I tratti di un altro Faust,
quelli tipici dell’anti eroe

Nikolaus Lenau
Faust
Traduzione di Alberto Cattoi

Carbonio, Milano, 2022
pp. 264, € 16,00

Nikolaus Lenau
Faust
Traduzione di Alberto Cattoi

Carbonio, Milano, 2022
pp. 264, € 16,00


Inesauribile fonte di variazioni sul tema, il mito di Faust si aggira da secoli per l’Europa radicato in tutta la cultura occidentale. A far da spartiacque tra le leggende e le riletture della prima ora (il patto col diavolo è un tema che affiora da più parti nella letteratura latina medievale e nelle letterature romanze) da un lato, e le interpretazioni della modernità dall’altro, si erge ormai da duecento anni il poema goethiano.
Tutto prese il via con La tragica storia del dottor Faust, il testo teatrale di Christopher Marlowe che aveva per fonte un personaggio storico documentato nel Das Faustbuch, cioè la Historia von D. Johann Fausten pubblicata a Francoforte nel 1587 dallo stampatore Johann Spies. È la carta d’identità di Faust: umanista, mago, medico e alchimista, avventuriero e philosophus philosophorum. Si dice che fosse nato a Knittlingen nel Wurttenberg intorno al 1480, ma di certo non c’è nulla. Fatto sta che quei vaghi cenni biografici sono stati sufficienti per donare la vita al mito facendolo fiorire in lungo e in largo, come ha documentato lo germanista Hans Henning nella sua bibliografia sulla figura di Faust censendo centinaia di versioni del mito nella sola letteratura tedesca dopo Goethe.

Le immagini che corredano quest’articolo provengono dalla messa in scena dell’opera Lunea di Heinz Holliger.

La letteratura è tornata ripetutamente sul tema finanche nella fantascienza, ma dalla musica al teatro e alla pittura, dal cinema muto al sonoro, Faust si è ritagliato un ruolo da protagonista in molteplici forme d’arte. In particolare, il patto diabolico è stato siglato più e più volte sul grande schermo, sin dalle origini della settima arte, dal 1897 con un Faust and Mephistopheles girato da George Albert Smith, di cui si sono conservate soltanto due scene per un totale di un minuto e oggi anche la filmografia a lui dedicata formerebbe un volume robusto come quello di Henning. Eppure tutt’oggi come già ai tempi di Goethe risuona attuale quanto affermò Achim von Arnim già nel 1818: “Non abbiamo scritto ancora abbastanza Faust” (von Arnim, 1992). Una considerazione fatta propria soprattutto dal cinema, come si è detto, che ha rivoltato come un guanto la vicenda, privilegiando la storia goethiana. Quel modello indiscutibile però non è sempre stato rispettato e tra le versioni che se ne distanziano spicca la rilettura del mito che ne fece Nikolaus Lenau con un poema composto da ventiquattro quadri in versi liberi, scritto tra il 1833 e il 1835, che ribaltava il personaggio immaginato da Goethe, disegnando un nuovo Faust prigioniero di un dolore cosmico e in rivolta contro il Dio redentore ma restio a cedere definitivamente (e illusoriamente) alla tentazione mefistofelica; un personaggio ossessionato dalla ricerca delle verità ultime, ma attratto inesorabilmente verso il nulla. Il Faust di Lenau è tornato in libreria con Carbonio, in un’edizione con testo a fronte che riedita e in parte attualizza quella dell’editore Marietti a cura di Alberto Cattoi del 1985, dunque oramai introvabile. Un volume che va ad arricchire la preziosa collana Origine.

Lenau era un romantico sin dall’aspetto, come appare nei ritratti, scarmigliato, carnagione pallida da farlo parere esangue, sguardo malinconico, spaurito, un “martire della poesia” come lo definì Vincenzo Errante, uno dei primi studiosi italiani della sua opera e traduttore del Faust negli anni Venti del secolo scorso. Un outsider, come ribadisce Cattoi nella sua introduzione al volume di Carbonio, al quale tutto andava stretto, tanto la quietudine del Bierdmeier all’ombra della politica del Metternich, quanto l’insorgente realismo in letteratura. Quello di Lenau è uno smarrimento e un senso doloroso di solitudine di fronte al silenzio e alla vastità dell’universo; un sentimento affine a quello leopardiano, una corrispondenza opportunamente sottolineata da Cattoi. Malessere esistenziale inciso in profondità nel suo Faust.
Nikolaus Lenau era in realtà un pseudonimo, il giovane e inquieto poeta si chiamava Franz Nikolaus Niembsch. Era nato il 13 agosto 1802 a Csatád nel Banato, un territorio all’epoca ungherese, facente parte dell’impero asburgico, ma appartenente oggi alla Romania. Lenau fu da subito insofferente e insoddisfatto, ribelle, cambiò più volte l’indirizzo dei suoi studi. Scrivere versi era già una necessità urgente e cogente. Mollò tutto e andò negli Stati Uniti d’America, giovani e ancora vergini, girovagando alla ricerca di suggestioni, ispirazione e anche di fortuna, comprando un terreno per farlo fruttare ma fu un fallimento. È al ritorno in Europa che prende a vivere della sua penna, immerso appieno nel clima intellettuale del tempo, respirando a pieni polmoni l’aria romantica e pre-rivoluzionaria che soffiava ovunque. Iniziò a scrivere Faust poco dopo il suo ritorno in patria nell’ottobre-novembre 1833; la prima scena scritta fu quella del patto con il diavolo (Die Verschreibung). Una prima versione dell’opera venne completata nel 1836, una seconda, rivista e ampliata dall’autore, nel 1840 ed è su quest’ultima che si basano le edizioni moderne.

Il modello su cui strutturò la sua opera è per opinione condivisa quella del Manfred di George Gordon Byron, tant’è che viene presentato anch’esso come “poema drammatico”, mescolando allo stesso modo parti liriche, drammatiche ed epiche, situazioni teatrali, dialoghi serrati e momenti satirici. Alla trama degli eventi va sovrapposta quella delle relazioni sentimentali, non poche ed eterogenee: vicende passionali e intrecci sentimentali finanche platonici, in ogni caso tutte in qualche modo coinvolgenti e fallimentari. Il mondo non offre alcuna certezza, con il silenzio di Dio perdono di senso e di autorità i principi che guidano il mondo, ma soprattutto si sfaldano le certezze delle esistenze singole. In questo senso la vita di Lenau mostra una fine sintonia con la sensibilità contemporanea. Non a caso qualche anno fa il compositore e musicista svizzero Heinz Holliger ha composto un ciclo di canzoni per baritono e pianoforte divenuto poi il nucleo addirittura di un’opera dedicata alla vita del poeta il cui titolo è l’anagramma del cognome: Lunea. Un lavoro la cui prima si è tenuta all’Opera di Zurigo nel 2018 che ripercorre come in sogno, senza badare allo svolgimento cronologico dei fatti, i momenti salienti della sua esistenza, focalizzandosi proprio sul ruolo svolto dalle tante donne della sua vita basandosi su alcuni frammenti scritti nei suoi ultimi anni di vita segnati da demenza e internamento.

Follia, amore, fragilità, affannosa e vana ricerca di un senso nella vita: una figura che si direbbe postmoderna per il suo continuo inseguire verità che mentre paiono sul punto di rivelarsi, di farsi autentiche, si sbriciolano. Lenau lo si direbbe un fabbricante di fallimenti. Dopo Faust, Lunau concepì un secondo poema, ancor più debitore per certi versi dell’opera di Byron: Don Juan, rimasto incompiuto (ne scrisse sedici capitoli) e nel 1843 un secondo ciclo lirico, i Waldlieder (canti del bosco) dopo il precedente Schilflieder (canti dei giunchi) datato 1832. “Amo questo mite morire” si legge nel nono e ultimo canto dell’ultima raccolta e in qualche modo il poeta avvertì il suo destino. Fu colpito da un ictus e in seguito la sua mente smarrì la rotta. Venne infine ricoverato a Oberdöbling, presso Vienna, dove morì il 22 agosto del 1850. Questo sommario ritratto trova corrispondenze nel suo poema drammatico scritto senza alcun timore reverenziale nei confronti del capolavoro goethiano, anzi. In una lettera datata undici novembre 1833 inviata all’amico Georg Reinbeck (riportata nell’introduzione di Cattoi) si dichiarò pronto alla sfida poetica in questi termini:

“L’idea che Goethe ha già scritto un Faust non può spaventarmi. Faust è un comune possesso dell’umanità, non un monopolio di Goethe. Non si dovrebbe, allora, scrivere più alcuna poesia sulla luna, perché questo o quel grande poeta l’ha già fatto?”.

Ne saltò fuori un personaggio di straordinaria (post)modernità, dalla personalità instabile, solitario e infelice, impossibilitato a relazionarsi con i sui simili e soprattutto incapace di credere in Dio, ovvero di fornire alla propria esistenza solide fondamenta. Una simile condizione non può che obbligare alla fuga perenne dall’insoddisfazione. Il Faust di Lenau è tutt’altro che un’opera mondo come quella di Goethe, è una lucida ricognizione nel profondo di una coscienza che va in frantumi nel tentativo di pervenire a una qualsivoglia verità. Sin dalle prime battute si comprende sia la distanza con gli eventi narrati da Goethe, sia il differente profilo faustiano. Il poema si apre mostrandoci Faust impegnato a raggiungere la vetta di una montagna agitato dal desiderio di penetrare e di svelare il mistero della Creazione. Dove cercare se non inoltrandosi nella natura selvaggia? (Lenau ci aveva provato negli Usa fallendo, ora il testimone passa a Faust che ci riprova). È l’alba, giù in basso alcuni viandanti si dirigono in chiesa, non lui: “Sento che in me si sta spezzando l’ultimo filo di fede”, declama. Faust cerca una nuova verità: “voglio sottrarmi alla notte dello spirito!”, esclama, ma in quel momento una pietra scivola, l’appoggio viene meno facendolo precipitare. Per sua fortuna c’è qualcuno lì intorno ad afferrargli un braccio e salvarlo dalla caduta a precipizio nell’abisso. Il salvatore che veste i panni di un cacciatore è Mefistofele. Faust fa a tempo a intravvederne l’aspetto cupo prima che questi sparisca.
Nella seconda scena siamo nell’anfiteatro anatomico della sua facoltà (Faust è un medico, come tentò di esserlo Lenau). È intento a sezionare un cadavere in compagnia del suo assistente Wagner (la tradizione resiste: il nome di costui è lo stesso adoperato da Goethe e da Marlowe). Qui Lenau mette subito a nudo il tormento di Faust, viviseziona a sua volta l’anima del personaggio che dopo aver fallito sulla montagna cerca di carpire le verità ultime da quel corpo senza vita.

“Spesso, durante le mie lunghe notti di studio trascorse
Con la sola compagnia di cadaveri silenziosi,
Ho cercato di decifrare e seguire le tracce della vita
Attraverso l’intrico ingegnoso dei nervi”.

Vana ricerca come si leggerà nella scena seguente: “Ditemi: cos’è la morte? Cos’è la vita? Io non trovo risposta”. È qui Lenau si spinse fino ai nostri giorni, affrontando anzitempo il più attuale dei dibattiti riguardo alle cosiddette grandi domande: per quali motivi esiste qualcosa anziché il tutto e in che modo è nata la vita, questa “barocca stravaganza” come l’ha definita lo scienziato nonché scrittore Richard Dawkins. Perché, nonostante oltre un secolo e mezzo di scoperte scientifiche rispetto ai tempi di Lenau, un lasso di tempo che ci ha consentito di sapere cosa sono le cellule, cos’è il dna e l’espressione genica, il funzionamento dell’evoluzione, il passaggio della vita dalle prime forme elementari fino alla complessa biodiversità che caratterizza la Terra, così come in campo astrofisico si è giunti a ricostruire l’evoluzione dell’universo a partire dalle prime frazioni di secondo, perché ci interroghiamo ancora, come il Faust di Lenau, ponendoci la grande domanda fondamentale: com’è nata la vita?
Qui si cela forse l’aspetto di maggior attualità, anzi di inattualità, del poema, ciò che lo rende ancora capace di interrogarci e di continuare a fallire. Faust cercò di risparmiarsi il tormento d’interrogarsi senza sosta stipulando il patto con Mefistofele e siglando in realtà la sua dannazione. Da quel momento, Faust si imbarcherà in avventure erotiche, abbandonerà la vita accademica, commetterà omicidi, condurrà a vite miserabili coloro che lo frequentano, diventerà un’artista famoso (“È un noto maestro nell’arte della pittura”), tormentato da dubbi, rimorsi, allucinazioni:

“Tutte le cose che mi procuravano gioia,
Le cose che non volevo perdere a nessun costo,
Tutti i piaceri della terra e tutti i suoi dolori,
Io li ho inabissati e sepolti in fondo al mare”.

Oramai ha rinnegato tutti i valori insegnatogli dalla madre sulla cui tomba si sofferma senza trarne il necessario sollievo.

“Quei cespugli che erano così verdi,
Si ergono secchi e spogli, toccati
Dal vento freddo dell’autunno;
Allo stesso modo, madre mia, sono sfiorite tutte le speranze
Che nutrivi per tuo figlio.
Mentre tu imputridivi qui nel silenzio della terra
E diventavi polvere,
In me è divampato il male
Che mi ha reso suo schiavo!”.

Intraprenderà un viaggio in mare, ma la nave si imbatterà in una tempesta e in pochi sopravviveranno. Tra questi il marinaio Grog che con stupefacente concretezza gli illustrerà il suo credo materialista e ateo “Io non prego mai, io non ho niente da chiedere; finche va, va; poi che vada tutto al diavolo! […] Io non prego mai, e di conseguenza non bestemmio mai”. Al termine, Faust si lancia in una sorta di delirio spinozista, crede di essere stato unito e di conseguenza identico a Dio da tutta l’eternità. In quel momento si distacca schizofrenicamente da Faust, che non gli appare più come il suo vero io, anzi lui (Faust), Mefistofele e il patto gli appaiono soltanto come sogni di questo nuovo Io:

“Io sono intimamente legato
A Dio, e questo da sempre;
Io sono una cosa sola con lui
E Faust non è il mio vero io.
Il Faust che si occupava di ricerche
E che ha concluso il patto con il diavolo
[…] Io sono un sogno fatto di piacere, di colpa e di dolore”.

In questo sognarsi, Faust si pugnala, ma non basta per far saltare il patto, si tratta di un vero suicidio e la cosa non sfugge a Mefistofele, che alfine gongola. L’anti eroe Faust termina la sua vana fuga e il diabolico inesorabile inseguimento si conclude. Non c’è salvezza, non ci sono risposte, nulla scalfisce l’indifferenza del mondo e la prosperità del male. A noi restano pagine ancora vitali, la sensazione che le ragion d’essere del mito siano tuttora solide e il malessere di sentirsi così stranamente vicini a Faust.

Ascolti
  • Heinz Holliger, Lunea, Ecm. 2022.
Letture
  • Achim von Arnim, Schriften, a cura di Roswitha Burwick, Jürgen Knaack, Hermann F. Weiss, Frankfurt a. M., Deutscher Klassikcr Verlag, 1992.