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L’anno è il 1962. Il 5 ottobre l’etichetta discografica Parlophone (Emi) pubblica il primo singolo di un quartetto proveniente da Liverpool. Si fanno chiamare Beatles e il brano del lato A si intitola Love Me Do. Sul retro ancora amore: P.S. I Love You. Sembra un disco tra i tanti di un complessino tra i molti in circolazione, ma in pochi mesi tutto cambiò e i quattro anonimi divennero i Fab Four. 
La solennità di un quasi-rito collettivo celebrato (Mellers, 1976) dagli stessi Fab Four irruppe nel panorama inglese il 12.1.1963 (all’indomani della pubblicazione del secondo singolo Please Please Me) dopo la partecipazione al programma Thank your lucky stars (Lewisohn, 1995). Fu l’apparizione nel programma dell’ATV Parnell’s Sunday Night At The London Palladium del 13 ottobre 1963 a segnare l’esordio di ciò che la stampa inglese avrebbe definito, da quel momento in poi, Beatlemania (Kogler, 1995), termine che, come scrive Salvatore Pettinato, indicava quel repertorio di reazioni semi insane, soprattutto del pubblico femminile, fatto di crisi di pianto, svenimenti, collassi nervosi, che accompagnavano concerti e apparizioni dei Fab Four (Pettinato, 1995). 
La mattina dopo lo spettacolo al Palladium ogni giornale inglese riportava in prima pagina una foto e un articolo sui “disordini” delle ammiratrici dei Beatles fuori dal teatro londinese. Il Daily Mirror scriveva: “La polizia si è battuta per contenere mille teen-ager urlanti mentre i Beatles uscivano dal Palladium dopo lo spettacolo televisivo”. Tanto il Daily Mail quanto il Daily Express pubblicavano delle foto dei quattro Beatles che facevano capolino dal teatro per la presunta paura di una folla che, questa volta, era valutata in cinquecento persone. Il Mirror continuava: “Una fila di macchine della polizia era pronta mentre i quattro idoli pop si lanciavano verso la loro macchina. Poi, simili a furie scatenate, le ammiratrici sfondavano un cordone di oltre sessanta poliziotti” (Norman, 1981).
Solo pochi giorni dopo l’esibizione al Palladium, giunse notizia che il gruppo, già alla fine d’agosto, aveva accettato un invito dell’impresario Bernard Delfont per esibirsi al cospetto della Regina Madre e della Principessa Margaret all’annuale Royal Command Performance (Lewisohn, 1992).
La famosa Royal Command Performance avvenne lunedì 4 novembre 1963 al Teatro Prince of Wales di Londra. Fuori dal teatro avvenivano le ormai consuete scene di Beatlemania: orde di ragazzine urlanti erano tenute sotto controllo da serrati cordoni di polizia. L’arrivo della famiglia reale passò in secondo piano, tutta l’attenzione era volta verso i Beatles. Il Paese sembrava impazzito, all’interno del teatro i Beatles blandirono e conquistarono il pubblico ingioiellato (Calvisi e Caserza, 1997) con la stessa rapidità ed efficacia con cui, tanto tempo prima, avevano catturato i pochi avventori del Cavern Club di Liverpool, che può essere considerato il primo locale di Liverpool in cui si esibirono dal vivo i Beatles. Il pubblico del Royal Command, impettito e deferente, non poteva mostrarsi più vulnerabile al fascino noncurante dei Beatles e alla sfrontatezza che, per istinto, essi graduavano proprio nella misura giusta. I giornali del giorno dopo furono unanimi: “I Beatles scuotono i reali”, annunciava il Daily Express; “Notte di trionfo per quattro giovani, il palco reale era in ebollizione” scriveva il Daily Mail (Norman, 1981). 
Sui giornali si leggeva che molti ragazzi venivano rimandati a casa da scuola perché sfoggiavano “il taglio di capelli alla Beatles”; si stava preparando un balletto sui quattro, un parroco alla moda e numerosi politici sfruttavano il nome del gruppo per farsi pubblicità e in Parlamento erano spesso all’ordine del giorno delle interpellanze con le quali si chiedeva quanto costasse alla polizia londinese la protezione del complesso (misura cautelare ovviamente necessaria, se si voleva che i quattro elementi del complesso rimanessero incolumi). Per gli stessi Beatles tutto stava andando ben oltre lo scherzo. Dovevano indossare elaborati travestimenti quando uscivano per strada, furono vittima di un finto rapimento, le loro famiglie e le loro case erano perennemente in stato d’assedio, vennero loro rubati strumenti e chitarre dai camerini. Gli arrivi e le fughe di soppiatto dalle città del tour autunnale assomigliavano più ad esercitazioni militari che a spostamenti di un complesso rock. E una volta in teatro, i Beatles non potevano far altro che rimanere nascosti in miseri camerini, prigionieri del proprio successo. Sul palco non andava meglio. Uno spettacolo durava 20-25 minuti e avveniva di fronte una platea così incontrollabile che le grida non solo coprivano completamente la musica ma impedivano addirittura ai Beatles, in un’epoca di impianti di amplificazione primitivi, di sentire le proprie voci, le armonie e gli strumenti. Dopo sei anni di progressi sul palco, i Beatles cominciarono a diventare più innaturali ad ogni concerto. La turbolenta annata 1963 terminò con il nome del gruppo “scolpito nel cuore della nazione”, come scrisse un quotidiano nell’edizione speciale dedicata ai Beatles. I quattro dominavano completamente i giornali, le riviste, la radio e la televisione. Le classifiche erano invase dai dischi dei Beatles e legati ai Beatles. Record Retailer rese noto che nel 1963 gli inglesi avevano speso 6.250.000 di sterline solo in dischi dei Beatles  (Lewisohn, 1992).
Va detto che nel 1963 la popolazione inglese si era ritrovata sbilanciata a causa di una vasta eccedenza di persone sotto i diciott’anni: ciò contribuì all’estendersi della Beatlemania. Il calo della mortalità infantile, la legge del benevolo governo Macmillan che eliminava la leva obbligatoria, unitamente al fatto che il pericolo di una possibile terza guerra mondiale sembrava fosse ormai scongiurato, avevano permesso ad un’intera generazione di crescere intatta. Si trattava delle persone nate dopo il 1945 e cresciute in un’Inghilterra che si batteva per passare dal grigiore del dopoguerra al benessere materiale che caratterizzava gli States, da lungo tempo osservato e invidiato. Per questi giovani l’automobile, la radio, la lavatrice, i vestiti alla moda, tutti i lussi sognati ancora dai loro genitori, non erano altro che il normale contenuto terreno della vita.

 

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Tutto avvenne in un momento politico di crisi, la classe dirigente del Paese era stata colpita dagli effetti del famoso “Scandalo Profumo” (dal nome del ministro John Profumo coinvolto in particolari affari “pruriginosi”) e l’interesse dei media era quello di offrire finalmente qualcosa di sano e pulito da opporre allo sfacelo delle istituzioni. C’era una forte volontà di uscire dal modello opprimente di organizzazione gerarchica della società civile del tempo, considerato colpevole di quarant’anni di orrori e follie nell’alternanza tra totalitarismi e conflitti fratricidi in cui erano state principalmente le giovani generazioni a sacrificare la propria vita. La cultura popolare e di massa esplose in tutto il suo fragore mettendo in primo piano proprio la musica pop, intesa come mezzo per uscire da una situazione ritenuta dagli stessi giovani angosciosa. La musica pop era il segno più evidente del crescente potere economico dei teen-ager. Quella che aveva avuto inizio nel 1956 come esplosione ridicola e sconveniente di costumi adolescenziali, era ormai diventata un’industria con un giro d’affari di oltre cento milioni di sterline l’anno. L’atteggiamento nei confronti dei giovani, però, rimase sostanzialmente immutato: si trattava, come nel 1956, di un elemento insubordinato e sconcertante della popolazione, un elemento sempre oggetto di biasimo e di raccomandazioni da parte dei politici e della classe dirigente in genere. Ma si trattava anche di un mercato, di proporzioni e di potenzialità inaspettate, che il commercio al dettaglio blandiva e corteggiava ad ogni livello.
Bisogna però dire che non si trattava della prima manifestazione di fanatismo, si pensi al caso evidente di Elvis Presley, ma quella che aveva come protagonisti i Beatles accadde in un momento particolare della storia inglese in cui il pubblico “aveva un particolare bisogno di loro”. Questione di timing, del momento giusto, avrebbe detto George Martin, loro produttore discografico e mentore.
I Fab Four avevano “il segno dei primi” (Pettinato, 1995). È possibile verificare dalle cronache e dalle interviste che non si autocompiacevano, erano sinceri e diretti fino all’autoridimensionamento sospinto. Essi stessi, parlando dei primi singoli usciti sul mercato discografico, ebbero modo di rilevare il fatto di ritenersi “solo” dei grandi assemblatori più che dei grandi compositori (Mandel, 1996). Dello stesso parere al riguardo non fu a suo tempo Mick Jagger, cantante dei Rolling Stones, che in un’intervista ebbe modo di affermare: “I Beatles erano blasé e talvolta difficili. Spesso erigevano barriere, forse perché troppa gente li avvicinava. Si erano montati troppo la testa. Per loro tutto era accaduto troppo rapidamente, erano soltanto dei ragazzi di provincia e volevano che nessuno lo sapesse” (Calvisi e Caserza, 1997).
Nello scontro-confronto generazionale tra vecchia generazione e youth power si contrapponevano nuove consapevolezze e priorità, come quelle del diritto al piacere, della sincerità verbale, del tempo libero, dell’avversione alla cultura del sacrificio.
Gli inni aggreganti di questa nuova generazione non potevano che provenire dal mondo del rock and roll dal quale inizia una progressiva azione di colonizzazione che sotto certi aspetti non si è ancora arrestata. Il rock and roll dei Beatles può essere visto anche in chiave di strumento disgregante dapprima della cultura borghese, per poi estendersi senza una precisa direzione: un esempio fu il problematico rapporto con la religione.
Gli integralisti cristiani, soprattutto quelli non cattolici, furono tutt’altro che aperti verso i Beatles, al tempo della Beatlemania, mentre più articolata fu la posizione a riguardo del Vaticano (Schaumburg, 1976). La Chiesa, d’altronde, sin dal Concilio di Trento aveva osteggiato la materialità terrena del ritmo (si legga anche Beat) e dei suoi moti sensuali, in favore delle coralità celesti, delle melodie (Pettinato, 1995). Il beat era espressione della “fisicità” del rapporto dei neri con la musica pagana, lontano dal senso formale della cultura musicale occidentale. In Iran, Paese integral-islamico, nel 1996 la radio e la televisione hanno addirittura messo al bando la musica dei Beatles, perché ritenuta colpevole, come del resto tutta la “cultura del rock”, di essere sovversiva.
Kogler (1995) sostiene che il fondamento della musica afroamericana è il ritmo che viene prodotto battendo, il beat, con i suoi accenti, su cui si stratificano altri eventi ritmici e melodici, e precisa che il marchio rock and roll proviene dalla lingua blues, che utilizzava questa espressione slang dai molteplici significati per alludere sia al rapporto sessuale sia a qualsiasi movimento ritmico. Anche il produttore dei Rolling Stones, Andrew Oldham, in una famosa intervista ebbe modo di esprimersi in merito allo stretto legame tra sesso e rock and roll, mettendo in rilievo con grande intuito il nuovo modo di vivere l’esperienza sessuale nel mondo dominato dal rock (Perniola, 1996).
Nei primi anni Sessanta il mondo giovanile era alla ricerca con urgenza di nuovi modelli di ricambio universali: il rock and roll escludeva con forza gli “altri”, quelli che non lo accettavano e fungeva da fattore unificante per le nuove generazioni.

 

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Il rock and roll rappresentava in questo contesto un modo per allargare i diritti di autonomia individuale, una via per favorire concezioni egalitarie, pacifiste ed antirazziste. In questo quadro, niente poteva essere più importante che possedere dei simboli da copiare, emulare, ostentare agli adulti come testimonianze viventi, concrete. A rivestire quel ruolo erano perfettamente destinati i Beatles: mini collettività, espressione di un modello plurimo, un nume a più teste, “ben più efficace come simbolo in quel contesto particolare, di qualunque profeta possibile individuale e, proprio per questo, generatori di un esteso effetto di più facile identificazione” (Pettinato, 1995).
Nei newsgroup presenti in Internet si parla spesso di Beatles Concept, o Cosa Beatles per indicare la loro immagine indivisibile, unica, paragonabile a certe divinità orientali plurisoggettive. John Lennon, Paul McCartney, Ringo Starr e George Harrison erano solo articolazioni di questo Beatles Concept secondo un alternarsi di priorità individuali non regolari: di ciò erano concretamente consapevoli tutti ed è comprensibile che ad un certo punto, e disordinatamente, il loro “ego” più profondo rifiutasse il vincolo, il quale, paradossalmente, nato per una ricerca di libertà di ciascuno di loro, aveva finito col ritorcersi contro la spinta originaria. Come ebbe a dichiarare John Lennon: “Fu con l’invenzione della loro immagine iniziale, frangia e giacchetta che l’incisività dei Beatles venne intaccata irrimediabilmente, e che il successo improvviso uccise la loro musica” (Wenner, 1971). Insieme rappresentavano una felice combinazione perfettamente equilibrata tra stile, melodie, sound, personalità individuale, fisicità di gruppo e immagine proiettata. Dalla combinazione di questi otto elementi emergeva quella particolarità che altri non avevano.
L’anno successivo risulterà poi decisivo. L’Inghilterra nel 1964 aveva cambiato governi e primi ministri. Le elezioni generali d’ottobre avevano segnato la sconfitta dei conservatori dopo tredici anni di preminenza e riportato al potere, per la quarta volta nella storia, il partito laburista. Il potere era passato a Harold Wilson, che rappresentava l’elettorato di Huyton, vicino a Liverpool. Egli riportò al potere il socialismo sull’onda di uno slogan quanto mai opportuno in quanto era stato preso, quasi per intero, dal linguaggio pop usato dagli adolescenti o dai presunti tali: Let’s Go With Labour! Lo slogan decisivo della campagna elettorale, prendeva a prestito l’aspetto prevalente della musica pop: essere spronati, come avveniva per la musica, a condurre una vita intensa e stimolante. Quella era “la nuova Inghilterra” che Wilson prometteva in un linguaggio che si intonava allo stato d’animo di massa: “Cento giorni di azione dinamica. […] Un’Inghilterra dinamica, in fiduciosa espansione e soprattutto tesa verso una meta. […] Forgiata al calor bianco della rivoluzione tecnologica” (Norman, 1981).
Wilson quando ancora era capo dell’opposizione comprese in anticipo l’importanza del ruolo dei Beatles nel panorama socio-politico inglese. Nell’aprile precedente alle elezioni, aveva personalmente consegnato ai Beatles il premio Variety Club. Era stata la mossa più astuta della sua carriera politica, telefonare a Sir Joseph Lockwood, presidente dell’EMI, e offrirsi di onorare l’occasione quale “concittadino del Merseyside”.
Agli inizi del 1965, il genetliaco della regina fu caratterizzato dalla distribuzione delle onorificenze e proprio come l’anno precedente, la regina si limitò ad apporre la propria firma all’elenco preparato dal suo primo ministro. Il 12 giugno fu annunciato che i Beatles avrebbero ricevuto il MBE, sarebbero diventati cioè Membri dell’Eccellentissimo Ordine dell’Impero Britannico.
I Beatles, che si stavano riprendendo dalla seconda tournée europea, la mattina si svegliarono e trovarono una folla di rappresentanti della stampa, ansiosi di scoprire ciò che essi provavano all’idea di camminare, nei cortei ufficiali, dietro i pari del regno e i cavalieri ereditari. Per comprendere il grado di sfrontatezza e al contempo di stupore nel rispondere a domande circa la consegna dell’onorificenza basti ricordare che John Lennon affermò: “Pensavo che fosse necessario guidare i carri armati e vincere le guerre per avere il MBE”. E ancora Paul McCartney: “Penso che sia meraviglioso, cosa diventa mio padre con questo?”. Nell’Inghilterra di Harold Wilson poteva succedere quindi di essere insignito dell’MBE “solo per aver suonato rock” come disse ancora incredulo George Harrison. Per questi motivi Wilson venne ironicamente definito come “il primo ministro beatle” (ibidem).
L’investitura dei quattro all’ordine dell’Impero Britannico avvenne per mano della regina, il 26 ottobre. La Swinging London si trovò in tal modo unita a Buckingham Palace per assistere ad uno spettacolo la cui pompa solenne e la cui spassosa incongruenza erano una profezia del sistema di onorificenze wilsoniano. Lo scherzo di Wilson non era stato accolto favorevolmente da tutti. Parecchi detentori dell’MBE, nonché dell’OBE e del BEM, avevano restituito le loro decorazioni per protestare contro l’assegnazione di un’onorificenza, da loro guadagnata per meriti di guerra o di lavoro, a quella che un indignato eroe della Marina definiva “una banda di babbei”. Il colonnello Frederick Wagg annunciò le proprie dimissioni dal partito laburista e l’annullamento di un lascito di dodicimila sterline ai fondi del partito. Wilson riuscì però a raggiungere il suo obiettivo: riflettere su se stesso la popolarità dei Beatles. L’era Wilson, che aveva promesso tanta tenacia, tanta austerità tesa ad una meta, doveva produrre un interludio di frivolezza senza riscontro, o quasi, nel passato. L’Inghilterra neosocialista del 1965 è ricordata soprattutto per una sorte di allucinazione che calò prepotentemente sulla capitale: la Swinging London.

 

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La Swinging London nacque nel momento in cui i debiti del governo, in patria e all’estero, avevano condotto il Paese sull’orlo del dissesto economico. Eppure i tempi difficili, così scrupolosamente anticipati da Harold Wilson, non si vedevano da nessuna parte. Tutto quello che si poteva vedere era un rapido aumento delle spese registrato sul fronte, ormai familiare, della moda dei teen-ager. Le ragazze di Londra, viso pallido e capelli corti, si muovevano con passo agile e leggero con vestiti bianchi e neri Op Art che terminavano scandalosamente molto sopra il ginocchio. I ragazzi che facevano la coda fuori dal Marquee Club portavano calzoni con la vita bassa e camicie a pallini o a fiori. L’opulenza e lo stile erano le manie del momento. La Swinging London era uno spettacolo di gonne alla Mary Quant, di capelli tagliati a colbacco, di stravaganti pellicce di coniglio bianco; ma era anche l’inizio, di un abito mentale, che in larga parte veniva dai Beatles. Come questi avevano a occhi aperti visto lo strano mondo della loro celebrità, così i giovani londinesi guardavano una capitale la cui antica compostezza appariva improvvisamente minata. Alla base della Swinging London c’era la tollerante Londra non all’ultimissima moda, la Londra cioè, dei taxi neri, degli autobus rossi, dei granatieri della guardia, delle statue e dei monumenti sacri davanti ai quali i giovani vestiti scandalosamente come tanti damerini, sfrecciavano ridendo sulle loro Mini Mokes scoperte. La stessa Union Jack si traduceva in un grembiule da cucina o in un sacchetto di carta per la spesa. L’essenza era la stessa impudenza che era appartenuta ai Beatles; era la certezza che, poiché loro l’avevano fatta franca, tutti avrebbero potuto fare altrettanto.
La Swinging London era anche un grosso affare, come nient’altro sarebbe stato prima o sarebbe stato poi. Tutta l’estate nel West End intorno a Carnaby Street e in strade secondarie di Fulham e Kensigton, un tempo mal frequentate, spuntarono le “boutique”, il nuovo nome dato ai negozi di abbigliamento. Tutta una serie di nuovi locali notturni gareggiò con il famoso locale Ad Lib per attirare coloro che, nella terminologia del momento, erano il with it set, le “facce nuove”, la gente in
La più inavvicinabile gente in, il supremo clan, continuavano a essere i Beatles. Con i capelli tagliati a caschetto e gli abiti un passo avanti rispetto a Carnaby Street, essi costituivano il modello, e le loro canzoni lo sfondo, delle spese nelle boutique, dell’uso di mangiare nei bistrò e di portare boa di struzzo, della vita della Swinging London (ibidem).
Il loro film Help! (Lester, 1965) è la Swinging London personificata, in parte musica, in parte documentario a colori e in parte fumetti Pop Art. Il soggetto della pellicola era la vita privata dei Beatles, non la vita reale, ma una vita fantastica, quale le parole delle loro canzoni e le buffonate pubbliche avevano fatto immaginare ai fan. La prima del film al West End, con l’ormai caratteristica e quasi inevitabile presenza della principessa Margaret, riscosse critiche che salutavano i Beatles quali “moderni fratelli Marx” ed è quasi superfluo aggiungere che riscosse un notevole successo.
Tornando alla carriera dei quattro, se il 1963 fu l’anno della perdita di controllo sullo spettacolo, nel senso che iniziò a formarsi quell’abitudine, mai più abbandonata, dell’assalto di voci assordanti al loro solo apparire sul palco, il 1964 fu l’anno dei tour internazionali con i quali si determinava un’esportazione diretta della Beatlemania.
La vicenda del tour americano è per vari versi straordinaria, soprattutto psicologicamente, tant’è che ha prodotto un vero versante a sé della Beatlemania e della letteratura in materia (Hoffman, 1984). Hoffman sostiene che i “giovani” americani d’annata concordano tuttora su un profilo ben specifico: fu il rock dei Beatles e non il rock and roll originario e locale a “svegliarli”, al pari di quanto accadeva in Europa (ibidem). Sulla febbre scatenata tra la gioventù americana gioca affettuosamente, ad esempio, il film del 1978 di Robert Zemeckis, 1964: Allarme a New York arrivano i Beatles (I Wanna Hold Your Hand, 2004).
In America la band ricevette l’onore di partecipare all’Ed Sullivan Show, in un momento aureo del palinsesto televisivo del sabato sera, che veniva considerato comprovabilmente lo spettacolo televisivo con maggiore seguito nel mondo (mancavano i satelliti, e gli altri grandi Paesi, come la Cina e l’Urss, non potevano nemmeno immaginare di avere un televisore per famiglia).
L’America intera era di fronte al video: vennero anche realizzati dei documentari sulle reazioni delle famiglie alla vista dei quattro ragazzi inglesi, visibili anche nelle immagini di Anthology ’96 (AA. VV., 2000). Il 9 febbraio 1964, davanti ad un pubblico di 728 newyorchesi esagitati, i Beatles fecero la loro apparizione all’Ed Sullivan Show. Secondo gli indici d’ascolto dell’AC Nielsen, venti milioni di famiglie assistettero alla trasmissione: qualcosa come 73 milioni di persone, ben oltre il precedente record assoluto d’ascolto. Poco prima degli Stati Uniti i quattro erano stati in Francia, al decantato Olympia dove avevano però ricevuto un’accoglienza tiepida. In America arrivarono tutt’altro che in sordina, a febbraio: i tremila fan che li attendevano al JFK Airport di New York, riferisce qualcuno, erano stati ingaggiati dalla business machine (Schaffner, 1980) che, dopo lo scetticismo dell’anno prima, quando Brian Epstein aveva collezionato rifiuti nei suoi test diretti in loco, si stava mettendo in moto secondo il noto professionismo americano in materia di spettacolo.
A proposito dell’arrivo dei Beatles in America è opportuno altresì sottolineare altre due importanti questioni. I Beatles giunsero il 7 febbraio 1964 all’aeroporto di New York da poco ribattezzato “JFK”, arrivarono in una nazione che subiva ancora una forte depressione dopo la scomparsa del Presidente John Fitzgerald Kennedy. Gli americani erano quindi pronti ad accogliere un diversivo del genere. Per quanto oggi possa sembrare inverosimile tutta la nazione fu presa dalla febbre dei Beatles, in maniera entusiastica e incondizionata (Lewisohn, 1995). Per quanto concerne il secondo fatto rilevante possiamo affermare che l’America fu contagiata per sempre nonostante alcune dimostrazioni nazionalistiche di ostilità alla loro “invasione”.
La connessione del fenomeno della Beatlemania con la dissoluzione dei costumi ha sempre fatto capolino nel tempo: nel 1965 circolò in tutti gli Stati Uniti un pamphlet della Christian Crusade intitolato Comunismo, Ipnotismo e Beatles, in cui si avvertiva che la musica dei quattro avrebbe ipnotizzato la gioventù americana per consegnarla sottomessa ai poteri sovversivi (Schaumburg, 1976).
Quando, dopo vari concerti in tutti gli Usa in cui si registrò il tutto esaurito, decollarono dal suolo americano, i Beatles si lasciarono alle spalle un Paese letteralmente infatuato di loro, fatto tanto incomprensibile quanto imprevedibile.
Il 1965 fu un anno particolare per i Beatles, un anno in cui i quattro consolidarono i successi e gli eccessi del 1964 replicando praticamente le stesse imprese. Cominciarono a comprendere che difficilmente i loro concerti avrebbero potuto recuperare l’atmosfera che si respirava prima del 1963. Cominciarono a rimpiangere i tempi delle esibizioni di mezzogiorno al Cavern Club, quando potevano affinare le proprie capacità, non soffocate da grida avvolgenti. Recitarono in Help! (Lester, 2007) e affrontarono un’altra tournée trionfale in Nord America.
All’arrivo a San Francisco furono condotti fuori dall’aeroporto all’interno di una gabbia di ferro. La loro liberazione, ad opera della polizia, circa dieci secondi prima che la gabbia cedesse all’urto di una folla impazzita che premeva da ogni parte, segnò l’inizio di quattro settimane in cui la febbre americana per i Beatles giunse al parossismo. In più di un’occasione i Beatles ebbero il terrore di perdere la vita.

 

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In America il tour organizzato sempre dall’abile manager Epstein si aprì con un evento grandioso: un concerto davanti ad una folla record di 55.600 fan deliranti allo Shea Stadium di New York. Filmato per gli schermi televisivi, è probabilmente il più famoso dei concerti dei Beatles, l’apogeo della loro carriera live. Forse perché era la prima data del tour nonché un’occasione importantissima, i Beatles misero un particolare impegno nelle loro esecuzioni. Nei concerti successivi però quella scintilla scomparve e talvolta la prestazione del complesso raggiunse livelli quasi infimi, certamente al di sotto di quel che ci si poteva aspettare dall’incontrastato gruppo numero uno del mondo. Non che i Beatles fossero da biasimare; due anni di concerti davanti a platee che quasi non riuscivano a cogliere una sola nota – e che, se anche ci fossero riuscite, non avrebbero notato neppure esecuzioni trascurate e voci stonate – li avevano resi indolenti sul palcoscenico. A quel tempo avevano smesso del tutto di provare prima dei concerti, rinunciando perfino, ed è incredibile, alle prove prima di un tour. Secondo Ringo Starr, a volte poteva accadere che tutti e quattro smettessero improvvisamente di suonare una canzone senza che nessuno tra il pubblico se ne accorgesse. John Lennon, che da tempo gridava ai fan di tacere, cominciò a urlare oscenità al pubblico (anche se non davanti al microfono). Le registrazioni esistenti dei concerti e delle conferenze stampa del tour 1965, ritraggono un gruppo evidentemente irritabile, annoiato e frustrato, non più gli spensierati Fab Four (Lewisohn, 1995).
Poi ci fu ancora una tournée breve per volontà degli stessi protagonisti, in Gran Bretagna. Quei nove concerti costituirono l’ultimo tour dei Beatles nel loro Paese. Naturalmente la cosa non venne resa nota, poiché a quel tempo si trattava di un segreto condiviso solo da quattro persone. Si trattò quindi di un anno di transizione, caratterizzato da un’importante cambiamento di prospettiva.
Quando i Beatles si sentirono soffocare dall’adulazione che li circondava, cercarono di soddisfare se stessi piuttosto che il pubblico; il risultato più evidente fu un ulteriore significativo balzo in avanti del lavoro in studio, che sarebbe culminato nell’album Rubber Soul. Inoltre diminuirono le apparizioni in radio e in televisione, come se si fossero improvvisamente resi conto di non avere più bisogno di sfiancarsi correndo nel disperato tentativo di soddisfare ogni richiesta. Abitavano in lussuose ville separate nei migliori quartieri di Londra o della periferia ricca, giravano in Aston Martin e Lotus, avevano una vita privata indipendente e più discreta rispetto al passato. Subivano anche le prime attrattive intellettuali, dall’arte d’avanguardia ai movimenti civili, fino al fascino orientaleggiante di predicatori più o meno noti. Avevano seguito ed accettato, uno dopo l’altro, e con diversa intensità, l’attrazione delle droghe, intese quale mezzo di espansione delle percezioni, della capacità creativa, dell’ispirazione persino, ripercorrendo un cammino che veniva da lontano nell’arte e nella letteratura moderna.
Si trattava delle prime droghe leggere e dell’acido lisergico, Lsd, troppo in voga per starne al riparo dato lo spaccato sociale che frequentavano, la dorata gioventù britannica off del tempo, immortalata dal film italiano Blow Up (2011) di Michelangelo Antonioni (Pettinato, 1997).
Il 1966 si aprì con una tournée internazionale, che i Beatles furono costretti ad onorare solo per motivi contrattuali in Giappone e nelle Filippine. Non valeva proprio la pena ascoltare i Beatles in quegli ultimi mesi di concerti, quando la loro capacità di tenere il palco aveva raggiunto i livelli più bassi. Il repertorio comprendeva solo undici canzoni, eseguite in modo scadente, stonate e fuori tempo.
L’unica visita dei Beatles in Giappone provocò comunque un vero scompiglio. Le forze di polizia giapponesi, preoccupate di garantire l’incolumità del complesso, adottarono misure di sicurezza persino eccessive, tanto che i Beatles si ritrovarono reclusi all’hotel Hilton di Tokyo, dal momento dell’arrivo fino alla partenza. Vennero anche malmenati da un gruppo di agenti antisommossa, che, paradossalmente era intervenuto per prevenire gli eccessi dei fan.
I quattro si allontanavano solo per fulminei spostamenti tra l’albergo e la sala dei concerti (Nippon Budokan), scortati da cortei di auto. La direzione dell’albergo li sistemò negli appartamenti presidenziali del diciottesimo piano, fermando al diciassettesimo tutti gli ascensori, le cui entrate venivano sorvegliate da guardie armate, mentre la polizia piantonava tutte le altre stanze. Fu aperto un bazar all’interno delle ventiquattro stanze occupate dai Beatles, al fine di permettere loro di acquistare radio, macchine fotografiche e occorrenti per dipingere. Nelle Filippine, i Beatles si imbatterono in un incidente diplomatico che lì lasciò alquanto scossi. Imelda Marcos, moglie del presidente, si era dichiarata ammiratrice dei Beatles e aveva organizzato uno speciale garden party a Malacanang, la fortezza presidenziale, con l’esplicito scopo di presentarli al marito e ai trecento figli, accuratamente selezionati, di uomini politici e soldati.
Brian Epstein, non sapendo dei preparativi e dell’entità della festa che si stava preparando in onore dei suoi pupilli, non vide nessuna necessità particolare di intervenire. La mattina dopo il Manila Sunday Times titolò: “I Beatles snobbano il Presidente!” (Calvisi e Caserza, 1997). Le conseguenze furono serie, nel Paese retto dal regime dittatoriale di Marcos. Gli organizzatori del concerto espressero la loro solidarietà rifiutando di pagare a Epstein il compenso pattuito. Altri cittadini telefonarono, invece, all’ambasciata britannica, minacciandoli di morte.
Profondamente turbato Epstein fece del suo meglio per fare ammenda. Chiese di comparire alla televisione la sera seguente per spiegare che non intendevano snobbare nessuno. La trasmissione fu boicottata. La partenza dell’aeroporto di Manila avvenne in un clima di intimidazione inimmaginabile. Privata dalla protezione della polizia, la comitiva dei Beatles si diresse a tutta velocità verso l’aereo, passando in mezzo a funzionari della dogana che li schernivano; furono tutti presi non solo a spintoni ma anche a pugni e calci. Il volo per Nuova Dehli decollò dopo lunghe trattative fra Epstein e un funzionario del fisco delle Filippine che rifiutava di lasciarli partire se non avessero versato settemila dollari (Norman, 1981).

 

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Quella che avrebbe dovuto essere una pausa di tutto riposo a Nuova Dehli, dopo le Filippine, fu quasi del tutto rovinata (strano a dirsi!) da vaste folle urlanti di fan indiani. I Beatles erano quindi ormai avviati verso il limite della sopportazione. A un cronista che gli chiese i programmi per i mesi successivi, George Harrison rispose: “Ci riposeremo per due settimane prima di andare a farci picchiare dagli americani”. In effetti, e sembra incredibile, le parole di Harrison si sarebbero rivelate profetiche. L’ultimo tour della band cominciò sotto pessimi auspici.
Il 1966 fu così un anno particolare. L’Inghilterra non aveva molte ragioni per essere ottimista. Quell’anno, di cui era appena superata la metà, poteva già annoverare i vari tormenti di un’elezione generale e di uno sciopero nazionale dei trasporti. La sterlina era debole. L’inflazione continuava a crescere. Il rieletto governo Wilson non dimostrò di essere dinamico o teso verso una meta, ma portò semplicemente alla ribalta una serie di uomini politici di dubbia moralità. 
Molta attenzione veniva attribuita ai fatti americani. Il bombardamento delle città nord vietnamite di Hanoi e Haiphong, fece sì che una guerra, fino a quel momento vaga e lontana, cessò di svolgersi “altrove”. Nonostante ciò ci furono due fatti che contribuirono non poco a diffondere un certo senso di serenità. Il 30 luglio l’Inghilterra vinse la coppa del mondo di calcio, segnando audacemente il gol decisivo negli ultimi secondi della finale contro la Germania. Vecchie animosità del tempo di guerra alimentarono indubbiamente il calore con cui la squadra vittoriosa fu accolta a Londra. Adesso i calciatori assomigliavano a cantanti pop, si facevano crescere i capelli, portavano vestiti “all’ultima moda” e ricevevano le lodi di grandi uomini, come Wilson appunto.
La seconda e più consistente ragione di allegria, doveva la sua origine a un articolo del 13 aprile sulla rivista Time. Com’era suo stile, Time si era accorta finalmente del fenomeno della Swinging London, che dal suo apogeo alla metà del 1965 era declinato fino a scomparire quasi del tutto. Ma Time, grazie ai suoi “eserciti” redazionali riuscì a farlo rivivere. Il servizio di Time, cui fecero seguito saggi fotografici ancora più ricchi di fascino pubblicati da Life e dal Saturday Evening Post, creò un boom turistico senza precedenti nella storia di Londra. Un gran numero di teen-ager, esaltati da tutta la musica pop inglese calavano su Carnaby Street e King’s Road con la speranza di vedere, sia pure di sfuggita, i loro idoli, così come Life ed Esquire avevano promesso. Tale era la domanda, che per forza di cose l’offerta non poteva non materializzarsi. In quello stesso contesto di fermento culturale, i Beatles presentarono il nuovo album Revolver del quale, ancora prima dell’uscita, erano già state prenotate un milione di copie. I Quattro si fermarono ad osservare con curiosità il nuovo periodo. Godevano di un’adorazione e di un seguito non comuni. Nessuno però poteva supporre che il fatto di essere ricchi, di avere automobili, domestici e quant’altro, li potesse portare a uno stato che non fosse di inimmaginabile felicità.
Avevano provato tutto, fatto tutto, avuto tutto in sovrabbondanza ed ora era divenuta forte la volontà di uscire dal Beatles Concept, dalla Cosa Beatles. Ciascuno di loro, nell’adorazione collettiva, si sentiva trascurato come individuo, era venuto il momento che ognuno di loro sperimentasse la realtà di un’esistenza indipendente (ibidem).
John Lennon aveva rilasciato a Maureen Cleave, dell’Evening Standard, un’intervista in cui si diceva convinto che il cristianesimo era destinato a sparire, avvalorando la sua opinione con parole divenute celebri: “In questo momento noi siamo più popolari di Gesù”. Nel contesto dell’articolo firmato da Cleave la frase non aveva molta rilevanza. Ma il 29 luglio, quando la rivista americana DateBook riprese l’intervista, intitolandola con la frase attribuita a John Lennon “Non so se finirà prima il rock and roll o il cristianesimo”, lo scandalo negli Stati Uniti fu enorme (Giuliano, 1994).
Molte radio locali si rifiutarono di programmare la musica del complesso inglese, alcune organizzazioni, soprattutto a Nashville, organizzarono pubblici falò, in cui si sarebbe bruciato tutto il Beatle-material, dischi compresi. Incoraggiati dal clero (Schaumburg, 1976), dai Grandi Maghi del Ku Klux Klan furono organizzati vari altri falò in Alabama, Texas e Georgia. Una comunità indignata creò dei bidoni per rifiuti con l’etichetta “Place Beatle Trash Here”.
Ci furono le scuse pubbliche sia di Epstein sia di John Lennon che ebbe modo di dire in conferenza stampa: “Io non sono anti-Dio, anti-Cristo, anti-religione. Non avevo nessuna intenzione di fare delle critiche. Non volevo sostenere che noi eravamo i più grandi o i migliori”.

 

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Così incominciò la tournée destinata ad essere la peggiore di tutte e, anche se non ufficialmente, l’ultima. Tutti e quattro i Beatles si resero conto, per la prima volta, di una minaccia che preoccupava Epstein da quando erano iniziate le tournée americane, la minaccia cioè che prima o poi in qualche grande stadio qualcuno avesse potuto colpirli coperto dal frastuono generale. In ogni grande stadio, mentre suonavano, i Beatles si sentivano messi in pericolo da qualcosa di diverso dalla rischiosa adorazione. A Memphis, durante il loro primo concerto nel sud degli States, il timore dietro le quinte diventò palpabile. Alcuni giorni prima di questo concerto i Beatles ricevettero una telefonata anonima che annunciava l’assassinio di uno di loro. Fuori dall’arena, il Ku Klux Klan stava tenendo una dimostrazione contro di loro alla quale partecipavano ottomila persone. Sul palcoscenico iniziarono a essere lanciati rifiuti di ogni genere. A metà del concerto esplose un petardo in mezzo al palco che gettò nel panico i quattro ragazzi che credevano che uno di loro fosse stato colpito. Così, in equilibrio precario, si giunse al 29 agosto 1966, quando John, Paul, George e Ringo suonarono insieme per l’ultima volta in pubblico. Teatro dell’addio alle platee fu il Candlestick Park di San Francisco, California. John fotografò se stesso e i suoi compagni tra un brano e l’altro, così come fece Paul, che pensò anche di registrare su cassetta lo show. Lo spettacolo venne ripreso da duecento metri circa perché a tale distanza erano sistemate le prime file, in una performance che la stampa definì un “puppet show” (Lefcowitz, 1987). 
George Harrison, durante il volo di ritorno in Europa (la notte tra il 30 e il 31 agosto), a modo suo consegnò alla storia la stagione “on the road” dei Fab Four dicendo: “Ecco qui! Non sono più un Beatle” (Calvisi e Caserza, 1997).
Il 1967 segnò in modo netto il destino della band. Il 27 agosto morì il loro manager e amico Brian Epstein all’età di trentadue anni per un’ingestione accidentale di una massiccia dose di farmaci. La notizia gettò nello sconforto la band che per la prima volta si era allontanata da Londra senza di lui. La morte di Brian non spezzò soltanto un profondo vincolo. Da quel momento il sodalizio tra i musicisti era destinato a incrinarsi. 
Nel 1968 le “divergenze personali, commerciali, musicali” – di cui parlerà Paul McCartney nell’autointervista apparsa nel suo primo album solista (McCartney, 1970) – si manifestarono compiutamente.
Le cause dello scioglimento dei Beatles sono uno degli argomenti più dibattuti nella storiografia dei Fab Four. Si potrebbe parlare della crescente invadenza di Yoko Ono nella vita di John Lennon e quindi del gruppo. Ancora potremmo parlare del delirio di onnipotenza di Paul McCartney che si mise in testa di assumere il ruolo di leader e manager della band. Ma in realtà il processo di disgregazione cominciò proprio con la morte di Epstein. Fu lui a fare emergere dal Cavern Club quattro rockers ventenni, sboccati e acerbi, e a formarli. Con la scomparsa del “quinto Beatles” il gruppo si trovò a dover affrontare una realtà più grande di loro, soprattutto sotto l’aspetto decisionale (Calvisi e Caserza, 1997). Ma sono le testimonianze rese nell’autobiografia pubblicata in Italia nell’ottobre 2000 a chiarire definitivamente e meglio di ogni altra biografia passata, le impressioni dei Beatles sui Beatles, a riguardo della definitiva rottura del Beatles Concept.

Così George Harrison: “Non ricordo. John diceva che voleva sciogliere i Beatles. Non ricordo dove l’ho saputo. Tutti avevano cercato di andarsene, quindi non era niente di nuovo. I Beatles erano partiti come qualcosa che ci ha dato la possibilità di fare tanto quando eravamo giovani, ma eravamo giunti a un punto in cui stavamo soffocando. C’erano troppe limitazioni. Bisognava autodistruggersi, e non mi dispiaceva se qualcuno voleva andarsene, perché volevo farlo anch’io […]. La mia sensazione, quando ognuno ha preso la propria strada, è stata quella di godermi lo spazio che questa scelta mi dava, lo spazio per poter pensare con i miei tempi e avere dei miei musicisti in studio che mi avrebbero accompagnato nelle mie canzoni. Sembra strano, perché alla maggior parte della gente piacerebbe stare con i Beatles, o almeno, a quei tempi sembrava una cosa bellissima farne parte. E lo era. Ma è stata anche una gran cosa venirne fuori, un po’ come quando te ne vai da casa e voli con le tue ali […]. Dovevamo venirne fuori. Stavamo stretti. Eravamo più grandi dei Beatles: noi quattro, individualmente, eravamo più grandi del gruppo”.

John Lennon:“La mia vita con i Beatles era diventata una trappola, un circuito chiuso. […] Avevo persino fatto un film senza gli altri, ma era stata più una reazione al fatto che i Beatles avevano deciso di non fare più tournée che una cosa fatta con in testa la mia indipendenza, anche se, già allora, il mio obiettivo era la libertà”.

Ringo Starr:“Loro sono diventati gli amici più intimi che abbia mai avuto. Ci prendevamo cura l’uno dell’altro e ci facevamo un mucchio di risate. Ai vecchi tempi ci davano delle enormi suite negli alberghi, un piano intero, e noi quattro finivamo nello stesso bagno solo per il piacere di stare insieme. Perché eravamo sempre sotto pressione. C’era sempre qualcuno che voleva qualcosa: un’intervista, un ciao, un autografo, essere visto con noi, qualsiasi cosa. Eravamo gli unici ad aver fatto l’esperienza di essere i Beatles: nessun altro sa che cosa significhi. Anche oggi, quando noi tre ci troviamo, Paul e George sono gli unici che mi guardano per quello che sono, non pensando: lui è questo ed è un Beatle. Tutti gli altri lo fanno” (AA. VV., 2000).

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LETTURE

AA.VV., Anthology, Rizzoli, Milano, 2000.
Calvisi Angelo e Caserza Guido, Amavamo i Beatles o i Rolling Stones?, Theoria, Roma, 1997.
Giuliano Geoffrey, Giuliano Brenda, The lost Beatles interviews, Virgin Books, Londra, 1994.
Hoffman Dezo, The Beatles conquer America, Virgin, Londra, 1984.
Kogler Ilse, L’anelito verso il Più. Musica rock, gioventù e religione, S.E.I., Torino, 1995.
Lefcowitz Eric, Tomorrow never knows. The Beatles last concert, Terrafirma Books, San Francisco, 1987.
Lewisohn Mark, The complete Beatles chronicle, Pyramid Books, Londra, 1992.
Lewisohn Mark, Strawberry Fields, Firenze, Giunti, 1995.
Mandel William, John Lennon. Pace, Amore e musica, Blues Brothers, Milano, 1996.
Mellers Wilfrid, Twilight of the Gods, The Beatles in retrospect, Faber & Faber, Londra, 1976.
Norman Philip, Shout! La vera storia dei Beatles, Mondadori, Milano, 1981.
Perniola Mario, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino, 1996.
Pettinato Salvatore, Nel nome dei Beatles, Rusconi, Milano, 1997.
Scaduto Anthony, The Beatles, Signet Books, New York, 1968.
Schaumburg Ron, Growing up with The Beatles, Perigee Book, New York, 1976.
Schaffner Nicholas, The Beatles forever, The McGraw-Hill Book Company, New York, 1978.
Wenner Jann S., Lennon remembers, Straight Arrow, New York, 1971.

 


 

VISIONI

Antonioni Michelangelo, Blow up, Warner Home Video, 2011.
Lester Richard, Help!, Emi, 2007.
Parascandolo Renato, La storia siamo noi, Teche Rai.
Zemeckis Robert, I Wanna Hold Your Hand, Universal Studios, 2004.