VISIONI / INTERSTELLAR


di Christopher Nolan / Warner Bros, 2014


 

Non andiamocene docili nella buona notte

 

di Roberto Paura

 

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Tra le prime scene di Interstellar c’è quella – apparsa anche in uno dei trailer del film – in cui la polvere cade lentamente a coprire i modellini dello Space Shuttle riposti come soprammobili sul ripiano di una libreria. Se c’è un’immagine che meglio rappresenta l’idea di una società che ha voltato le spalle al suo futuro, quella scelta dal regista Christopher Nolan è probabilmente la migliore. Di fine del futuro si parlava nello scorso numero di “Quaderni d’Altri Tempi”, facendo più di un riferimento alla fantascienza, e Interstellar sembra quasi voler essere una risposta a quelle considerazioni. Gli anni in cui viviamo sono gli anni in cui le due grandi “ere” che la vulgata del Dopoguerra sosteneva essersi appena aperte, per non doversi chiudere più, ossia l’era atomica e l’era spaziale, sembrano essere state riposte anzitempo in soffitta. Le grandi promesse dell’energia nucleare non convincono più nessuno e da tempo ormai quella atomica non è più considerata l’energia del mondo del futuro. Per quanto riguarda l’era spaziale, la sua corsa verso l’infinito e oltre è stata interrotta anzitempo dalla fine dei grandi investimenti e dal costo crescente delle imprese umane nello spazio: nel 1972 con l’Apollo 17 terminavano gli sbarchi sulla Luna, con buona pace dei progetti di stazioni lunari che facevano sognare gli spettatori di 2001: Odissea nello spazio, e chi immaginava che presto sarebbe seguita la conquista di Marte dovette subire una doccia fredda. Nel 1978 un film come Capricorn One proponeva un’amara riflessione sulla fine del sogno spaziale, con la NASA costretta a inscenare un finto sbarco su Marte per colpa dei tagli politici che impedivano una vera missione sul Pianeta Rosso. Nel 2011, il ritiro degli Space Shuttle (ancora, una scena reale dell’atterraggio dell’ultimo Shuttle apriva il primo dei trailer di Interstellar) ha reso gli Stati Uniti privi di una navicella di accesso allo spazio, come ai tempi della dismissione del programma Apollo (e, appunto, di Capricorn One).

D’altro canto, l’umanità oggi si trova a dover fare i conti con ben altri problemi, che sono quelli che angustiano i protagonisti di Interstellar: il cambiamento climatico e le sue conseguenze non solo sul clima ma anche sull’alimentazione mondiale. E qui arriva Christopher Nolan a proporre una soluzione: se invece di dedicarci esclusivamente ai problemi del nostro pianeta, iniziassimo a pensare anche a soluzioni che prendano in considerazione l’idea di andare oltre il nostro pianeta? Nolan ha attinto a piene mani, nella costruzione del suo film – aiutato in questo dal fratello scrittore Jonathan –, alle teorie del fisico Kip Thorne sui wormhole come “cunicoli spazio-temporali” per raggiungere altre zone dell’universo, aggirando il problema delle enormi distanze che impediscono un’effettiva colonizzazione umana dello spazio interstellare (cfr. Thorne, 2013). Ma senz’altro, nelle sue riflessioni, Nolan sarà stato influenzato dall’eminente collega di Thorne, il cosmologo Stephen Hawking, che a più riprese, anche recentemente, ha ricordato la necessità per la nostra specie di “fuggire dal nostro fragile pianeta” entro i prossimi mille anni, pena l’estinzione dell’umanità. Un imperativo morale, secondo Hawking, per non condannare i nostri discendenti a morte certa come sembra accada in Interstellar, dove gli abitanti della Terra sono condannati a perire in un mondo devastato dai cambiamenti climatici e a corto d’ossigeno.

L’imperativo morale è anche al centro delle scelte che devono compiere i protagonisti di Interstellar. A un certo punto del film, infatti, i tre astronauti della missione devono scegliere se tornare indietro sulla Terra per cercare una soluzione in grado di far evacuare tutti i suoi abitanti verso una nuova casa oltre il wormhole, oppure sbarcare su uno dei mondi alieni abitabili e far partire il “piano B”, che prevede il popolamento del nuovo pianeta attraverso alcune centinaia di embrioni umani custoditi nell’astronave. Entrambe le soluzioni non sono percorribili, perché l’astronave è rimasta a corto di carburante e può solo o tornare sulla Terra o scendere su un nuovo pianeta. Il dilemma è forse di quelli più drammatici che la fantascienza cinematografica abbia mai posto di fronte a uno spettatore, e ricorda – almeno nei presupposti – il famoso esperimento mentale del treno che sta per investire un gruppo di persone e l’osservatore che può o meno decidere di far cadere sulle rotaie un corpulento passante per sbarrare la strada al treno e salvare le vite di più individui uccidendone uno solo. Tutta la forza di Interstellar ruota intorno a questo dilemma: l’umanità è la somma degli individui attualmente esistenti e viventi, ed è loro che dobbiamo provare a salvare, come sostiene Cooper, il protagonista, o piuttosto l’umanità è l’insieme di tutti gli individui, passati e futuri, a cui dobbiamo garantire la sopravvivenza indefinita per un concetto più esteso di responsabilità, come sostengono invece il professor Brand e sua figlia?

Nel suo famoso libro Il principio responsabilità (2009), pubblicato nel 1979, il filosofo Hans Jonas fu forse il primo a sostenere che l’umanità dovesse assumersi l’onere – la responsabilità, appunto – di salvaguardare il futuro delle generazioni a venire, oltre che semplicemente della propria. Una filosofia, quella di Jonas, che scaturisce dai rischi esistenziali posti dalla tecnologia e dal suo impatto sulla biosfera, da quella citatissima “società del rischio” in cui viviamo, dove la capacità di manipolazione dell’uomo può, in qualsiasi momento, mettere a rischio l’intero edificio della civiltà. Uno scenario che ha assunto concretezza all’indomani della bomba atomica, quando la scienza ha per la prima volta dimostrato di poter essere in grado di spazzare via l’intera umanità (cfr. in questo numero), e che oggi sembra concretizzarsi con le conseguenze catastrofiche dell’industrializzazione sull’ambiente in cui viviamo. Interstellar fa propria questa filosofia, ma con una strategia che è all’estremo opposto di quella oggi dominante, la teoria della decrescita, che vorrebbe mitigare il progresso per minimizzarne gli effetti negativi. Il mondo in cui vivono i protagonisti di Interstellar sembra aver fatto propria, senza successo, la strategia della decrescita: è una civiltà futura che ha dimenticato il futuro, che ha ridotto all’osso ogni tecnologia, che ha abolito l’esplorazione spaziale e si limita a difendere il difendibile, senza guardare oltre l’orizzonte. Il refrain del film è una splendida poesia del gallese Dylan Thomas, Non andartene docile in quella buona notte, che rappresenta il messaggio della storia. L’umanità sembra destinata ad andarsene docile, estinguendosi lentamente nel buio delle tempeste di polvere che l’assediano. Ma il progetto ambizioso e coraggioso della NASA si oppone a questo destino ineluttabile:

 

“Benché i saggi conoscano alla fine che la tenebra è giusta Perché dalle loro parole non diramarono fulmini Non se ne vanno docili in quella buona notte,

 

I probi, con l’ultima onda, gridando quanto splendide Le loro deboli gesta danzerebbero in una verde baia, S’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce”

(Dylan Thomas, 2002).

 

Tutto il film è un inno alla volontà umana di non arrendersi, di provare continuamente a trovare una soluzione anche quando tutto sembra opporsi. A più riprese, in Interstellar, sembra che non ci siano speranze: quando Cooper incespica moribondo nella neve del mondo di ghiaccio, con l’ossigeno che gli sta finendo, non se ne va docilmente all’altro mondo; e quando il dottor Mann, nel suo disperato tentativo di impossessarsi dell’astronave Endurance, distrugge buona parte della nave, ancora Cooper, contro ogni possibilità a suo favore, si lancia in un disperato tentativo di agganciare comunque la sua scialuppa alla nave alla deriva, in una scena che è forse la più bella del film e omaggia quel caposaldo del cinema di fantascienza e non solo che è 2001: Odissea nello spazio. Con la sua determinazione incrollabile, Cooper riesce a salvare l’umanità nonostante non sembri esserci alcuna speranza, rifiutandosi di andarsene docile nella notte, insieme a tutti gli abitanti della Terra. Questa determinazione, questo “infuriarsi”, che è la cifra dell’essere umano, fa di Interstellar soprattutto un film sui valori umani e sulla loro importanza. Anche il recente Gravity di Alfonso Cuarón (2014), uscito lo scorso anno, si incardinava su questi concetti: molto più semplice e lineare nella sua ambientazione e nella sua struttura – un incidente in orbita durante una missione dello Space Shuttle – Gravity poneva la protagonista, la dottoressa Stone, impersonata da una bravissima Sandra Bullock, nei panni dell’astronauta sopravvissuta che cerca di tornare sulla Terra. Anche in quella pellicola, tutto è contro la povera protagonista: lo Shuttle è distrutto dalla collisione con i detriti di un satellite, la Stazione Spaziale Internazionale va a sua volta distrutta, la Soyuz di salvataggio ha il paracadute fuori uso (cosa che non consente di usarla per il rientro), durante il viaggio verso la stazione spaziale cinese il motore della Soyuz va fuori uso e così via. Ma anche quando la dottoressa Stone, ormai esausta, decide di lasciarsi andare e attendere la morte, l’apparizione – in un’allucinazione dovuta alla carenza di ossigeno – del suo collega morto la convince a non arrendersi. Anche lei non se ne va docile nella buona notte.

Questa fantascienza eroica e coraggiosa ci riporta agli anni, altrettanti eroici e coraggiosi, della corsa allo spazio, e sembra riuscire a imprimere una nuova forza di volontà, un rinnovato desiderio di impegnarsi a salvare la nostra civiltà dal disastro. Forse non casualmente. Dietro questi progetti potrebbe effettivamente esserci un disegno, quello della NASA, che da tempo ha capito che l’unico modo per convincere i contribuenti e i politici a destinare il proprio denaro ai progetti spaziali è far presa sulle grandi emozioni legate all’avventura umana nello spazio. Nel 2011 l’agenzia spaziale americana ha firmato un accordo con la Tor Books, principale casa editrice di fantascienza negli Stati Uniti, per realizzare romanzi centrati sull’esplorazione spaziale. L’accordo prevede che scienziati e ingegneri NASA fungano gratuitamente da consulenti agli scrittori Tor Books nella stesura delle loro storie, con l’obiettivo di tornare a ispirare i giovani lettori sull’importanza di impegnarsi nello sforzo di spingere più in là le frontiere scientifiche e tecnologiche. Non fanno forse lo stesso anche Interstellar e Gravity? Chi, dopo aver visto questi film, non vorrebbe volare su un’astronave alla scoperta di nuovi mondi per salvare la nostra specie o, non potendolo, perlomeno destinare un po’ di spiccioli all’esplorazione dell’universo?

Forse stimolata dai fondi della NASA, forse semplicemente spinta da un genuino desiderio di smettere di guardare solo al proprio ombelico e tornare a porsi le grandi domande sull’esistenza umana, la fantascienza sia cinematografica che letteraria sta tornando a spingere lo sguardo verso il futuro con fiducia, ma non necessariamente con ingenuità. Interstellar non ha nulla a che vedere con l’ottimismo ingenuo della space opera del passato: ammette la difficoltà dell’impresa spaziale, drammatizza l’inospitalità di quest’universo in cui la vita sembra un mero accidente cosmico, non offre facili soluzioni e vie d’uscita, ma ci invita a stringere i denti, a soffrire, piangere e patire per portar avanti l’avventura umana. È una fantascienza ottimista, sicuramente, ma uscita maturata dai decenni dell’inner space e delle distopie. Nella letteratura, un grande scrittore come Neal Stephenson ha lanciato dal Center for Science and Imagination dell’Arizona University un ambizioso progetto, battezzato “Hieroglyph”, il cui obiettivo è quello di promuovere una fantascienza che faccia uso delle più recenti scoperte, teorie e innovazioni scientifiche per sostenere visioni positive del futuro. Il progetto è stato accolto da feroci critiche, ma il suo primo prodotto, l’antologia Hieroglyph: Stories and Visions for a Better Future (2014), vanta nomi di primissimo piano nel panorama della science fiction, come (oltre allo stesso Stephenson) Bruce Sterling, Gregory Benford, Rudy Rucker, Cory Doctorow, Karl Schroeder, David Brin, ma anche la celebre editor di io9.com Annalee Newitz e gli scienziati Lawrence Karuss e Paul Davies, i cui libri di divulgazione sono bestseller mondiali. Interstellar si pone su questa scia e dimostra che, facendo affidamento su un solido background tecnico-scientifico, è possibile fare non solo una godibilissima fantascienza d’intrattenimento, ma anche spingere lo spettatore a riflettere sul proprio futuro, sulle scelte che l’uomo come specie è chiamato a compiere e sul destino che ci attende, forse, in quell’oceano cosmico in cui, come ricordava Carl Sagan, abbiamo appena iniziato a bagnare la punta dei nostri piedi.


 

LETTURE

  Kathryn Cramer, Ed Finn (a cura di), Hieroglyph: Stories and Visions for a Better Future, HarperCollins, New York, 2014.
Dylan Thomas, Poesie, Einaudi, Torino, 2002.
Hans Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino, 2009.
Kip Thorne, Buchi neri e salti temporali. L’eredità di Einstein, Castelvecchi, Roma, 2013.

 


 

VISIONI

  Alfonso Cuarón, Gravity, Warner Home Video, 2014 (home video).
Peter Hyams, Capricorn One, Cult Media, 2011 (home video).
Stanley Kubrick, 2001: Odissea nello spazio, Warner Home Video, 2007 (home video).