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TRE COLORI: FILM ROSSO (Trois Couleurs: Rouge)
è un film del 1994 diretto da Krzysztof Kieslowski

TRAMA
Investendo accidentalmente un cane, la modella Valentine Dussaut fa conoscenza con un giudice in pensione abituato a spiare le conversazioni telefoniche dei vicini. Contemporaneamente la ragazza incrocia August che verrà coinvolto nell’autodenuncia del giudice – deciso a rivelare di aver infranto la legge – e farà in modo di essere sullo stesso traghetto che porterà Valentine in Inghilterra per trovare il fidanzato.
Ultimo film di Kieslowski.
 
da Il Mereghetti. Dizionario dei film 2011,
di Paolo Mereghetti, Dalai Editore, Milano, 2010.

TRE COLORI:
FILM ROSSO

regia di Krzysztof Kieslowski

di Fiorenza Gamba


Juge: “Hier j’ai rêvé de vous. J’ai rêvé de vous, vous aviez quarante ou cinquante ans et vous étiez heureuse”

Valentine: “Est-ce que vos rêves se réalisent?”

Juge: “Ça fait des années que je n’avais pas rêvé quelque chose de beau” 

 

Il perlaceo paesaggio ginevrino filtra appena nelle finestre della casa del giudice. Certo, qualche breve escursione all’esterno – che Kieslowski propone con parsimonia, quasi con pudore – ci permette di percepire l’umidità grigia e tranquilla del lago, così come il bagliore del sole che scompare dietro la montagna e attraversa le stanze prima che Valentine richiuda la finestra. Per il resto è la casa che costituisce l’estensione della vita del giudice: l’una è l’esteriorità più estrema dell’interiorità più profonda dell’altro. Buia, chiusa, trascurata, perfino inospitale, eppure stipata di oggetti, la casa è l’espressione materiale del suo occupante: cupo, chiuso, sgradevole eppure pieno di ricordi, di rimorsi, di rimpianti inespressi, pietrificati, muti.
La ruvidezza un po’ stramba del giudice, la sua misantropia fin troppo esibita, attira l’ostilità dei vicini i quali, regolarmente e ripetutamente, mandano in frantumi i vetri delle sue finestre lanciando delle grosse pietre, a loro volta raccolte e collezionate  dal destinatario sopra il vecchio pianoforte. L’irruzione improvvisa di Valentine interrompe il continuum esistenziale dell’uomo fatto di abitudine e di solitudine; la bella, dolce e giovane modella manda in frantumi la sua coriacea indifferenza così come le pietre le sue finestre. Infatti, se il caso, nelle sembianze del cane del giudice, ha fatto sì che due universi così lontani si incontrassero; se l’irrazionale, sempre capriccioso, ha permesso che continuassero a vedersi, solo le parole sono in grado di aprire quel varco dove può prendere posto il legame, l’affetto. Da un lato sono le domande di Valentine pronunciate in tono sommesso e il loro suono morbido, dall’altro, per contrasto, sono le risposte del giudice, il loro timbro troppo secco o troppo incerto, che rianimano non solo la volontà di vivere, ma soprattutto il bisogno della cura, della protezione, dell’attenzione quasi nascosta. Questo stato d’animo, reciproco nei due personaggi prende forma nel sogno. Un sogno che non è rifugio o fuga  - non si tratta certo dell’evasione nel fantastico - ma piuttosto forma dell’immaginario; un sogno che è nello stesso tempo matrice e calco della realtà, generatore ed effetto; uno spazio che si apre nell’incontro tra il ricordo e il desiderio.

 

Giudice: “Ieri vi ho sognata. Vi ho sognata, avevate quaranta o cinquant’anni ed eravate felice.”

Valentine: “I vostri sogni si realizzano?”

Giudice: “Erano anni che non sognavo qualcosa di bello.”

 

Nella breve sequenza del dialogo sul sogno tra il giudice e Valentine vi è la chiave del film, del suo intreccio, ma anche la chiave del rapporto con lo spettatore e, infine, la chiave del sogno.
Nel sogno del giudice emerge tutto il suo spazio della prossimità, intesa nella sua dimensione affettiva che, come ricorda Paul Ricœur  ne fa “un rapporto dinamico incessantemente in movimento: rendersi vicini, sentirsi vicini” (Ricœur, 2005, pp. 185-186),  quasi una proiezione ab inverso del suo passato, egli infatti riprende un tempo lontano e sicuramente più felice (la dimensione del ricordo), ma al tempo stesso proietta Valentine nel futuro, in quel tempo in cui avrà quaranta o cinquant’anni, e così facendo non solo la protegge collocandola in una situazione felice, ma inconsciamente (perché è pur questo il regime del sogno), l’avvicina a sé, la rende ancora più prossima. E Valentine – che di questa azione non è l’attore – entra volontariamente nel sogno, nel suo tempo, nelle sue regole e nei legami di prossimità che produce proprio tramite quella domanda, la curiosità di sapere se i sogni del giudice si realizzino.
Ad un livello diverso, la sequenza del sogno è un punto del film in cui si realizza la sutura (Bellour, 1999; Oudart, 1969; Lacan, 1995), benché si tratti di una sutura sui generis, poiché non si limita solo a quell’allineamento di punti di vista tra macchina da presa e spettatore capace di attivare un’identificazione proiettiva, alla possibilità di saldare tra loro una presenza e una mancanza. Piuttosto si tratta del punto di sutura tra realtà e irrealtà, tra sogno e concretezza. Quel punto in cui Edgar Morin individua il nucleo dell’immaginario e che è il sogno stesso, in cui si mescolano “nella stessa osmosi l’irreale e il reale, il fatto e il bisogno, non solo per attribuire alla realtà l’incanto dell’immaginario, ma anche per conferire all’immaginario le virtù della realtà” (Morin, 1956, p. 213, trad. dell’autrice). Ma ad un livello ancora più profondo la sequenza è in maniera assoluta la chiave del sogno, del suo potere eufemistico, direbbe Gilbert Durand, di trasformare il mondo; di essere “il legame immaginario e segreto che lega e unisce il mondo e le cose nel cuore della coscienza […] ben lontano da essere vana passione, è azione eufemistica e trasforma il mondo secondo l’Uomo del Desiderio.” (Durand, 2009, p.435).
E Kieslowski, che sa tutto questo, l’ha svelato in una sola, brevissima sequenza.

 


 

LETTURE

× Bellour R., L’Entre-images 2: mots, images, 1999.

× Durand G., Les Structures anthropologiques de l'imaginaire, 1960, trad.. it. Le strutture antropologiche dell’immaginario, Dedalo, Bari, 2009.

× Lacan J., Écrits, 1966, tr. it. Scritti, Einaudi, Torino, 1995.

× Morin E., Le cinéma ou l’homme imaginaire, Minuit, Paris, 1956.

× Oudart J-P., Cinema and Suture, in “Cahiers du Cinema”, 211-212, 1969.

× Ricœur P., La mémoire, l'histoire, l'oubli, 2000, trad. it. La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano, 2005.

 

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