il posto delle fragole_locandina
IL POSTO DELLE FRAGOLE (Smultronstället)
è un film del 1957 diretto da Ingmar Bergman

TRAMA
L’anziano luminare della medicina Isak Borg si reca insieme alla nuora a ritirare un prestigioso premio accademico: il viaggio è l’occasione per un ripensamento sulla sua esistenza e per un pellegrinaggio a tappe nei luoghi veri e immaginari dei suoi fallimenti. Se la giovinezza è il superamento della “linea d’ombra” conradiana, la vecchiaia è l’arrivo al “posto delle fragole” di Bergman. Il regista ha solo trentasette anni, ma è già capace di amari bilanci esistenziali, non a caso affidati alla sensibilità interpretativa del grande attore svedese Sjöström (qui alla sua ultima apparizione sul grande schermo). Il risultato è un singolare road-movie alla ricerca del tempo perduto, una straordinaria fiaba drammatica sulla solitudine, che, dal punto di vista formale, oscilla tra l’espressionismo onirico (l’incubo iniziale e quello del processo) e il naturalismo quotidiano. Solo alla fine il ritmo sincopato si distende e i sussulti d’angoscia si sciolgono in un sorriso sereno: la vita mancata del protagonista si illumina attraverso le vite ancora possibili dei suoi giovani compagni di strada.
 
da Il Mereghetti. Dizionario dei film 2011,
di Paolo Mereghetti, Dalai Editore, Milano, 2010.

IL POSTO
DELLE FRAGOLE

regia di Ingmar Bergman

di Linda De Feo


“Quando durante la giornata sono stato preoccupato o  triste, per calmarmi di solito cerco di ripensare ai periodi felici dell’infanzia. E così feci anche quella sera…”. Questo è l’incipit della sequenza conclusiva de Il posto delle fragole, del 1957, diretto da Ingmar Bergman, profonda riflessione sul percorso terreno del protagonista, Isak Borg, il quale, in un catartico sogno finale, inneggia alla vita, esortando a carpirne la bellezza attraverso la trama non sempre perfetta di presente e passato, potenziale e attuale, possibile e realizzato.

Gli angosciosi pensieri del dottor Borg si placano nel finale e le inquietanti vibrazioni dell’opera, che hanno scandito un irto cammino di conversione e cambiamento, si stemperano in un sogno finalmente sereno e fiabesco, in cui prende forma un paesaggio meraviglioso, immerso nella quiete del tempo trascorso, animato dalla presenza dei genitori dell’anziano protagonista, che, riapprodati al vigore della gioventù, dalle rive di un luccicante laghetto, lo salutano gioiosamente. I tormentosi affanni si diluiscono in quel tipo di sogno in cui si svelano il ritorno al passato, “la disincarnazione, la trasmigrazione delle anime, l’evocazione delle morti, le illusioni della pazzia, la regressione verso i regni più elementari della natura […], tutti quei misteri che crediamo di non conoscere, ai quali siamo in realtà iniziati quasi tutte le notti così come all’altro grande mistero dell’annientamento e della resurrezione” (Proust, pp. 194-195). 

Dall’amara consapevolezza dell’impossibilità di ricomporre l’infranto prende forma il desiderio di poter riaprire la vecchia dimora di famiglia, grazie al palpitante ricordo del rigoglioso boschetto che circondava l’abitazione, di poterne percepire le vivaci presenze che un tempo la popolarono e volgere finalmente lo sguardo verso l’incanto smarrito, riavvertendo magicamente l’inebriante profumo delle fragole, reimmergendosi nelle atmosfere rarefatte dei giorni ormai dissolti e confidando nella circolarità di un percorso che, nonostante le avversità, comunque finirà per ricondurre a casa propria

Il vecchio medico, prima di addormentarsi tranquillamente, forse per l’ultima volta, e provare l’infinita beatitudine regalata dal confortante sogno, aveva iniziato un tragitto a ritroso nel tempo, rivisitando i luoghi della memoria e ripensando a quegli accadimenti affettivi che avevano scatenato egoismo e distacco. Aveva intrapreso un viaggio tra le immagini intese come ricordi dell’assenza, che, alla fine, gli offriranno l’occasione per pentimenti ed espiazioni e lo aiuteranno a ritrovare quel che resta della sua umanità. Al termine della sofferta ricerca del tempo perduto, dispiegata attraverso il racconto, il protagonista giunge al limite della finitudine, ancorandosi a una più compassionevole visione del mondo, recuperando la preziosità dell’innocenza e abbandonando l’oscurità della misantropia. Si insinua nell’intimità di quel tempo altro, dove i giorni remoti riprendono ad esistere, salvi in lui, e lo richiamano alla realtà da cui si era allontanato, mentre coltivava le folli speranze dell’attesa quotidiana e disegnava il grafico della vita.

Le fragole, che simboleggiano la primavera, rappresentano nostalgicamente la stagione dell’allegria e della felicità, ma anche le possibilità mancate dei ricordi, che nel film, però, rifioriscono grazie alle potenzialità delle gaie e spensierate esistenze dei giovani compagni di viaggio e dell’amore che unisce il figlio di Isak alla leggiadra Marianne, che presto darà origine a una nuova vita. Il posto delle fragole è il regno incantato della fanciullezza, dell’autenticità e delle proiezioni che illuminano il futuro, e che, una volta ritrovato, condurrà alle radici della propria coscienza e all’unica via che consente di raggiungere la redenzione, la comunanza caritatevole degli affetti, la condivisione empatica dell’amore.

L’insieme delle inquadrature finali della pellicola contiene in nuce le tematiche più rilevanti dell’opera di Bergman, delle componenti filosofiche della sua poetica, configurandosi come una sorta di manifesto della sua creazione artistica, continuamente oscillante tra eros e thanatos, passione e annichilimento, anelito e disillusione. Ripercorrendo, grazie a suggestive rappresentazioni oniriche, l’esistenza di un uomo ormai prossimo alla morte, Il posto delle fragole, “film complesso, fra i maggiori del regista, dove lo stile elaborato e nuovo si fa forma e sostanza di un grande e profondo romanzo psicologico” (Rondolino, p. 103), si rivela una lucida meditazione sulla costitutiva precarietà della vita e sulla dimensione autentica dell’ex-sistere, l’essere dell’uomo come essere tra gli altri.

Ispirandosi alla tradizione letteraria nordica, al teatro strindberghiano, alla filosofia kierkegaardiana, al protestantesimo, all’esistenzialismo, alla psicanalisi, ne Il posto delle fragole, Bergman offre una lezione sull’amore come salvezza e sulla presenza della morte nella vita, reinterpretata alla luce della dimensione comunicativa, nella quale concrescono il senso immanente a qualsiasi agire sociale e le verità soggettive costituenti l’immediatezza delle umane, puntiformi esistenze. I temi della memoria del tempo felice, di derivazione proustiana, e dello spaesamento del soggetto, di ispirazione kafkiana, la rappresentazione delle pulsioni istintuali rivissute attraverso l’esperienza del surrealismo, il realismo magico di matrice anglosassone e la rielaborazione dell’irrazionalismo nietzscheano si fondono in un amalgama che esprime le conflittualità di tipo esistenziale nonché le contraddizioni di ordine sociale, manifestando i reciproci riverberi tra i contrasti della coscienza individuale e la crisi dei valori borghesi. La visualizzazione di un discorso profondo e articolato, che, attraverso la meditazione lucida sulla vita e l’osservazione impietosa dei rapporti umani, va dalla denuncia sociale alla critica di costume, all’indagine comportamentale, si offre a svariate interpretazioni, prospettando molteplici soluzioni stilistiche, che hanno vivacemente sollecitato il dibattito sul linguaggio cinematografico e sulle sue valenze semiologiche. Nella descrizione dell’ultimo, liberatorio sogno di Borg, il corposo stile bergmaniano appare in tutta la sua potenza e domina, con ineludibile maestria, il mezzo espressivo, intrecciando realismo ed espressionismo onirico nella coerente unità espressiva di una fertile produzione segnata dal naturalismo della scuola cinematografica svedese e dal realismo di quella francese degli anni Trenta. 

Le immagini conclusive de Il posto delle fragole costituiscono emblematicamente l’espressione delle forme di vita che esistono nell’attimo, fugacissimo e irripetibile, e si stagliano sull’orizzonte di un cinema dell’istante, che scaturisce da una riflessione sul presente dei personaggi, frammentando la durata, puntando la macchina da presa sul succedersi degli eventi al di là di un orizzonte temporale preciso, permettendo un’“individuazione – astorica – dei problemi dell’individuo all’interno d’una collettività intesa come semplice somma di esperienze individuali” (ibidem, p. 97). Quel sogno racconta la storia di un uomo che avverte con scoramento il vuoto dell’esistenza, ma che infine recupera l’essenza valoriale di un agire ispirato a principi ineludibili, non essendo riuscito a placare l’ansia di infinito nei confini della singolarità insufficiente a se stessa. Suggerisce come il soggetto, categoria attraverso la quale scorrono il tempo, la storia e l’umanità, sia richiamato dalla coscienza a un appassionato coesistere, a un’individualità dipanata nella socialità, a una soggettività che dispiega le proprie potenzialità nella collettività. 

La fine del tempo, già espressa metaforicamente, in altre sequenze del film, da orologi senza lancette, si rivela, in particolare, in quel paesaggio sognato negli attimi finali, animato da una tenerezza irresistibile, cosparso di una malinconia diffusa, avvolto da una nostalgia struggente, che suggerisce il valore definitivo attribuito a un’esistenza fino a quel momento votata all’inesorabile solitudine. Quest’ultima, resa, forse, ancor più radicale dallo scontrarsi – obbligato dalla professione di medico esercitata da Isak – con un’umanità sofferente e spesso in trepidante attesa di un’impossibile guarigione, spinge il protagonista a riflettere, con analitico raziocinio, sulla coesistenza degli opposti e sull’efferatezza delle contraddizioni, e a riconoscere, infine, la dissoluzione del conflitto tra la nascita e la morte, dopo aver abbandonato il tempo fermo e le ore senza nome di giornate trascorse a credere nell’equivoco di potersi fidare solo di se stesso, illudendosi così di sopravvivere ad ogni tradimento della realtà.  

L’attimo dello svelamento, qui come altrove nella parabola creativa bergmaniana, inducendo a cogliere le tenui sfumature sottese alle immagini, consente allo spettatore di intravedere universi ignoti oltre il mondo esperito di consueto, di ricercare lo spessore metafisico della vita, dove il pensiero diventa ossessivo nella spasmodica ricerca di un assoluto forse inesistente, nella dolorosa riflessione critica e problematica sulla solitudine come principio e fine dell’umano itinerario. L’attenzione non può non concentrarsi sul mostrarsi del protagonista “nella ‘nudità’ del suo essere, sulla sua identificazione di personaggio e di uomo, di finzione e di realtà, come veicolo trainante d’un discorso sul cinema che ne mette in rilievo la manifesta falsità e al tempo stesso la suggestione, ed anche – come punto d’arrivo della vicenda spettacolare – il potere di rivelazione del reale, di un suo smascheramento al di là delle convenzioni sociali e dei meccanismi della rappresentazione” (ibidem). Catturato dalla drammaticità espressiva dell’attore Victor Sjöström, un’icona del cinema svedese, dall’intensa tragicità del suo stanco sguardo, dall’insicurezza del suo desideroso incedere, dalla pregnanza di quelle immagini risolutive e dalla loro polivalenza semantica, lo spettatore viene scosso dalle questioni generate dalle mancate risposte filosofiche riguardanti il destino dell’essere umano. 

La forza tragica dei quesiti sull’assoluto, ingenerata da inesplicabili aporie, insorge ed esercita il suo imperio. L’angoscia e la disperazione appaiono elementi fondamentali dell’esistenza: sia l’una, sentimento del possibile, stato d’animo che affiora di fronte alla vertigine della libertà e alle sue infinite potenzialità, sia l’altra, autentica malattia mortale che dà origine al vivere la fine dell’Io, appaiono volute, e il soggetto, riconoscendosi in preda a esse, può volgersi alla ricerca di una forma di salvezza. Bergman mette in scena la disperazione finita, che deriva dalla perdita di beni mondani, e la disperazione infinita di individui sradicati, che sortisce dalla loro carenza esistenziale, e, pur nell’intima convinzione che l’uomo agogni la propria disperazione, bramandola in modo totale, assoluto, fagocitante, sembra risolvere in una sintesi conciliatrice di tipo dialettico gli stadi di una vita, nonostante la transizione dall’uno all’altro abbia segnato rotture irrimediabili.

L’ossessivo rigore che percorre l’analisi del groviglio della psiche e dell’esperienza dell’individuo, fulcro della speculazione filosofica e narrativa del regista, traducendo in arte il non-senso della vita, si scioglie in segni complessi, nodi di significazioni plurime, nel mondo fantastico di calda luminosità e di fresche ombre disegnate sulle distese erbose riprese da un artista che, come sembra aver confidato con candore, ha continuamente ridischiuso le porte fatate della propria infanzia, girovagato nella mistica penombra del passato, passeggiato per le silenziose vie di Uppsala, dove nacque, e abitato la trasparenza del proprio sogno infinito, facendo, di tanto in tanto, una rapida incursione nella gravosa opacità della realtà.

 


 

LETTURE

× Proust M., A l’ombre des jeunes filles en fleurs, II, 1919, All’ombra delle fanciulle in fiore, II, Fabbri, Milano, 1996.

× Ferrero A. (a cura di), Storia del cinema. Autori e tendenze negli anni cinquanta e sessanta, Marsilio, Venezia, 1978.

× Rondolino G., La fortuna di Ingmar Bergman, in Ferrero A. (a cura di).