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Le parole di uno dei più celebri divulgatori dell’evoluzionismo, il controverso scienziato e scrittore Richard Dawkins, rendono giustizia più di molte altre al grande problema della vita. In uno dei suoi primi libri, Il fiume della vita, Dawkins definiva la vita una “barocca stravaganza”. È barocca perché, su questo nostro piccolo pianeta, ha assunto le forme più diverse, eccentriche, versatili, ha riempito tutte le nicchie, ha prodotto spesso orpelli che l’evoluzione ha reso inutili come ombrelli in un deserto, per esempio la nostra appendice o i denti del giudizio. È stravagante perché sfugge alla logica rigorosa che invece descrive tutto il resto della natura e regola il nostro universo. Sui misteri della vita oggi ne sappiamo moltissimo. Sappiamo cosa sono le cellule, cos’è il DNA e l’espressione genica, abbiamo appreso il funzionamento dell’evoluzione e siamo riusciti a ricostruire l’evoluzione della vita dalle prime forme elementari fino alla complessa biodiversità che riempie oggi la Terra. Eppure, così come nello studio dell’universo, pur riuscendo a ricostruire tutta la sua evoluzione a partire dalle prime frazioni di secondo, ma senza poter squarciare il velo della singolarità costituita dal Big Bang, analogamente non siamo ancora in grado di capire il segreto del Big Bang della vita, di rispondere alla grande domanda fondamentale: com’è nata? Non ci siamo spinti molto oltre quell’evocativa intuizione che Charles Darwin butto lì in una lettera a un suo amico, di un “caldo piccolo stagno” (a warm little pond) dove, ai primordi del tempo, sarebbe avvenuto il miracolo della nascita della vita. Un’ipotesi che negli anni Cinquanta del secolo scorso sembrò essere stata in parte dimostrata da un famosissimo esperimento, entrato in tutti i libri di testo, quello di Stanley Miller e Harold Urey: ricreando in un’ampolla le probabili condizioni di quel caldo e piccolo stagno della Terra primordiale, con un’atmosfera ricca di metano e ammoniaca, e sottoponendola a scariche elettriche in grado di simulare i fulmini, i due scienziati riuscirono a ottenere da composti inorganici degli amminoacidi le basi della vita, essendo questi gli elementi che costituiscono le proteine. Ma anche così, e anche dopo che le ricerche hanno dimostrato la presenza di amminoacidi e altre molecole organiche nelle nubi interstellari, resta un mistero il modo in cui da questi “mattoni” è stato possibile produrre le prime cellule e i primi organismi viventi unicellulari. Nonostante il Frankenstein di Mary Shelley, sappiamo che non basta mettere insieme pezzi di un essere umano e scariche elettriche per avere un individuo vivente. Resta quindi ancora una “singolarità”, un salto oltre il quale dallo stadio inanimato otteniamo la vita.
Talmente complesso, questo problema, che a studiarlo si è inserita in tempi recenti quella branca di frontiera della scienza rappresentata dallo studio dei “sistemi complessi”. La novità rivoluzionaria che essa ha rappresentato deriva dalla sua capacità di introdurre nello studio del mondo una nuova serie di strumenti matematici, la cosiddetta “matematica non lineare”, maggiormente in grado di comprendere il funzionamento di sistemi caotici. In epoca postmoderna la scienza dei sistemi complessi rappresenta il contributo postmoderno di una scienza che, inoltrandosi nel territorio inesplorato della natura, ha sentito il bisogno di piegare la rigorosa matematica lineare per adattarla a sistemi che non sono affatto lineari, dalla dinamica del clima ai fenomeni biologici. Uno dei concetti alla base della scienza della complessità è “l’emergenza”: la complessità è una proprietà emergente dall’insieme delle parti, non posseduta cioè dalle singole parti che compongono l’insieme. Mentre protoni e neutroni sono semplicemente l’insieme dei quark che li costituiscono, e un atomo è semplicemente l’insieme dei suoi protoni, neutroni ed elettroni, un essere vivente non è semplicemente l’insieme delle sue cellule. La “configurazione” di queste cellule, o ancor di più la configurazione dei geni all’interno del DNA, rende diverso ogni essere vivente. E anche così, continuiamo a non capire dove si trovi il pulsante di accensione della vita. Allora, la vita è un fenomeno emergente, che scaturisce allorquando la complessità del sistema ha superato una certa soglia. 
Esplorando questa concezione, gli scienziati si sono spinti a cercare di decifrare l’altro grande dilemma della vita, la coscienza. La filosofia e la scienza si sono arrovellate per secoli sul problema mente-cervello. Dopo essere stato per molto tempo oggetto della sola riflessione della filosofia (“cogito, ergo sum”), il problema della mente è passato in eredità alla scienza. Il classico Gödel, Escher, Bach di Douglas Hofstadter, pubblicato nel 1979, fu tra i primi a suggerire l’idea della coscienza come proprietà emergente. Partendo dall’analisi del “teorema di incompletezza” di Kurt Gödel, Hofstadter giungeva a dimostrare come la logica formale non si possa applicare allo studio della mente umana e dei suoi meccanismi. Hofstadter ha avuto il grande merito di aver portato all’attenzione del grande pubblico (il suo libro vinse anche il Pulitzer) la rivoluzione introdotta da Gödel e le sue estensioni nello studio del problema della coscienza e dell’intelligenza artificiale. 
La celebre “predizione” di Laplace, secondo la quale se esistesse un’intelligenza in grado di conoscere tutte le forze e gli oggetti dell’universo e calcolarne i movimenti, essa sarebbe in grado di predire con esattezza il futuro, veniva a cadere. In questa concezione meccanista, infatti, manca il termine principale: non il famoso Creatore che Napoleone sosteneva mancasse nel “sistema del mondo” di Laplace, sentendosi rispondere che di quell’ipotesi si poteva fare a meno; ma la vita e la coscienza, appunto: quelle barocche stravaganze che sfuggono all’analisi della matematica e tuttavia esistono e sono diffuse su tutto il nostro pianeta.
Le neuroscienze stanno vivendo oggi un’autentica età dell’oro nel loro impegno per rispondere alla grande domanda sulla coscienza umana. Progetti ambiziosi come lo Human Brain Project e il Blue Brain Project (il primo a guida europea e il secondo a guida americana), grazie a finanziamenti di miliardi di euro, stanno mettendo insieme la potenza di calcolo dei supercomputer e le ultime teorie sul funzionamento della mente per simulare un cervello umano e comprendere il modo in cui in esso emerge la coscienza. Secondo alcune scuole di pensiero, questi tentativi sono destinati a fallire: la simulazione di un cervello umano è impossibile, sostiene per esempio, tra gli altri, Roger Penrose. Proprio rifacendosi a Gödel, Penrose afferma che un computer non potrà mai emulare una mente: i computer, infatti, non sono in grado di risolvere problemi di logica non formale, mentre l’essere umano sì. Per tale motivo, secondo Penrose, non sarà mai possibile realizzare nemmeno un’intelligenza artificiale, grande sogno della modernità e della fantascienza. Di opinione contraria si è espresso invece nel suo ultimo libro, Il significato dell’esistenza umana, il celebre biologo Edward O. Wilson. Noto assertore della teoria del superorganismo, che egli ha applicato con successo allo studio degli insetti sociali e in particolare delle formiche, Wilson è convinto che i grandi progetti di ricerca sul cervello umano dimostreranno che la coscienza è una proprietà emergente prodotta dall’interazione tra le diverse componenti del cervello:

“Nel frattempo, il sistema nervoso può essere utilmente concepito come un superorganismo dotato di una magnifica organizzazione, fondato sulla divisione del lavoro e sulla specializzazione in seno alla società delle cellule; un superorganismo intorno al quale il corpo svolge principalmente un ruolo di supporto. Se vogliamo, possiamo trovare un’analogia con la regina delle formiche o delle termiti, e con lo sciame di operaie che le assicura il necessario sostegno. Presa singolarmente, ogni operaia è relativamente ottusa; segue un programma di cieco istinto, privo di qualsiasi sofisticazione, la cui espressione consente una flessibilità molto limitata… Nel loro complesso, invece, le operaie costituiscono un insieme capace di grande intelligenza. Affrontano simultaneamente tutti i compiti necessari e possono modulare l’entità del proprio impegno per affrontare emergenze potenzialmente letali come inondazioni, carestie e attacchi da parte di colonie nemiche” (Wilson, 2015).

La questione della coscienza pone tutta una serie di problemi che principalmente girano intorno alla straordinaria complessità del cervello umano. Gli scienziati sono unanimi nel definire il nostro cervello “l’oggetto più complicato dell’universo”. E lo è: con i suoi oltre cento miliardi di neuroni e le misteriose interazioni che avvengono al suo interno, il cervello è la cosa più complessa che conosciamo. Un primo problema che esso pone riguarda la differenza tra noi esseri umani e gli altri esseri viventi. È vero infatti che la teoria dell’evoluzione di Darwin ci ha definitivamente scalzati dal podio che la Bibbia ci aveva attribuito, dimostrando che l’essere umano ha in comune con tutti gli altri esseri viventi un’analoga origine e un analogo processo evolutivo; ma è anche vero che, nonostante molti animali mostrino una particolare intelligenza (non solo le scimmie, ma anche i delfini, gli elefanti, alcuni tipi di uccelli e i polpi), la superiorità dell’intelletto umano su tutte le altre specie è incontestabile. Per i biologi evoluzionisti, la cosa non appare di particolare interesse. Semplicemente, nel suo percorso evolutivo, l’uomo si è trovato ad attribuire maggiore importanza allo sviluppo della scatola cranica e dell’encefalo, tramite il quale ha avuto modo di superare le insidie della natura e stabilire su di essa una supremazia. Il caso e la necessità, per usare le parole del celebre libro di Jacques Monod, hanno reso l’uomo l’essere più intelligente oggi vivente sulla Terra, ma non esiste una teleologia, un fine ultimo dell’evoluzione verso l’intelligenza, in base al quale all’uomo spetta il primo posto nell’ordine gerarchico della natura.
Eppure, quando iniziamo a proiettare questa considerazione oltre gli angusti confini del nostro pianeta, all’interno dei quali operano i biologi evoluzionisti, tutte le convinzioni iniziano a traballare. Innanzitutto, diversamente da quanto immaginavano, unanimi, i pensatori dai tempi antichi fino alla metà del XX secolo, gli altri corpi celesti del nostro sistema solare non sono abitati. Ciò apparve strano, dal momento che si riteneva che, essendo la Luna, Marte e gli altri pianeti simili per composizione alla Terra, dovessero ospitare non solo vita, ma anche vita intelligente (a rigettare questa ipotesi era solo la Chiesa, che non a caso condannò come eretico Giordano Bruno, che invece sosteneva la pluralità dei mondi abitati; diventava difficile spiegare l’incarnazione di Dio nel suo figlio fatto uomo come gesto di salvezza, se tale incarnazione era avvenuta anche su altri mondi, magari all’interno di corpi alieni). L’evolversi della scienza dimostrò presto che agli altri pianeti del nostro sistema solare mancavano le condizioni adatte per lo sviluppo della vita: l’ossigeno nell’atmosfera e l’acqua liquida in superficie, dove la vita ha iniziato a prosperare sul nostro pianeta. Oggi gli esperti definiscono “zona di Goldilocks” (o “zona Riccioli d’Oro” in una traduzione letterale ormai abbandonata) quella fascia di un sistema solare all’interno della quale può svilupparsi la vita: non troppo lontana e non troppo vicina rispetto al proprio sole per consentire di avere temperature miti in superficie, tali da favorire i legami del carbonio e quindi lo sviluppo di molecole organiche complesse, all’interno di soluzioni acquose. Prerequisito fondamentale è quindi l’esistenza di acqua in superficie. Per questo ci accaniamo tanto a cercare acqua su Marte: le prove, ormai acquisite, che un tempo Marte possedeva oceani come i nostri, consolida la tesi che sul Pianeta Rosso possa essersi un tempo sviluppata la vita, anche se in forme elementari.
Se tutto ci appariva fino ad ora banale nell’universo – stelle come le nostre esistono a miliardi, galassie come la Via Lattea abbondano, pianeti rocciosi sono la norma e la vita, sulla Terra, è dovunque –, a un certo punto le cose hanno iniziato a rivelarsi meno banali. L’esistenza della vita non è un fenomeno banale. Nel nostro sistema solare potrebbe non esserci, se non limitata a forme elementari sotto le sabbie di Marte (magari fossilizzata), o sotto gli oceani di Europa e Titano, lune di Giove e di Saturno. Sicuramente non esiste vita intelligente oltre la nostra nel ristretto vicinato spaziale. Ma oltre? Quando, all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, è partito il progetto SETI (dall’acronimo Search for Extra-Terrestrial Intelligence, ricerca di intelligenza extraterrestre), su iniziativa dell’astronomo Frank Drake e dietro suggerimento di due radioastronomi, Giuseppe Cocconi e Philip Morrison, in molti erano convinti che, non appena le antenne dei radiotelescopi si fossero sintonizzate verso le stelle, avremmo captato una miriade di conversazioni scambiate da civiltà intelligenti sparse nell’universo. Invece, niente. Silenzio. Naturalmente, si disse poi, cercare un segnale radio prodotto da una civiltà tecnologica è come cercare il proverbiale ago nel pagliaio in un universo così sconfinato e pieno del rumore di fondo prodotto dai fenomeni stellari. Oltre cinquant’anni dopo, il silenzio continua e in molti hanno iniziato a disperare. Perché quello “strano silenzio”, come lo ha definito il fisico e astronomo Paul Davies in un suo libro di qualche anno, usando un aggettivo, eerie, che nell’originale inglese ha una sfumatura diversa, che indica un fenomeno inquietante? Perché gli alieni sono muti?
Questa domanda ha preso ad assumere maggiore urgenza negli ultimi anni, con l’incremento nel numero di scoperte relative ai pianeti extrasolari. Fino all’inizio degli anni Novanta, l’esistenza di pianeti al di fuori del nostro sistema solare era teorizzata come estremamente plausibile, in base a teorie sulla formazione dei sistemi planetari sviluppate a partire dallo studio del nostro sistema solare, ma non era ancora stato possibile individuarne nessuno a causa delle enormi difficoltà tecniche. Oggi sono stati scoperti migliaia di pianeti extrasolari attraverso un ampio spettro di tecniche osservative dirette e indirette, e nei prossimi anni questo numero aumenterà in misura esponenziale con l’inaugurazione di nuovi telescopi terrestri e spaziali in corso di realizzazione. Sappiamo quindi con certezza che i pianeti sono la norma, lì fuori: non solo giganti gassosi come Giove, ma anche pianeti rocciosi come Marte o la Terra. Siamo ancora lontani dall’aver individuato mondi identici al nostro, con acqua in superficie e ossigeno nell’atmosfera, ma solo perché non abbiamo i mezzi per effettuare queste scoperte. Sappiamo però che esistono parecchi mondi come il nostro all’interno delle rispettive zone di Goldilocks intorno alle altre stelle, per cui è estremamente probabile che alcuni di questi abbiamo una biosfera come la nostra. Nel giro di vent’anni ne avremo la prova definitiva. Il SETI naturalmente non si è lasciato sfuggire l’occasione di puntare i propri radiotelescopi verso quei pianeti, senza però riuscire a scoprire niente. Nemmeno da lì sembrano provenire comunicazioni intelligenti. Ma se è vero che cercare queste comunicazioni è come cercare un ago in un pagliaio (sono stati “ascoltati” finora solo un centinaio di pianeti), è vero anche che, sulla base della ragionevolezza, c’è qualcosa che non va. La ragionevolezza la dimostrò il nostro Enrico Fermi in una conversazione avuta a Los Alamos con un paio di suoi colleghi scienziati atomici nel 1947. Discutendo del dibattito emerso sulla stampa relativo ai primi avvistamenti di UFO, Fermi sostenne che a suo giudizio i responsabili degli UFO non potevano essere intelligenze extraterrestri. Perché mostrarsi proprio allora, e non prima? Considerando l’età dell’universo, è ragionevole aspettarsi che civiltà intelligenti siano nate e cresciute anche milioni di anni prima della nostra e siano giunte centinaia di migliaia di anni fa al volo interstellare. Se anche solo una civiltà in tutta la galassia avesse deciso di intraprendere l’espansione verso altri mondi, da tempo gli extraterrestri sarebbero stati tra noi. Insomma, dovrebbero essere già qui, e invece “dove sono tutti quanti?”
Quella famosa domanda, nota oggi come “paradosso di Fermi”, deriva naturalmente da alcuni presupposti logici che potrebbero rivelarsi sbagliati, esattamente come quelli alla base del progetto SETI. Dopo tutto, non è certo detto che una civiltà intelligente decida di lanciarsi nella colonizzazione della galassia, mettendo piede su tutti i pianeti abitabili che incontri lungo il suo percorso. Potrebbe anche decidere che non ne valga la pena. La mentalità umana è legata all’idea della colonizzazione, concetto che ha dominato la nostra storia a causa dell’esigenza di uno “spazio vitale” da conquistare con l’aumento della popolazione e del suo fabbisogno di risorse. Questa esigenza era ben sentita nel 1947, in pieno boom demografico, e poco dopo la fine di una guerra mondiale prodotta dal desiderio di espansione della Germania nazista, bisognosa di spazio vitale. Stava iniziando la de-colonizzazione, certo, ma a qualsiasi persona dotata di buon senso, come Fermi, non sfuggiva l’esigenza di un’espansione nello spazio per conquistare spazio vitale nel momento in cui la Terra si fosse rivelata troppo stretta. Ebbene, chi ci dice che sia davvero così? Edward O. Wilson, nel libro già citato, la pensa diversamente e lancia un’ipotesi interessante:

“Di sicuro ET abbastanza intelligenti da esplorare lo spazio comprenderanno anche la brutalità e il rischio letale intrinseci nella colonizzazione biologica. A differenza nostra saranno arrivati a comprendere che – per evitare l’estinzione o il ritorno a condizioni intollerabilmente dure sul loro pianeta –, molto prima di viaggiare fuori dal loro sistema stellare, dovevano raggiungere la sostenibilità e dotarsi di sistemi politici stabili. Forse avranno deciso di esplorare – molto discretamente, servendosi di robot – altri pianeti che ospitano la vita, ma non di invaderli. Non ne avevano alcun bisogno, a meno che il loro pianeta non fosse sul punto di essere distrutto. E se avessero sviluppato la capacità di viaggiare da un sistema stellare all’altro avrebbero sviluppato anche quella di evitare la distruzione planetaria. Oggi vi sono, tra noi, alcuni entusiasti dello spazio convinti che l’umanità possa migrare su altri pianeti dopo aver sfruttato ed esaurito quello in cui ci troviamo. Costoro dovrebbero tenere ben presente quello che ritengo essere un principio universale, valido per noi come per tutti gli ET: per una specie esiste un solo pianeta abitabile, e quindi una sola vita possibile per guadagnarsi l’immortalità”. (Wilson, 2015)


L’argomentazione di Wilson mette in crisi i propositi espressi dai sostenitori dell’espansione dell’umanità nell’universo: dallo scrittore Isaac Asimov al fisico Stephen Hawking, secondo il quale se l’umanità non si espanderà nello spazio sarà costretta al collasso entro un secolo, fino al recente film Interstellar di Christopher Nolan (www.quadernidaltritempi.eu/numero52). Interstellar cerca di spronare la nostra civiltà a riprendere la corsa allo spazio interrotta precocemente, se non altro per garantirci un futuro. L’esaurimento delle risorse e il cambiamento climatico – danni che abbiamo consapevolmente inflitto al nostro pianeta – rischiano di rendere invivibile la Terra nel giro di poche generazioni. Se non possiamo invertire il processo, dobbiamo allora cercare di sopravvivere lasciando la Terra verso nuove mete. Nel film, inizialmente, si sostiene che le “intelligenze” che indicano agli esperti della NASA l’esistenza del wormhole artificiale nei pressi di Saturno siano intelligenze extraterrestri. Si scoprirà poi che in realtà si tratta degli esseri umani del remoto futuro, che hanno trovato il modo di comunicare attraverso il tempo. Non ci sono civiltà aliene in Interstellar, ma solo un universo terribilmente inospitale che gli uomini, disperatamente, cercano di adattare alle loro esigenze, terraformando i mondi e costruendo scorciatoie che permettano di raggiungerli più facilmente. È chiaro che il nostro universo non è progettato per gli esseri umani. Se lo fosse stato, le distanze tra i vari sistemi stellari sarebbero state ridotte e la maggior parte dei pianeti sarebbe stata resa ospitale. Interstellar sostiene che, nonostante ciò, il nostro imperativo morale sia espandersi nel cosmo per garantire la sopravvivenza della nostra progenie. D’altro canto, se lo strano silenzio dell’universo fosse legato al fatto che la nostra sia l’unica civiltà intelligente esistente, questo imperativo morale assumerebbe ben altri contorni. Avremmo davvero l’obbligo di salvaguardare questa peculiarità straordinaria del processo evolutivo, che ci ha resi gli unici esseri viventi in grado di pensare e capire l’universo. Allora sarebbe anche giusto il principio di colonizzare nuovi mondi, se ciò fosse possibile. Per questo, il paradosso di Fermi e il dilemma dello strano silenzio sono grandi domande che ci costringono a profonde riflessioni sulla vita e l’intelligenza.
Naturalmente, se invece Wilson ha ragione, e altre civiltà extraterrestri abbondano nell’universo ma non si allontanano da casa propria, per vari motivi, ecco trovata una spiegazione al paradosso di Fermi. In tal caso, guai a noi se decidessimo di colonizzare pianeti dove abitano altre civiltà. Lo “scontro di civiltà” teorizzato da Samuel Huntington, che già ci dà abbastanza problemi sulla Terra, verrebbe sconsideratamente esteso su scala cosmica. Esistono numerose spiegazioni alternative al paradosso di Fermi che non fanno a meno dell’esistenza di altre civiltà, ma riescono anche a spiegare perché il progetto SETI non ha ancora captato nessun loro segnale. Il fisico Stephen Webb ne ha elencate ben 50 in un brillante saggio del 2002, Se l’universo brulica di alieni… dove sono tutti quanti? La sua lettura è uno stimolantissimo viaggio nel corso del quale vengono analizzati tutti i presupposti sulla vita e sull’intelligenza, basati sull’unico esempio che conosciamo, quello della Terra. Alla fine di quel viaggio, però, Webb assume una posizione radicale. La cinquantesima soluzione, la sua personale, è che dopotutto siamo davvero soli nell’universo. Questa convinzione ha cominciato a diffondersi nella comunità scientifica negli ultimi anni, incrociando l’assenza di evidenze emerse dal progetto SETI con gli sviluppi della biologia evolutiva, che sta dimostrando quanto improbabile sia stato il percorso che ha portato alla nascita e allo sviluppo della vita sul nostro pianeta. Il libro del paleontologo Peter Ward e dell’astronomo Donald Brownlee, Rare Earth: Why Compex Life is Uncommon in the Universe (“Terra rara: perché la vita complessa non è comune nell’universo”), pubblicato nel 2000, è diventato un bestseller. “Un quadro del genere viene criticato spesso perché violerebbe il principio della mediocrità. Quest’immagine sembra suggerire che la Terra, e con la Terra l’umanità, siano speciali. Non è il colmo dell’arroganza?”, scrive a tal proposito Stephen Webb. “Paradossalmente, almeno a mio modo di vedere, è credere che altre specie senzienti debbano esistere e puzzare di arroganza. O, per meglio dire, quest’idea riesce nell’arduo compito di unire una modestia estrema a un’indicibile superbia: al centro di quest’aspettativa c’è la convinzione che gli adattamenti umani, gli attributi quali la creatività e l’intelligenza generica, cui assegniamo una certa importanza, siano qualità cui tendono gli altri organismi terrestri; e che creature aliene potrebbero vantarle in misura anche maggiore” (Webb 2002). Nel suo Il caso e la necessità, pubblicato per la prima volta nel 1970, Jacques Monod concludeva che “l’Uomo finalmente sa di essere solo nell’indifferente immensità dell’Universo dal quale è nato per caso” (Monod, 2001). In verità non lo sappiamo ancora, ma certamente conviene che iniziamo ad abituarci all’idea e a chiederci cosa fare per rendere più confortevole quest’enorme, forse infinita solitudine.

 


 

LETTURE

 

  Paul Davies, Uno strano silenzio, Mondadori, Milano, 2012.
  Richard Dawkins, Il fiume della vita. Che cosa è l’evoluzione, Rizzoli, Milano, 2008.
  Douglas R. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach. Un’eterna ghirlanda brillante, Adelphi, Milano, 1990.
  Jacques Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano, 2001.
  Roger Penrose, La mente nuova dell’imperatore, Rizzoli, Milano, 2000.
  Peter Ward e Donald Brownlee, Rare Earth: Why Complex Life is Uncommon in the Universe,
  Copernicus Books, New York, 2000.
  Stephen Webb, Se l’universo brulica di alieni… dove sono tutti quanti?, Alpha Test, Milano, 2004.
  Edward O. Wilson, Il significato dell’esistenza umana, Codice, Torino, 2015.

 


 

VISIONI

 

  Christopher Nolan, Interstellar, Warner Bros., 2014.