La potenza del numero
da Pitagora a von Neumann

Giorgio de Santillana
Le origini del pensiero scientifico
A cura di Mauro Sellitto

Traduzione di Giulio De Angelis
Adelphi, Milano, 2023
pp. 429, € 15,00

Benjamín Labatut
Maniac
Traduzione di Norman Gobetti

Adelphi, Milano, 2023
pp. 321, € 20,00

Giorgio de Santillana
Le origini del pensiero scientifico
A cura di Mauro Sellitto

Traduzione di Giulio De Angelis
Adelphi, Milano, 2023
pp. 429, € 15,00

Benjamín Labatut
Maniac
Traduzione di Norman Gobetti

Adelphi, Milano, 2023
pp. 321, € 20,00


Circa duemilacinquecento anni fa, una straordinaria scoperta cambiò per sempre la nostra comprensione della realtà. Un membro della scuola pitagorica, da qualche parte tra la Grecia e il Sud dell’Italia, si accorse che il rapporto tra il lato e la diagonale di un quadrato non era esprimibile in numeri interi. Questa scoperta fu confermata dalla dimostrazione che, se un tale numero esistesse, sarebbe stato al contempo pari e dispari. Era la fine del sogno di descrivere il mondo in termini di rapporti numerici, il grande sogno di Pitagora, che nelle proporzioni vedeva la manifestazione del lógos, la ragione, che in latino si dice ratio, termine che è anche sinonimo di rapporto proporzionale. «Se i numeri perdono la ragione chi salverà la nostra?», si chiedeva Giorgio de Santillana nel suo Le origini del pensiero scientifico, edito per la prima volta nel 1961 ma finalmente ripubblicato da Adelphi. Duemilacinquecento anni dopo, più precisamente nel settembre 1930 a Königsberg, una scoperta di analogo tenore fu annunciata al mondo da un uomo di cui invece conosciamo il nome: Kurt Gödel. Egli mostrò che era possibile, all’interno di un sistema formale coerente, costruire enunciati veri che tuttavia non potevano essere dimostrati utilizzando le regole interne a quel sistema. Una contraddizione che metteva fine a un altro grande sogno, quello di David Hilbert, che intendeva formalizzare in un insieme finito e non contraddittorio di assiomi l’intera matematica, dimostrandone la completezza come sistema logico. Come sintetizza Benjamín Labatut in Maniac:

“Un sistema incompleto non era soddisfacente, per ovvie ragioni, ma un sistema incoerente era ancora peggio, perché lo si poteva usare per dimostrare qualunque cosa: la congettura più assurda immaginabile e anche il suo opposto, un enunciato impossibile e la negazione di quell’impossibilità”
(Labatut, 2023).

Il limite e l’illimite
La portata di queste scoperte è stata così drammatica da aver prodotto un vero e proprio meccanismo di rimozione. Fisico, nel caso della crisi dell’irrazionale nell’antica Grecia: la leggenda racconta che Ippaso di Metaponto, l’uomo che rivelò il segreto che veniva appena sussurrato nei circoli più esoterici del pitagorismo, fu gettato in mare al largo di Crotone per punirlo di quella rivelazione. Psicologico, nel caso dei teoremi di incompletezza, poiché oggi – nemmeno cent’anni dopo – sembra siano stati completamente dimenticati da quanti sono tornati a perseguire il sogno di una riduzione della realtà a numeri, dati e fondamenti logici. Per questo può essere utile un confronto tra la ricostruzione della scienza greca di Santillana e quella della parabola scientifica e umana di John von Neumann ricostruita da Labatut, che parlano entrambe dei nostri tempi e di quello che ci aspetta. Del resto, come scriveva Simone Weil nel suo Abbozzo di una storia della scienza greca scritto nel campo profughi di Casablanca nel 1942:

“Questo abbozzo della storia della scienza greca mostra in primo luogo che quella scienza è molto più che il germe della nostra. È la scienza. Noi l’abbiamo semplicemente continuata, e quanto a rigore scientifico ne siamo rimasti piuttosto al di sotto. In secondo luogo mostra che quella scienza, che è anche la nostra, deriva quasi interamente dall’ispirazione pitagorica, che noi abbiamo perduto”
(Weil, 2014).

Santillana avrebbe sicuramente condiviso questo giudizio. La più luminosa scoperta degli antichi, come egli chiarì anche nella sua opera più celebre, Il mulino di Amleto (1969), consisté nel rendersi conto che tutta la natura si fonda su rapporti matematici, e che questo è vero tanto sulla terra quanto in cielo, finché poi non intervenne Aristotele a separare nettamente i due mondi che solo Galileo prima e Newton poi tornarono a riunire. Questa scoperta iniziò con Pitagora e la sua dimostrazione che gli intervalli della scala musicale sono esprimibili in termini di rapporti tra numeri interi: 1:2 l’ottava, 4:3 la quarta, 3:2 la quinta, e questi numeri sono i primi quattro, che sommati danno il numero perfetto 10, che Pitagora assurse al rango di divinità: la Tetraktys, figura triangolare composta appunto dai primi quattro numeri. Tutto si basava sull’idea della generazione successiva a partire dall’Uno, l’unità fondamentale, la monade, che ha in sé “la potenza del Numero, che si manifesta nell’entrare in composizione con altri, per formare cifre o serie o classi” (de Santillana, 2023). Può sembrare una banalità, ma in realtà nasconde il meccanismo che permette di passare dall’essere al divenire, uno dei grandi misteri irrisolti della filosofia greca; il passaggio dal limite all’illimite, per usare il linguaggio pitagorico; ma soprattutto – potremmo dire – il passaggio dal nulla al tutto.

C’è vita nei numeri?
La potenza del numero fu alla base di una delle più grandi ambizioni intellettuali di John von Neumann, un sogno destinato a sopravvivergli e dominare il pensiero contemporaneo: la possibilità di passare dai numeri alla vita, spiegando così anche l’emergere della coscienza. Questa idea egli provò a svilupparla attraverso il MANIAC, il supercomputer che aveva progettato a Princeton con i finanziamenti della Difesa. Lo fece partendo dai lavori di un oscuro scienziato italo-norvegese, Nils Aall Barricelli, il cui contributo è stato riscoperto solo il decennio scorso dallo storico della scienza George Dyson nel suo La cattedrale di Turing (2012). Barricelli credeva davvero che da sequenze numeriche potesse sorgere la vita e quest’idea, per quanto folle, non era considerata tale da von Neumann, che gli accordò libero accesso al supercomputer per creare i suoi “universi” digitali quando la macchina non era impegnata a calcolare le traiettorie dei missili balistici o a risolvere i problemi di idrodinamica necessari per aumentare sempre più la potenza delle bombe termonucleari. Alla fine dovette arrendersi:

“Sebbene io abbia creato una classe di numeri capaci di riprodursi e di subire mutamenti ereditari, l’evoluzione numerica non va molto lontano e non ha prodotto in nessun caso un livello di fitness sufficiente a mettere la specie al riparto dalla totale distruzione e ad assicurare un processo evolutivo illimitato come quello che ha avuto luogo sulla Terra e che ha portato a organismi sempre più avanzati. Manca qualcosa che permetta di spiegare la formazione di organi e di facoltà complesse come quelle degli organismi viventi. Per quante mutazioni facciamo, i numeri resteranno numeri. Non diventeranno mai organismi viventi!”
(Labatut, 2023).

Von Neumann era ossessionato da quest’idea. Quando aveva compreso che Gödel aveva messo fine a ogni speranza di ridurre l’intera realtà al formalismo logico-matematico, cercò subito qualcosa che potesse prendere il posto della logica nel proporsi come fondamento ultimo della realtà. Eugene Wigner gli suggerì di guardare all’informazione. Von Neumann non se lo fece ripetere: i computer che realizzò, secondo uno schema che è ancora oggi alla base di tutti i moderni calcolatori, avevano esattamente l’obiettivo di verificare questa idea, poiché von Neumann aveva capito come sempre per primo le implicazioni di uno degli articoli più importanti della scienza moderna, quello in cui Alan Turing presentava la sua “macchina universale”. Il lavoro di Turing era stato un altro colpo durissimo inferto al sogno logicista, perché il matematico inglese aveva introdotto l’esperimento mentale delle sue macchine calcolatrici al fine di rispondere al problema di Hilbert sulla decidibilità, ossia se esista in linea di principio un modo meccanico per stabilire se un certo enunciato matematico sia vero o falso.

L’esperimento mentale di Turing dimostrava che la risposta era “no”, e questo è oggi chiaro a tutti i programmatori che operano nell’ambito del machine learning e devono evitare che gli algoritmi da loro realizzati finiscano per computare in eterno senza mai fermarsi. Turing aveva dimostrato tutto questo senza costruire alcun computer, ma immaginandolo nella sua testa: si trattava di scomporre il ragionamento umano nei suoi elementi di base, in una sequenza di operazioni ripetibile e riproducibile da una macchina. Von Neumann cercava esattamente questo: ridurre la complessità del pensiero umano a una semplice serie di operazioni. Se la logica non era in grado di arrivarci, ci sarebbe arrivata la teoria dell’informazione, dimostrando che non esiste differenza tra il modo di ragionare di un essere umano e quello di un computer. Una volta ottenuta questa dimostrazione, l’intera realtà sarebbe stata ridotta a fondamenti ultimi, prevedibili e quindi controllabili: il sogno di ogni autistico che, non riuscendo a cogliere la complessità del mondo intorno a lui, cerca una strategia di semplificazione radicale. Von Neumann usò l’idea della macchina di Turing universale per immaginare un processo di propagazione della vita – o meglio, dell’informazione, che per lui era la stessa cosa – nell’universo: automi inviati nello spazio a bordo di sonde che, una volta giunti su altri pianeti, avrebbero avviato un processo di autoreplicazione: “Teoricamente un’unica sonda di von Neumann che viaggiasse al cinque per cento della velocità della luce potrebbe replicarsi in tutta la nostra galassia in quattro milioni di anni”, riassume Labatut. Un sogno di espansione universale in grado di sopravvivere alla stessa specie umana, ripreso di recente dall’ecologo James Lovelock per immaginare il Novacene, la futura era in cui l’intelligenza umana cederà il passo all’intelligenza artificiale e questa modellerà prima Gaia e poi l’intero universo a propria immagine e somiglianza (cfr. Lovelock, 2020).

L’esattezza non è di questo mondo
Come si vede, il passaggio da una singola idea apparentemente ricadente nel piano della metafisica a un progetto di espansionismo tecnologico universale è molto breve. Santillana lo sapeva bene, perché nelle ultime righe del suo libro ci metteva in guardia “contro l’avanzata del formalismo meccanizzato e dei dinosauri elettronici”. Al tema Macchine e calcolatori è dedicato il diciottesimo capitolo del suo libro:

“L’Impero Ellenistico e quello Romano avvertirono per primi l’esigenza di un’ingegneria sviluppata su vasta scala. Il metodo di Eudosso, di Euclide, di Archimede, basato com’era sull’astrazione e sulla pura logica, perse d’interesse, e al suo posto subentrarono l’approssimazione e l’imperfezione misurata. Le forme furono sostituite dalle formule, i matematici dai tecnici”
(Santillana, 2023)

Ma siamo già alla fine del mondo greco. Con l’espandersi dei grandi imperi la scienza pura viene asservita ai bisogni delle classi dominanti, scienziati e intellettuali vengono sovvenzionati dal potere centrale (come accadde con von Neumann) perché ne accrescano sempre più il potere, e i pensatori diventano sempre più conservatori e meno originali. È possibile che questa deriva sia anche il risultato della disillusione nella possibilità di descrivere la realtà in termini di rapporti tra interi che costituiva il progetto dei pitagorici. La crisi dell’irrazionale, in seguito alla scoperta dei rapporti incommensurabili (che sarebbe stata risolta appunto con l’introduzione dei numeri irrazionali, i cui decimali proseguono all’infinito, senza mai raggiungere l’esattezza), avrebbe dunque provocato un terremoto delle coscienze il cui risultato, sul lungo termine, sarebbe stato l’abbandono di ogni speranza di individuare una ragione superiore all’opera nel mondo e la sua sostituzione con succedanei imperfetti e fondati sulle logiche umane. Lo storico della scienza Alexandre Koyré cercò di indagare le cause per cui la scienza greca non diede vita a una vera tecnologia pur possedendone le basi teoriche, e dopo aver analizzato diverse teorie presenta la sua celebre ipotesi secondo cui per il pensiero greco “non ha mai voluto ammettere che l’esattezza possa essere di questo mondo, che la materia di questo mondo, del mondo nostro proprio, del mondo sublunare possa incarnare gli esseri matematici” (Koyré, 2000).

Questa divisione tra cielo e terra si creò tuttavia con Aristotele e fu anticipata dall’iperuranio di Platone, il mondo delle Idee esatte di cui il nostro non vede che ombre. Non era questa l’idea dei pitagorici, per i quali invece l’esattezza era alla base della realtà. Ciò sembra consolidare l’ipotesi che proprio lo scandalo degli incommensurabili abbia cambiato completamente la concezione del reale nei Greci. A una simile conclusione giunse anche Simone Weil, benché ella avesse un’altra idea sulle conseguenze della scoperta degli incommensurabili tra i pitagorici. In polemica con il fratello André, Simone riteneva che quella scoperta non avesse prodotto sconvolgimento, ma entusiasmo, perché dimostrava la possibilità di designare rapporti tra le cose anche al di là dei rapporti numerici. Come spiegò nel suo Commento ai testi pitagorici (precedente di poche settimane l’Abbozzo sopra menzionato), la geometria nei pitagorici era intesa come “ricerca della mediazione” (Weil, 2014), e la loro grande scoperta consisté nel “miracolo di una mediazione per i numeri che ne erano privi per natura” (ibidem). Ciò significa che, se anche a livello aritmetico non è possibile esprimere in numeri interi il rapporto tra lato e diagonale di un quadrato, nondimeno quel rapporto esiste, perché è alla base della figura geometrica del quadrato, che rappresenta una verità del mondo della natura. Questa scoperta mostrava l’esistenza di una ragione soprannaturale all’opera nel mondo, non riducibile a quantità commensurabili ma in grado di esercitare un ruolo di mediazione tra entità diverse, così da tenere insieme la trama della realtà:

“Per i Pitagorici i vocaboli ἀριθμός (arithmos) e λόγος (logos) erano sinonimi. Essi chiamavano λόγοi ἄλογοι (logoi alogoi) i rapporti incommensurabili. Per legare all’unità i numeri che non sono dei quadrati, occorre una mediazione che venga dall’esterno, da un ambito estraneo al numero, e che può adempiere questa funzione solo a prezzo di una contraddizione. Questa mediazione fra l’unità e il numero appare come qualcosa di inferiore al numero, qualcosa di indeterminato. Un logos alogos è uno scandalo, un’assurdità, qualcosa di contronaturale”
(ibidem).

Nel pensiero cristiano di Weil, quella dei pitagorici fu la prima intuizione dell’esistenza di un Dio che è ragione e al tempo stesso mediazione (logos), che opera nel mondo attraverso un tipo di logica non ascrivibile né riducibile a quella delle quantità. Fu questa convinzione, che rese il pitagorismo e in seguito anche il platonismo una filosofia scientifica impregnata di misticismo, a impedire il sorgere del macchinismo. I pitagorici avevano, nei riguardi delle verità divine, “un bisogno di certezza tale che perfino nella semplice immagine di quelle verità occorreva loro la massima certezza” (ibidem). Il mondo moderno è invece dominato, secondo Weil, dall’idea opposta: “Noi vogliamo la certezza per le cose materiali. Per le cose che riguardano Dio ci basta la credenza” (ibidem).

“Calcola, abbandona l’istinto”
La scoperta di Gödel produsse uno scandalo, per il pensiero logico-matematico contemporaneo, simile alla crisi dell’irrazionale. Se all’epoca greca il declino del pitagorismo coincise con l’ascesa di un tardivo pensiero macchinico e con l’imbrigliamento della scienza pura nelle logiche di potere dei grandi imperi, nel XX secolo la crisi del programma di Hilbert coincise con un vuoto di senso da cui emerse la follia prometeica della tecnica. John von Neumann ne fu uno dei massimi rappresentanti. Egli non avrebbe mai accettato la possibilità di “logiche alogiche”, di realtà non esprimibili in termini quantitativi. “Tutti i processi che sono stabili li prevederemo. Tutti i processi che sono instabili li controlleremo” (Labatut, 2023): questa la sua intima convinzione.

È ancora presto per dire se avesse avuto torto. Labatut conclude il suo libro con una storia di AlphaGo, l’intelligenza artificiale in grado di battere i campioni mondiali di Go realizzata da DeepMind, in seguito acquisita da Google. È una vicenda che sembrerebbe dimostrare che il sogno di von Neumann non è ancora stato sconfessato. Eppure, le scoperte dei pitagorici e di Gödel sono ancora lì, sono ancora valide, e ci ricordano che il riduzionismo algoritmico è destinato a fallire. A meno di non piegare la realtà stessa alla nostra visione del mondo, trasformando la stessa intelligenza umana in mero calcolo e rendendola così prevedibile e controllabile come auspicava von Neumann. Calcola, abbandona l’istinto è il titolo dell’ultimo capitolo del libro e descrive il modo in cui Lee Sedol, il campione mondiale di Go battuto da DeepMind, continuò a vincere tutte le partite successive con giocatori umani: si era trasformato in una macchina a sua volta, unico modo per poter continuare a vincere. Contro questa deriva, Giorgio de Santillana contrappone un’altra idea di scienza, un’idea che può sembrare oggi dimenticata, ammette, ma che “rimane viva seppur latente nei creatori della scienza” (Santillana, 2023), giunta a noi superando venticinque secoli di storia grazie al neoplatonismo che la tenne viva nel lungo medioevo. Una metafisica altamente speculativa e religiosa, che tuttavia conservò al suo interno “il germe addormentato della matematica” (ibidem) fino all’età moderna. Tale concezione, che “pone la geometria e il numero tra i misteri più alti del disegno divino […] porta con sé anche l’idea che la verità deve, in ultima analisi, essere intuitiva, e che solo l’intelletto «vero» o superiore può percepire quella luce” (ibidem).

Letture
  • George Dyson, La cattedrale di Turing. Le origini dell’universo digitale, Codice, Torino, 2012.
  • Alexandre Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi, Torino, 2000.
  • Giorgio de Santillana, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, Adelphi, Milano, 2003.
  • Simone Weil, La rivelazione greca, Adelphi, Milano, 2014.