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FURYO (Senjo No Merry Christmas)
è un film del 1983 diretto da Nagisa Oshima

TRAMA
In un campo di concentramento giapponese a Giava, nel 1942, il comandante Yonoi, frustrato per non essere al fronte a morire per l’imperatore, non riesce a combattere il fascino che esercita su di lui l’ufficiale inglese Jack Celliers. Raccontato in maniera corale attraverso i drammi e le angosce dei prigionieri e dei soldati giapponesi, scandito nel dialogo dall’ossessiva citazione dei paragrafi del regolamento militare, il film diventa così un’intensa ed emozionante riflessione sull’irrazionalità della guerra e delle passioni, sulle contraddizioni della storie e dell’educazione, sulla ferocia e l’insensatezza della giustizia.
 
da Il Mereghetti. Dizionario dei film 2011,
di Paolo Mereghetti, Dalai Editore, Milano, 2010.

FURYO

regia di Nagisa Oshima

di Sergio Brancato


Nessuna scena può essere davvero astratta dal contesto narrativo del film di cui è parte, e che contribuisce a “tessere”, né dal contesto narrativo della biografia del suo spettatore. La dimensione emotiva di una determinata sequenza di immagini e suoni, dunque, appartiene tanto alla storia in sé – all’economia sentimentale dell’intreccio, allo statuto espressivo dell’opera – quanto alla storia del soggetto che ne gode. È quindi difficile dire perché una scena e non un’altra ci venga in mente quando elaboriamo una qualsiasi esperienza del quotidiano ricorrendo ai magazzini generali della memoria, oppure quando ti viene rivolta la domanda: “quale scena di film ti è rimasta più impressa?”. Un quesito – e un gioco – da cinefili, ovvero interno a una comunità che trova sempre più difficile definire se stessa nell’ambito di una trasformazione globale delle culture della comunicazione e delle loro “sensibilità”.
A questa domanda rispondo, nella presente circostanza, proponendo la scena finale di Furyo (Merry Christmas Mr. Lawrence), straordinario film sull’ambivalenza di Nagisa Oshima, regista giapponese attivo fin dalla fine degli anni Cinquanta, considerato – con i suoi Racconto crudele della giovinezza, Il cimitero del sole, Notte e nebbia del Giappone, tutti del 1960 – uno dei fondatori del nuovo cinema giapponese, divenuto famoso e famigerato (questione di punti di vista) con la sua pellicola del 1975 Ecco l’impero dei sensi, un’opera crudele sul nesso inscindibile tra eros e thanatos (ancora ambivalenze), che rivoluzionò il sistema di regole del cinema sulla rappresentazione della nudità e dell’atto sessuale, l’indicibilità e la costante rimozione della copula. 
Ovviamente quella di Merry Christmas Mr. Lawrence è una risposta opinabile, una scelta random nella sterminata galleria di scene che popolano la personale immaginazione di ogni soggetto cinematografico. Fa parte meno di altre di quella sfera collettiva dell’immaginario in cui siamo portati a riconoscerci attraverso la condivisione di scene come la corsa delle bighe in Ben Hur, l’inseguimento della diligenza in Ombre rosse, la battaglia sui ghiacci dell’Alexandr Nevskij, lo scontro finale de Il sorpasso, la fuga e la morte di Belmondo in A bout de soufle. Tutte opere, queste citate, che riconduciamo a tre decenni (gli anni Trenta, i Cinquanta e i Sessanta) nevralgici per lo sviluppo delle culture cinematografiche. Tutte scene che rimandano a un “movimento” (movie is action, diceva Howard Hawks) verso qualcosa, la fuga in avanti verso una nuova condizione dello sguardo e dello stesso pensiero cinematografico.
Perché, allora, preferirla ad altre, ad esempio al celebre e citatissimo monologo di Roy Batty in Blade Runner? Quella di Ridley Scott è senz’altro una pellicola più importante, più largamente condivisa ed entrata a far parte delle mitologie dell’oggi grazie alla sua capacità di restituire sul piano dei processi dell’immaginario il senso profondo delle trasformazioni in atto nella società degli anni Ottanta. Ma gli anni Ottanta sono anche quelli raccontati, per molti versi, dal film di Oshima, uscito appena un anno dopo. Il registro espressivo è completamente altro: dal futuro prossimo del cacciatore di replicanti Rick Deckard, ambientato nella Los Angeles del 2019, ci si sposta indietro nel tempo della Seconda Guerra Mondiale, in un campo di prigionia dell’isola di Giava nel 1942. A capo dei feroci, “incomprensibili” secondini giapponesi c’è il giovane e aristocratico capitano Yonoi (Ryuiki Sakamoto), coadiuvato dal rozzo sergente Hara (Takeshi Kitano). L’ufficiale di collegamento dei prigionieri britannici è il colonnello John Lawrence (Tom Conti), un uomo sensibile e colto, appassionato di culture orientali, espressione di un occidente moderno e aperto alla dimensione dell’altro, e che subito riconosce al suo arrivo nel campo il nuovo prigioniero, il maggiore Jack Celliers, detto “Raffica Jack” (David Bowie), suo vecchio commilitone e ardimentoso quanto irriducibile combattente.

 

Arresosi alle truppe imperiali per evitare rappresaglie sulla popolazione locale, Celliers è stato salvato dalla fucilazione proprio dal capitano Yonoi, colpito dal coraggio e dal senso dell’onore dell’inglese. Ma le motivazioni dell’ufficiale nipponico – personaggio tragico alla Mishima, in apparenza ispirato al tenente Shinji Takeyama del racconto Patriottismo (Mishima, 2009) – si rivelano ben presto più profonde e morbose, agganciandosi a uno dei temi portanti del film (e del romanzo autobiografico cui è ispirato, The seed and the sower dello scrittore sudafricano Laurens van der Post), quello dell’omosessualità in un contesto di prigionia. L’attrazione fra Yonoi e Celliers è costantemente sottolineata dalla struggente colonna sonora dello stesso Sakamoto, una star della scena internazionale pop-rock del decennio, che qui si ispira a toni lirici dal sapore pucciniano. Malgrado la disperata mediazione di Lawrence, che tenta di stabilire un contatto tra le due culture in conflitto, la vicenda delle due comunità del campo precipita verso un finale melò che non sarebbe dispiaciuto a Douglas Sirk: la celebre scena del bacio in ralentie (come quello, ben diverso ma anch’esso sottilmente inquietante, tra James Stewart e Grace Kelly ne La finestra sul cortile di Hitchcock) tra Bowie e Sakamoto, divenuto un’icona del cinema gay che proprio negli anni Ottanta acquistava statuti di legittimità espliciti e di larga diffusione, con l’affermazione di divi gay come Rupert Everett e di registi votati a una poetica postmoderna dell’omosessualità come Pedro Almodovar.

 

La scena che qui viene proposta, tuttavia, è quella che chiude il film. Sono passati quattro anni (ora è il 1946) e la guerra è finita, anche se ha lasciato dietro di sé gli strascichi della propria irrisolutezza, l’impossibilità di essere veramente terminata. Non c’è più la giungla, scenario simile a quello de Il ponte sul fiume Kwai, modello immaginario del 1957 diretto da David Lean, altro grande film antimilitarista, anticipatore – ma ancora con i limiti dello sguardo dell’occidente – della pellicola di Oshima. La scena, risolutiva, dura poco: sei minuti circa in un interno, una cella in cui è rinchiuso il sergente Hara, quel Takeshi Kitano che nel 1983 ci era ancora ignoto e che sarebbe poi diventato uno dei più celebrati filmaker nipponici degli ultimi trent’anni. Il colonnello Lawrence va a trovarlo la sera prima della sua esecuzione, prevista per l’alba del giorno dopo. I ruoli sono ora radicalmente rovesciati, l’aguzzino è legato all’altare simbolico della vittima sacrificale. Lawrence, che aveva stabilito con Hara un rapporto umano difficile ma profondo, è chiaramente dispiaciuto per la condanna del suo ex aguzzino. Al quale deve la vita, poiché Hara – ubriaco – nel giorno della natività del 1942 aveva salvato dalla morte lui e Celliers, contravvenendo gli ordini di Yonoi per giocare a fare Babbo Natale.
La sceneggiatura di questa scena è semplice, lineare. Ma formidabile nella sua qualità evocativa, nella capacità emotiva di chiudere il cerchio della narrazione. Alle sue spalle abbiamo l’intero film, con i suoi atti di atroce violenza (tre scene di seppuku, il rituale suicidio giapponese con auto-sventramento e decapitazione), la sua coreografia dell’amore “proibito”, il suo conflitto di culture (oriente/occidente, tradizione/modernità, individuo/conformità), l’arbitrio del potere, la crudeltà dei sentimenti. Un racconto aspro ma sostenuto, per contrasto, da una colonna sonora estremamente dolce, che sottolinea le erotiche pulsioni di Yonoi come il senso di colpa che rende Celliers ciò che è. Lawrence conversa con Hara, che ricorda malinconico i giorni del campo di concentramento e, in fondo, non capisce perché debba morire. Il giapponese credeva di essere nel giusto, di essersi comportato da soldato. Lawrence commenta amaro che nessuno è nel giusto, come proprio quella guerra dimostra. È una battuta che apre la sfida della complessità e segna la fine definitiva dell’eroismo, dell’epica intesa come modalità narrativa in grado di dare un significato al mondo delle soggettività storiche, dunque del meccanismo del war-movie che così intimamente ha informato delle proprie logiche lo sviluppo del cinema e della società di massa.
Oshima ci dice che non c’è risposta alle domande che la modernità ha posto finora agli individui per costruire la possibilità di un “senso” dell’esistenza dentro l’orizzonte residuo dell’Umanesimo. I conflitti di cui è tessuta la trama di questo film lasciano intravedere l’inevitabilità del superamento antropologico del Moderno. È un saluto all’uomo così come è stato immaginato dalla letteratura, dalle arti, dalle filosofie. Un saluto che si condensa, forte come lo schianto di un’improvvisa consapevolezza, nel faccione in primissimo piano di Takeshi Kitano – ormai morto nell’ineluttabilità della sua condanna – che richiama Lawrence sospeso sull’uscio della cella e gli grida sorridendo, così come aveva fatto quattro anni prima, “buon Natale, mr. Lawrence… buon Natale!

 


 

LETTURE

× Mishima Y., Manatsu no shi, 1952, Morte di mezza estate, Guanda, Milano, 2009.

× Van der Post L., The Seed and the Sower, 1963, Vintage Classics, 2002.