di Elvis Presley o personaggi non così dirompenti nell’immaginario giovanile come lo furono i primi cantanti rock‘n’roll. La registrazione del primo 45 giri nel 1962 da parte dei Beatles diede l’avvio ad una nuova grande rivoluzione nell’ambito della musica pop a livello internazionale. Per uno strano destino, il testimone della ri-nascita del rock passò dagli Stati Uniti al vecchio impero britannico ormai in decadenza, ma capace di riportarsi al centro della scena mondiale con la sua produzione artistica. L’esplosione dei Beatles e, in generale della musica rock inglese, è preceduta da una forte attività artistica che segue i binari dell’imitazione e, allo stesso tempo, dell’autonomia. L’esempio dei folk singer americani porta alla presa di coscienza del patrimonio popolare inglese, sia in una dimensione più propriamente folk che sotto l’aspetto politico e militante. Il grande successo, nell’immediato dopoguerra, del blues e della jazz tradizionale muta rapidamente forme e contenuti:

“Dopo qualche anno, il dixieland-revival diminuisce d’importanza e lascia il posto allo skiffle, una sorta di versione proletaria del rhythm and blues che si poteva suonare anche senza conoscere la musica e con strumenti d’occasione (sul modello delle jug bands nere). È sul finire degli anni Cinquanta che si ha un massiccio revival del blues, accolto nella sua versione più recente e tipicamente urbana, cioè il cosiddetto blues di Chicago. I numerosissimi gruppi di blues che nascono non si preoccupano molto della filologia e usano disinvoltamente schemi rock e rhythm ‘n’ blues. È qui che nascono i Beatles e i Rolling Stones, ma è anche qui che nasce il fenomeno dell’English blues”
(Carrera, 2014).

I Bluesbrakers di John Mayall e la formazione di Alexis Korner, Blues Incorporated assumono un ruolo di vere e proprie fucine musicali dove muovono i primi passi Mick Jagger, Brian Jones, Keith Richards, Charlie Watts (i Rolling Stones!), ma anche importanti esponenti del jazz inglese quali John Surman, Alan Skidmore, Lol Coxhill.  Beat da una parte e rock blues dall’altra formano inizialmente quel grande fiume musicale che dà vita alla British Invasion dell’America e del mondo occidentale, che fa da colonna sonora ai sogni e alle aspirazioni dell’universo giovanile europeo e americano, che spinge migliaia di giovani ad affrontare la carriera musicale, seguiti in questo da manager, etichette discografiche, impresari. Il grosso impatto che ebbe la musica rock è solo un tassello della più ampia rivoluzione culturale che avvenne, a livello mondiale, nel corso degli anni Sessanta. L’insofferenza dei giovani verso regole, comportamenti, leggi e istituzioni fu dirompente e dal mondo anglosassone s’innescò l’esplosione. L’universo giovanile esplorò e rivoluzionò tutti i linguaggi artistici, trovando in alcune città, prima fra tutte Londra, la swinging London, la propria residenza eletta, il luogo dove poter sperimentare la rivoluzione psichedelica, dove produrre quegli elementi di una società diversa, più libera, più giusta, più creativa.
Il 1968, con la sua carica di gioia e di rivoluzione, spazzò vecchie consuetudini, antichi retaggi culturali, politiche reazionarie e impose al mondo intero l’idea che una rivoluzione, in alcuni casi solo culturale, in altri politica e sociale, fosse possibile. E il soggetto trainante fu quell’universo giovanile che diventò talmente importante da modificare profondamente e per lungo tempo gli assetti sociali, politici e culturali delle società occidentali e non solo.
Un tale sommovimento non poteva non toccare, in modo significativo ovviamente, tutte le espressioni artistiche e quindi anche la musica jazz. L’esplosione del free negli Stati Uniti consentì ai musicisti europei un approccio più originale al jazz e all’improvvisazione, ponendo un serio argine ai fenomeni di emulazione che tanto avevano connotato le prime esperienze jazz nel vecchio continente. È in Inghilterra, e soprattutto a Londra, che cominciano ad intrecciarsi diverse esperienze tra loro e che verranno a maturazione agli inizi degli anni Settanta.
La musica improvvisata dei vari Derek Bailey, Evan Parker, Trevor Watts, Paul Rutherford, il jazz degli esuli sudafricani Chris McGregor, Dudu Pukwana, Johnny Dyani, Louis Moholo, Mongezi Feza, il rumorismo e l’avanguardia degli AMM di Cornelius Cardew, Eddie Prevost e Keith Rowe, il Ronnie Scott Club con i vari Mike Westbrook, John Surman, Dave Holland e John McLaughlin, la già citata fucina blues di Alexis Corner e, ovviamente, il rock psichedelico dei Soft Machine e dei Pink Floyd, un calderone creativo e unico che solo una città come la Londra degli anni Sessanta poteva ospitare.

“L’interesse per la pittura, la poesia, la narrativa, il teatro, il balletto e la scultura, rese più urgente liberare la creatività dai confini formali che separavano i generi musicali e le arti tra di loro; poter suonare insieme quando le distanze si ricoprono con poche fermate di metropolitana, agevolò molto lo scambio quotidiano”
(Bonomi, Fucile, 2005).

Ma la grande onda creativa, al volgere degli anni Settanta, comincia a ritrarsi, a istituzionalizzarsi, con la moltiplicazione di stili e la professionalizzazione del musicista rock, ora più attento alle vendite ed alle mode. Le tragiche morti di Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison rappresentano una sorta di canto del cigno, un preludio al ripiegamento nell’alveo sicuro della stabilizzazione e della normalizzazione.  La crisi economica, acuita dallo shock petrolifero del 1973, pone le basi per un costante e definitivo abbandono di un modello di sviluppo non più sostenibile da parte del capitalismo. La piena occupazione, il welfare esteso che proprio in Gran Bretagna avevano trovato uno sviluppo crescente, cominciano ad entrare in crisi e i sogni di rivoluzione si diradano lasciando il posto alla rabbia e alla disperazione di una disoccupazione sempre più estesa (nel 1977 esplode il fenomeno punk, sempre a Londra) e di un allentamento delle tutele sociali da parte dello stato. Dal punto di vista musicale, negli anni Settanta si consolida quel processo di frammentazione già emerso agli inizi del decennio:

“il rock perde quel suo imponente senso della marea montante, la sua creatività unidirezionale, per disperdersi in mille diversi campi. Se prima era un grande fiume, ora diventa un arcipelago”
(Castaldo, 1995).

È un fenomeno che toccherà anche il jazz, emarginato nei suoi sviluppi free e avanguardisti, ma di crescente popolarità nella sua fusione con il rock. In ogni caso il ruolo di Londra negli anni Sessanta e Settanta nell’evoluzione delle musiche popular e jazz e del loro intreccio costante con le dinamiche dell’universo giovanile è fondamentale, propulsivo.

Centipede: un ensemble di cinquanta musicisti
L’idea di formare un gruppo di tali dimensioni viene a Keith Tippett agli inizi del 1970, una sorta di omaggio e tributo a tutti i musicisti con i quali sin lì aveva collaborato oppure intratteneva rapporti di stima e amicizia. A parte la registrazione di Septober Energy, unico prodotto discografico del quale parleremo più avanti, Centipede sarà protagonista di pochi ma significativi eventi live. Il suo esordio avviene il 15 novembre 1970 al Lyceum Theatre per sostenere il Jazz Centre Society, con la partecipazione dei musicisti a titolo gratuito. Ma importanti sono anche i due concerti all’Alhambra Theatre di Bordeaux in Francia, sempre nel novembre 1970, così come, l’anno successivo, la settimana di residenza a Rotterdam, un concerto alla Royal Albert Hall, il Lanchester Festival nella contea inglese di Durham, l’Università di Bristol per la Student Union, il Nancy Jazz Festival, alcuni concerti in Germania e registrazioni per la tv francese. Ci fu anche l’idea e la concreta possibilità di suonare negli Stati Uniti ma, ovviamente, le difficoltà logistiche (e di denaro) impedirono la realizzazione di questo progetto. L’ultimo concerto fu al Rainbow Theatre nel dicembre 1971, dopo l’uscita del disco. Il gruppo quindi si sciolse salvo riformarsi brevemente nel 1975 con il violinista David Cross (nei King Crimson di Larks’ Tongues in Aspic e Starless and Bible Black) per una serie di concerti in Francia. Come già accennato, la serie di musicisti coinvolti è assai considerevole, con le differenti provenienze ed esperienze musicali unite intorno ad un progetto di ampio respiro, tra scrittura e improvvisazione.

Il versante psichedelico, quello maggiormente debitore verso i Beatles di Sgt. Pepper, è rappresentato dal bassista Brian Belshaw e dal brillante chitarrista Brian Godding, entrambi membri dei Blossom Toes (dei quali quest’anno è uscito lo splendido cofanetto We Are Ever So Clean con all’interno il primo album, un live a Stoccolma e vari demos e BBC Sessions) e, per quanto riguarda Godding, insieme a Tippett nell’album 1969 a nome Julie Driscoll, oltreché assiduo collaboratore di Mike Westbrook. Le venature blues unite ad atmosfere jazz rock, in quella miscela originale autenticamente progressive suonata dai Patto, sono di competenza del chitarrista Ollie Halsall e dell’energico vocalist Mike Patto, due musicisti che avrebbero certamente meritato maggiore fortuna. Ma la grande tradizione blues tipicamente inglese è ben rappresentata dalla voce di Zoot Money, cantante, organista e costante presenza nei migliori gruppi e progetti rock blues, da Peter Green agli Animals, al padre dell’English Blues Alexis Korner fino ai progetti solisti di Kevin Ayers. Il versante più propriamente prog è ovviamente rappresentato dal sassofonista Ian McDonald, nello storico e fondamentale primo Lp dei King Crimson In the Court of Crimson King, dal cantante Boz Burrell, nei KC di Islands, e nella produzione (a differenza che nei live dove invece parteciperà come chitarrista) di Robert Fripp, con il quale Tippett instaurerà una proficua collaborazione negli album In The Wake of Poseidon, Lizard e Islands.
Gran parte dell’ensemble è costituita da quell’area del jazz inglese spesso contaminata con il rock e toccata profondamente dalla vicinanza con i musicisti sudafricani emigrati a Londra negli anni Sessanta. Ian Carr alla tromba e flicorno, insieme a Karl Jenkins, sax baritono e oboe, Jeff Clyne al basso, John Marshall alla batteria e Brian Smith al sassofono sono i componenti di uno dei più famosi gruppi jazz rock, i Nucleus, oltreché membri e ospiti di tantissimi progetti musicali che vanno dai Soft Machine di Robert Wyatt, Hugh Hopper, i gruppi di Tippett e quelli di Elton Dean. Quest’ultimo ovviamente è presente in Centipede, così come il suo compagno nei Soft Machine Robert Wyatt, il contrabbassista Roy Babbington (nel quarto e quinto Lp dei Soft Machine ma anche nei Delivery insieme a Pip Pyle, Phil Miller e Lol Coxhill), il trombettista Marc Charig (Soft Machine, King Crimson, London Jazz Composers Orchestra di Barry Guy, Chris McGregor, Keith Tippett fra gli altri) e il trombonista Nick Evans.

La componente sudafricana è ben rappresentata dal fantastico cornettista Mongezi Feza, dal contrabbassista Harry Miller e dal sassofonista Dudu Pukwana, mentre assai stimolanti sono le presenze del trombonista Paul Rutheford e della cantante Maggie Nichols, tra i pionieri della scena free impro inglese, con Derek Bailey, Barry Guy, Spontaneous Music Ensemble fra gli altri. Vanno segnalati anche il sassofonista Larry Stabbins, stabile collaboratore di Tippett e spesso presente nell’area della libera improvvisazione, un outsider come il sassofonista Gary Windo (con Robert Wyatt e in generale nel giro di Canterbury, ma anche a fianco di Carla Bley), e un veterano del jazz inglese come il sassofonista Alan Skidmore (da Alexis Korner a John Mayall, Ronnie Scott, John Taylor e Kenny Wheeler). A questi va aggiunta la meravigliosa voce di Julie Tippetts, una brillante carriera tra soul, rock e jazz, a fianco nella musica, come nella vita, di Keith Tippett. A completare l’incredibile e fantastico organico di Centipede ci saranno numerosi studenti di area classica provenienti dalla London School of Music: violini e violoncelli principalmente, tra i quali il violinista Wilfred Gibson, presente in alcuni dischi dei King Crimson e successivamente nell’Electric Light Orchestra, e poi anche qualche elemento ai fiati e alla ritmica. Il tutto sotto la direzione creativa di uno fra i musicisti più importanti del jazz inglese, e non solo; quel Keith Tippett autore e pianista di rara sensibilità, tecnicamente brillante e aperto a innumerevoli influenze. Solo l’idea di radunare insieme così tanti elementi e di così varia e significativa provenienza lo pone tra i grandi musicisti che hanno segnato la storia della musica jazz e in parte anche rock, con la sua rilevante collaborazione insieme ai King Crimson di Robert Fripp. Al quale, va sottolineato, viene affidata la produzione di un lavoro veramente complesso ed importante, che ne segnala, qualora ce ne fosse ancora bisogno, la straordinaria creatività e sensibilità musicale.

Septober Energy: un visione collettiva utopica
Quattro movimenti, una facciata ciascuno; temi, improvvisazioni, momenti energici alternati a situazioni libere, un senso compositivo ampio, esteso, che fa tesoro di tutte le esperienze lì giunte per la costruzione di un territorio composito, attraversato in lungo e largo dall’elemento improvvisativo. Registrato nel giugno 1971 agli Wessex Studios, dove avevano già registrato i King Crimson, Septober Energy ha un respiro collettivo, proprio di una comunità di giovani musicisti probabilmente nel momento migliore delle loro carriere.

“Comprendendo influenze che vanno dal free jazz al progressive rock e alla musica contemporanea, la grandiosità della concezione suscita paragoni con altri lavori di ampi organici idiomaticamente trasversali; Marching Song di Mike Westbrook, 220 Motels di Frank Zappa e Escalator over the Hill di Carla Bley. La grande estensione timbrica e la partitura orchestrale enormemente ampliata hanno accolto e contornato l’estesa componente improvvisativa indispensabile per delineare e ritrarre l’umanità al limite dell’autodistruzione attraverso la guerra nucleare o l’ecocidio, auspicando con forza un’illuminazione spirituale in grado di salvarla”
(Wickes, 1999).

Un inizio misterioso, suggestivo che subito lascia spazio alla fantastica sezione fiati del Keith Tippett Group: Marc Charig alla cornetta, Elton Dean all’alto e Nick Evans al trombone. È la giusta presentazione di questo sottovalutato capolavoro, alla quale segue l’improvvisazione libera e selvaggia del tenore di Gary Windo e della cornetta di Mongezi Feza. Il primo quadro si evolve poi in un incisivo intreccio timbrico tra archi, fiati e voci, dando spazio e consistenza all’ampio organico, per poi concludersi in una situazione larga, intorno ad un centro tonale dove le voci improvvisano sostenute dal dialogo elegante dei contrabbassi di Jeff Clyne e Dave Markee.
Il secondo quadro è marcatamente jazz rock, con una linea tematica suonata da voci e ottoni incalzante, e un susseguirsi di assoli di alta fattura commentati e sostenuti dal brioso e percussivo pianismo di Tippett; Ian Carr al flicorno soprano, il tenore di Alan Skidmore, l’acida chitarra di Brian Godding. Un quartetto di tromboni interrompe l’atmosfera jazz rock per poi lanciarsi in un ostinato in puro stile sudafricano, con gli assoli di Marc Charig e l’affascinante oboe di Karl Jenkins. Il finale è frenetico, insistente, liberatorio. Il terzo quadro è quello maggiormente collettivo, fatto di linee tematiche intrecciate, ostinati, crescendi maestosi, interludi free degli archi in dialogo con le voci, che si conclude con una inquietante melodia.

L’ultimo quadro di Septober Energy, introdotto da un pianoforte delicato ed etereo, è costituito in gran parte da una versione estesa di Green and Orange Night Park, da Dedicated to You but You Weren’t Listening, straordinario album a nome Keith Tippett Group e pubblicato sempre nel 1971 dalla Vertigo e che vantava una memorabile copertina. Qui va sottolineato lo spettacolare e melodico assolo al saxello di Elton Dean che si conclude in un potente crescendo di tutta l’orchestra, con la linea melodica principale attraversata da improvvisazioni dei fiati e delle voci. “Unite for every nation, unite for all the land, unite for freedom of man”, è il giusto e trionfale incitamento che chiude un’opera complessa, innovativa, elaborata ma di grande comunicatività, coinvolgente ed emozionante.
Come detto, Septober Energy non ebbe purtroppo seguito, a parte una manciata di concerti. Difficoltà logistiche, poco apprezzamento da parte della critica, in avanti con i tempi o semplicemente degna chiusura di un periodo musicale, storico e culturale dove tutto sembrava possibile e l’utopia era a portata di mano. Questa ristampa era ed è del tutto dovuta. Potrebbe persino fungere da stimolo e ispirazione per questi nostri tempi dominati da individualismo e rassegnazione.

“Septober Energy è il prodotto di un’epoca diversa, un momento in cui le etichette erano pronte a sostenere progetti innovativi e sperimentali. È il prodotto di un’epoca in cui musicisti provenienti da ogni tipo di background e da diverse discipline musicali pensavano di poter cambiare il mondo intorno a loro grazie alle idee, alle esperienze e alla volontà di provare qualcosa di diverso. A 51 anni di distanza, il suo costante spirito di speranza, ottimismo e generosità suona altrettanto fresco, fervente ed eccitante di allora”
(Smith, 2022).

Letture
  • Claudio Bonomi, Gennaro Fucile, Elastic Jazz, Auditorium Edizioni, Milano, 2005.
  • Alessandro Carrera, Musica e pubblico giovanile, Odoya, Bologna, 2014.
  • Gino Castaldo, La terra promessa, Feltrinelli, Milano, 1995.
  • Eric J. Hobsbawm, Gente non comune, RCS, Milano, 2007.
  • Sid Smith, Septober Energy, Booklet, Esoteric Recordings, 2022.
  • John Wickes, Innovations in British Jazz: volume one 1960-1980, Soundworld Publishers, Chelmsford, 1999.