Finitudine ed escatologia
nell’era del presente esteso

Bart D. Ehrman
Inferno e paradiso
Storia dell’aldilà
Traduzione di Fabrizio Buscemi
Carocci, Roma, 2020

pp. 292, € 23,00

Brunetto Salvarani
Dopo
Le religioni e l’aldilà
Laterza, Bari-Roma, 2020

pp. 224, € 18,00

Telmo Pievani
Finitudine
Un romanzo filosofico
su fragilità e libertà
Raffaello Cortina, Milano, 2020

pp. 280, € 16,00

Bart D. Ehrman
Inferno e paradiso
Storia dell’aldilà
Traduzione di Fabrizio Buscemi
Carocci, Roma, 2020

pp. 292, € 23,00

Brunetto Salvarani
Dopo
Le religioni e l’aldilà
Laterza, Bari-Roma, 2020

pp. 224, € 18,00

Telmo Pievani
Finitudine
Un romanzo filosofico
su fragilità e libertà
Raffaello Cortina, Milano, 2020

pp. 280, € 16,00


Se dovessimo svolgere un sondaggio su quale sia considerato oggi il modo migliore di morire, scopriremmo che le risposte sono quasi unanimi: all’improvviso, meglio se nel sonno, senza nemmeno accorgersene. Chiudere gli occhi e non svegliarsi più. Eppure, nel passato poche cose avrebbero atterrito più di questa. Morire improvvisamente senza la possibilità di ottenere il conforto dei sacramenti e della remissione dei peccati avrebbe potuto compromettere ogni speranza di salvezza nell’aldilà. Il trapasso, dopotutto, può ben essere doloroso, ma ha una durata limitata; l’eternità, invece, è davvero lunga, e nessuno vorrebbe trascorrerla tra i tormenti. Così scriveva ad esempio il teologo bizantino Giovanni Crisostomo nella sua Omelia sul Vangelo di Giovanni: “Se dovesse accadere (Dio non voglia!) che per una morte improvvisa dovessimo lasciare questa terra non battezzati, anche se saremo ricolmi di ogni virtù, il nostro destino non potrà che essere l’inferno e il verme velenoso e il fuoco inestinguibile e catene indissolubili” (cit. in Ehrman, 2020).
All’apogeo di quella grande costruzione sociale occidentale che fu la Cristianità, nemmeno la morte assicurava la fine di ogni preoccupazione per il “caro estinto”. In virtù della “comunione dei santi” – lo stretto legame che, secondo la teologia cattolica, esiste tra i vivi e i morti – la preghiera per chiedere l’intercessione dei santi a favore delle anime dei defunti, spesso attraverso messe in suffragio, serviva ad abbreviare il periodo di penitenza nel Purgatorio, dove si riteneva che finisse la maggior parte delle anime (i dannati, va da sé, finiscono all’inferno, soprattutto se sono morti senza essersi potuti pentire, da cui la paura di una morte improvvisa; i santi, che finiscono direttamente in paradiso, sono obiettivamente pochi). L’esperienza della vita terrena arrivava di conseguenza a estendersi significativamente, tanto verso il passato quanto verso il futuro; già da bambini bisognava preoccuparsi delle anime dei familiari che avevano lasciato questo mondo, e questo compito non faceva che aggravarsi col passare degli anni, man mano che aumentava il numero dei parenti e amici defunti. Ma tutto ciò fa oggi parte dei libri di storia della mentalità.

Scomparsa del futuro e scomparsa della morte
Secondo il sociologo tedesco Hartmut Rosa, la società postmoderna è caratterizzata da una forma di accelerazione (tecnologica, sociale, e del ritmo di vita) che “funge da equivalente funzionale della promessa (religiosa) della vita eterna” (Rosa, 2015). In una società secolare, l’unica vita che conta è quella presente, interrotta definitivamente dalla morte; l’unico mondo in cui viviamo è questo, non esiste alcuna vita “nel mondo che verrà”, come ci invita a sperare il Credo niceno-costantinopolitano. Una vita buona è quindi una vita piena e ben spesa, in cui realizzare tutte le nostre aspirazioni, che però aumentano esponenzialmente con l’aumento di possibilità che la tecnologia ci offre. Siamo quindi portati ad accelerare per vivere più vite nel tempo (mai sufficiente) che abbiamo a disposizione, nella certezza che “si vive solo una volta”. Dunque, sostiene Rosa, la condizione postmoderna si fonda “sull’idea (inespressa) che l’accelerazione del «ritmo di vita» sia la nostra risposta (ossia la risposta della modernità) al problema della finitezza e della morte”. Concludendo: “È superfluo dire che purtroppo la promessa alla fine non viene mantenuta”.
Helga Nowotny (1996) ha parlato di presente esteso per indicare l’attuale condizione in cui la freccia del tempo è sì orientata verso il futuro, ma questo futuro non è che una continua reiterazione ciclica di ciò che avviene nel presente: il ciclo giorno-notte della nostra quotidianità, il ciclo delle settimane, dei mesi e degli anni, il ciclo nascita-morte. In questo presente esteso il futuro è stato “colonizzato” da tutte quelle strutture – edifici, innovazioni tecnologiche, istituzioni come il diritto, le banche, le assicurazioni – il cui compito è di minimizzare i rischi dell’avvenire e assicurarsi che tutto resti com’è (cfr. Adam, 1990). Ciò distingue decisamente la società attuale da tutte quelle che ci hanno preceduto. Non è vero affatto, secondo Nowotny e la sociologa Barbara Adam, che la società moderna si distingua da quelle antiche perché queste ultime avevano una concezione ciclica del tempo, sostituita a partire dall’era cristiana da un tempo lineare orientato verso il futuro. La verità è che le società antiche possedevano molti modi per trascendere la ciclicità del tempo mondano, mentre quella in cui viviamo non ne ha più nessuno. Per Zygmunt Bauman “l’escatologia sarebbe stata trionfalmente dissolta nella tecnologia” (Bauman, 1995).

Una situazione analoga sembra essersi verificata anche nel pensiero teologico, al punto tale che si potrebbe affermare che la scomparsa dell’escatologia – ossia del pensiero del dopo – nella condizione postmoderna non sia che il riflesso di un’analoga eclissi escatologica nella teologia occidentale, e non viceversa, come invece spesso si crede (cioè come frutto della secolarizzazione della modernità).
Questa tesi è stata esplorata da Brunetto Salvarani in Dopo. Le religioni e l’aldilà (2020), secondo il quale “il discorso sui novissimi” (come spesso nel linguaggio dottrinale si indica l’insieme degli argomenti di escatologia, ossia la vita dopo la morte e la parusia, il ritorno di Cristo sulla terra) “con il tempo ha finito per essere screditato, tanto che su di esso oggi sembra regnare il silenzio, l’oblio, se non persino una vera e propria rimozione, più o meno voluta e più o meno compresa nella sua portata”.

La crisi escatologica
Alla fine del XIX secolo la teologia protestante, avviando la sua ricerca sul Gesù storico (che in ambito cattolico fu invece tacciata e perseguitata con il termine “modernismo”) approdò provvisoriamente alla convinzione che Gesù fosse stato un mero maestro di etica e che tutto l’apparato dottrinale relativo alla vita dopo la morte non fosse che un’invenzione successiva. Contro questa tesi (definita “teologia liberale”), se ne contrappose un’altra, sempre fondata sulla ricerca del Gesù storico, ma che approdò a conclusioni diverse: Gesù era fermamente convinto che il mondo sarebbe presto finito e predicava la conversione universale per la salvezza delle anime prima del giorno del giudizio. Questa concezione profondamente escatologica, condivisa dai primissimi cristiani (come d’altronde è evidente in molti passaggi delle lettere di Paolo e di Pietro), si scontrò con la mancata parusia: a un certo punto, smentendo totalmente la promessa di Gesù secondo cui “vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza” (Marco, 9:1), tutti i testimoni dell’epoca morirono senza che del regno di Dio ve ne fosse l’ombra. Di fronte a questo imbarazzo, il pensiero cristiano delle origini dovette subire una profonda rielaborazione.

La “lieta novella” predicata da Gesù, relativa all’imminenza del Regno dei Cieli, venne sostituita con la lieta novella della resurrezione: “Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede”, assicurava Paolo di Tarso (1Corinzi, 15:14). Anziché una salvezza futura ma imminente per tutti, la speranza privata di una resurrezione dopo la morte, alla fine dei tempi. Nel suo Escatologia occidentale, pubblicato per la prima volta nel 1947, Jacob Taubes osserva:

“La speranza nel regno millenario, così, viene definitivamente allontanata dalla chiesa e da qui in poi diventa qualcosa di cui si occupano le sette. Al posto dell’escatologia universale subentra l’escatologia individuale. L’attenzione ora è rivolta al destino dell’anima, e il tempo della fine viene sostituito dall’ultimo giorno della vita umana”
(Taubes, 2019).

È possibile allora tracciare un collegamento tra ciò che i sociologi definiscono defuturizzazione, ossia la progressiva scomparsa della dimensione del futuro che caratterizza la condizione postmoderna, e l’individualizzazione della speranza escatologica, ossia la sostituzione dell’attesa della venuta del regno (la salvezza collettiva) con la preoccupazione sul destino individuale dopo la morte?

Il regno di Dio è vicino?
Tra i sostenitori moderni dell’interpretazione escatologica della predicazione di Gesù c’è lo storico Bart D. Ehrman, un ex cristiano rinato poi convertitosi all’ateismo dopo aver preso atto che l’interpretazione letterale delle sacre scritture è letteralmente insostenibile. Ehrman, che ha dedicato molti best-seller alla ricostruzione del vero messaggio gesuano, ha esposto di recente in Inferno e paradiso. Storia dell’aldilà (2020) la sua tesi secondo cui Gesù in realtà non credeva affatto nell’esistenza dell’inferno e in generale di una punizione eterna per le anime di coloro che non si fossero convertite. I riferimenti alla “punizione eterna” presenti nei Vangeli si riferirebbero, secondo Ehrman, alla possibilità che le anime dei dannati vengano distrutte, ma senza un’eternità di tormenti. Altri passaggi su cui si è basata la successiva dottrina della punizione infernale, come quella di Lazzaro e del ricco Epulone (in Luca 16), sarebbero aggiunte successive. Piuttosto, Gesù sarebbe stato convinto, “come altri pensatori apocalittici a lui contemporanei”, di un imminente giudizio, al termine del quale si sarebbe verificata la promessa della redenzione su cui si basavano le speranze degli ebrei.

“Alla fine, nella tradizione cristiana, le visioni apocalittiche di Gesù sull’aldilà verranno smorzate, e si inizierà a pensare che beatitudini e pene giungeranno non solo dopo il giorno del giudizio, che appare sempre più lontano, ma subito dopo la morte. Più tardi i cristiani cominceranno a prestare attenzione quasi esclusivamente alle ricompense e alle punizioni immediatamente dopo la morte. Saranno questi sviluppi successivi che porteranno alla nascita delle idee di inferno e paradiso in cui molti ancora oggi pongono la loro fede”
(Ehrman, 2020).

C’è senz’altro del vero in quel che dice Ehrman, tesi peraltro condivisa da molti storici e teologi, come abbiamo visto. È anche vero, però, che Ehrman probabilmente enfatizza eccessivamente la componente “apocalittica” del messaggio di Gesù. Per esempio, le parabole relative al regno dei cieli presenti nei vangeli sembrano suggerire un’idea molto più posposta nel tempo dell’avvento del regno. Si pensi alla parabola del lievito e, soprattutto, a quella del granello di senape, sicuramente uscita dalla bocca stessa di Gesù in quanto ricorre in tutti e tre i sinottici nonché nel vangelo di Tommaso:

“Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami”
(Matteo 13:31-32).

A più riprese emerge l’idea che l’opera di trasformazione del mondo sia solo avviata, ma richieda tempo e pazienza perché si realizzi; il regno, ossia la dimensione futura in cui Dio viene ad abitare nella sua stessa creazione definitivamente salvata e mondata dal peccato, sarebbe presente solo in nuce al momento della predicazione di Gesù, ma quel seme è destinato in prospettiva a crescere e trasformare l’universo. Il celebre teologo evangelico Rudolf Bultmann ha dimostrato (in Storia ed escatologia, 1958) che la concezione del tempo attuale come “tempo intermedio tra la venuta (o la resurrezione o l’esaltazione) di Cristo e il compimento”, che Paolo e Giovanni avrebbero cercato di definire sulla base della dicotomia dialettica “non più/non ancora” (il mondo di prima non esiste più, il regno non è ancora venuto), sia gradualmente venuta meno in funzione del sacramentalismo. Con questo termine, Bultmann definisce da un lato il nuovo orientamento dei credenti rivolto meno all’escatologia universale e al destino del mondo che alla salvezza individuale dell’anima e all’immortalità garantita dai sacramenti; e dall’altro l’idea che i sacramenti amministrati dalla Chiesa operino già nel presente per rendere possibile la salvezza che giungerà dal futuro (Bultmann, 2017).

Il suo collega Oscar Cullmann si sforzerà di riprendere il discorso escatologico fondato sulla dialettica non più/non ancora affermando (nel classico Cristo e il tempo, del 1946) che, come sosteneva Paolo, “ogni speranza nella resurrezione futura dei corpi è fondata esclusivamente sulla fede nella già avvenuta resurrezione di Gesù Cristo” (Cullmann, 2005), cosicché il problema della mancata parusia verrebbe risolto fissando al centro del tempo cristiano la resurrezione di Gesù, mentre la salvezza finale non sarebbe che il compimento di un processo già in corso.
È in questa chiave che Salvarani rilegge il dibattito contemporaneo sull’escatologia nella teologia cristiana, impegnato in un faticoso tentativo di evitare da un lato una fatalistica e passiva attesa come in Aspettando Godot di Samuel Beckett, che Johann Baptist Metz ha definito (ricorda Salvarani) una celebrazione “dell’epocale incapacità di attendere qualcosa”, e dall’altro la tentazione di cercare di realizzare il regno futuro già qui sulla terra, come proponevano le teorie marxiste di Ernst Bloch con il suo Il principio speranza (1954).

Dal destino individuale alla salvezza collettiva
Ciò che è interessante è che sia Salvarani, che parte dalla sua posizione di credente, sia Ehrman, che parte invece da una posizione di incredulità, convergono verso una ridefinizione del concetto di salvezza nel cristianesimo che dovrebbe avere come obiettivo quello di riaprire la dimensione collettiva del futuro. Per Salvarani i credenti dovrebbero far tesoro del limite della morte come dono dell’incertezza, al punto da ridefinire il concetto stesso di Dio onnipotente “per abbracciare quella di un Dio che sta alla soglia dell’esistenza”. Il risultato sarebbe quello di ripensare la condizione del dopo, che mentre nella religione ha senso solo in vista del premio finale (il paradiso, la resurrezione) o del timore della punizione eterna (l’inferno), nella più universale dimensione della fede viene invece attesa “in maniera gratuita, senza attendersi nulla in cambio e nella prospettiva di una sempre maggiore umanizzazione del mondo”. In questo senso la chiave è quella offerta dalla provocazione di Hans Urs von Balthasar in Sperare per tutti (1985), secondo cui la vera speranza dev’essere quella che l’inferno stesso possa svuotarsi e che ogni essere umano possa infine riconciliarsi con Cristo. “Una simile speranza illimitata è cristianamente non solo permessa, ma comandata” (Balthasar, 1994).

Bart Ehrman ricorda che, lungi dall’essere una concezione moderna, quella dell’apocatastasi, ossia della salvezza di tutte le anime, era stata promossa fin dal IV secolo dall’influente teologo Origene, da Gregorio di Nissa e dal Vangelo di Nicodemo, che risale proprio a quel periodo, che racconta della discesa agli inferi di Gesù per liberare tutti coloro che vi si trovano. “Ade stesso non aveva dubbi su ciò che era accaduto: era rimasto totalmente vuoto; non era rimasto nessuno”, riassume Ehrman. L’inferno vuoto, pur non essendo diventato – per ovvie ragioni – dottrina della Chiesa, anzi da sempre in odore di eresia, resta comunque per Ehrman come per Salvarani l’unica possibile dottrina escatologica del cristianesimo, poiché non avrebbe alcun senso la speranza di un futuro oltre la morte se questa non fosse associata alla salvezza di tutti.

Escatologie scientifiche
Ma cosa possono sperare, invece, coloro che non credono? Il filosofo della scienza Telmo Pievani, fervente evoluzionista e decisamente ostile a ogni discorso metafisico, ne ha scritto in un romanzo filosofico uscito nei mesi della pandemia di Covid, Finitudine (2020). Immaginando un lungo dialogo tra Albert Camus, ferito ma non ucciso nell’incidente stradale che nella realtà gli sarà fatale, e Jacques Monod, co-autori di un testo dedicato appunto al tema della finitudine in dialogo tra scienze esatte e filosofia esistenzialista, Pievani scandaglia le diverse escatologie scientifiche proposte per soppiantare quelle religiose, mostrandone le debolezze.
Innanzitutto la speranza di un’espansione umana nello spazio: che senso ha andare su Marte, se anche questo pianeta sarà ridotto in cenere quando il nostro sole diventerà una stella rossa gigante? E in generale che senso ha sperare di salvarci da questo destino diffondendoci nell’universo, se in base al secondo principio della termodinamica anche quest’ultimo è destinato a morire?
Si passa quindi a prendere in considerazione l’ipotesi dell’ibernazione, quella su cui si fonda il sogno del transumanesimo: mettere il proprio corpo – o perlomeno il proprio cervello – sotto ghiaccio per il tempo necessario a trovare una cura non per le malattie, ma proprio per la morte, e farci risorgere tutti. A quel punto entreremmo in una società post-morte in cui davvero, a differenza “l’ultimo nemico” sarà sconfitto e potremmo dire, con Paolo: “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?” (1Corinzi, 15:55). Ma si tratta di fantasie, secondo Pievani, che si scontrano con il fatto che la macchina umana è pensata per invecchiare a partire dall’apice della sua capacità di procreare, segno che – come sostiene Richard Dawkins – non siamo altro che complessi custodi di “geni egoisti” il cui unico obiettivo è quello di riprodursi nel tempo. “La mortalità non è, sul piano evolutivo, una malattia da curare: è una condizione strutturale inscritta in ogni componente della nostra organizzazione fisiologica”.

Che dire, infine, della fede nel progresso? Non è forse vero che il progresso scientifico ci spinge sempre più in avanti, ogni volta superando limiti che sembravano invalicabili? “Anche questa, dopotutto, è paradossale rivolta contro la finitudine: sfidare con il sudore la natura ostile e avara da cui proveniamo e che ci condanna a essere mortali”, scrive Pievani. Ma alla fine il filosofo conclude che nemmeno le “magnifiche sorti e progressive” ci garantiranno l’immortalità rispetto alla finitudine. Il progresso è una falsa religione, che nasconde le sperequazioni sociali del mondo, che ha promosso il colonialismo, le guerre e il razzismo, senza contare che, da un lato, il progresso può sempre regredire, come mostra la storia anche recente, mentre dall’altro le soluzioni ai problemi che affliggono l’umanità tendono a creare nuovi problemi.
È qui che naufragano narrazioni ingenuamente ottimistiche, come quelle di Steven Pinker, che in libri come Illuminismo adesso (2018) ci mostra in tutta la sua grandezza la trionfale marcia dell’umanità verso il progresso. In realtà, se da un lato molte sfide vengono vinte (pensiamo a quanto sono calati i morti per malnutrizione, alla scomparsa del vaiolo, alla riduzione della povertà estrema), altre ne nascono, cosicché il progresso umano assomiglia molto più all’immagina camusiana di Sisifo, che non a caso ritorna continuamente nel libro di Pievani.

Che cosa possiamo sperare?
E allora, che fare? Cosa ci resta, una volta decostruite le grandi escatologie scientifiche? Pievani analizza diverse altre proposte, citando Lucrezio, l’epicureismo, la speranza monodiana che ci basti credere di ottenere l’immortalità attraverso la trasmissione del nostro DNA alla prole, o la visione camusiana del Sisifo felice. La conclusione a cui giunge, apparentemente poco originale (perché anticipata già molto tempo fa dall’essere-per-la-morte di Martin Heidegger), è però l’unica possibile. Perché non possiamo fingere che la morte non sia un problema, come suggerivano gli epicurei, perché è quel che stiamo cercando di fare da tempo senza riuscirci, ottenendo come unico risultato la defuturizzazione e la trappola del presente esteso, trasformatosi in una gabbia da cui non riusciamo a evadere, dove la realtà si ripete sempre uguale a sé stessa.
Piuttosto che accettare semplicemente la finitudine, dobbiamo considerarla una provocazione, uno scandalo, come il cristianesimo provò per primo a fare. La morte è la contraddizione della vita ed è l’unica certezza del nostro futuro. È in rapporto a essa che costruiamo i nostri progetti di vita e pertanto dobbiamo riservarle un posto centrale nella nostra riflessione. Se, come sostiene Rosa, l’accelerazione sociale è un tentativo di sostituire la promessa trascendentale della vita eterna, allora forse non dovremmo scartare così facilmente questa promessa e trovare il modo di realizzarla anche in un’epoca secolarizzata. Anziché rinunciare a sperare, bisognerebbe allora recuperare la domanda kantiana: che cosa dobbiamo sperare?
Sbaglieremmo a credere che la scienza riuscirà a liberarsi dalle sue fantasie escatologiche, perché esse sono strettamente connaturate all’impresa scientifica. La scienza, per sua natura, non può fare a meno di cercare di andare oltre la finitudine. I miti del progresso, dell’espansione spaziale o del transumanesimo non faranno altro che moltiplicarsi in futuro, perché l’essere umano non può fare a meno di sperare in un futuro migliore e in un affrancamento dalla morte, che mette fine a questa speranza.

Il rabbino e biofisico argentino Abraham Shorka, promotore del dialogo interreligioso, ha proposto di partire da un ripensamento delle categorie di “redenzione” e di “salvezza”, che potremmo usare anche in chiave laica per restituire alla società contemporanea una capacità di agire in vista del futuro. La redenzione (in ebraico geulah) e la salvezza (yeshuah) non significano esattamente la stessa cosa: la redenzione allude “al ritorno a una situazione ideale del passato che è stata compromessa o persa”, espressione della visione ebraica “di una società ideale dove la terra o i beni erano divisi in modo equo tra le famiglie per renderle autosufficienti”, e pur provenendo in ultima analisi da Dio richiede lo sforzo collaborativo degli uomini. La salvezza è invece la liberazione dell’essere “da un’oppressione inerente alla condizione umana”, e nei suoi confronti va riposta fede e speranza, essendo legata alla promessa di Dio. Shorka ritiene che con l’avvento del cristianesimo questi due concetti abbiano preso a divergere, mentre è arrivata l’ora di provare a unirli.

“Dalla prospettiva ebraica, il concetto di «redenzione» chiede e impone a entrambi di lavorare insieme per correggere, con l’aiuto dell’Eterno, ciò che ha preso una strada sbagliata. Senz’altro l’attuale pandemia globale, le crisi economiche, il razzismo e la divisione diffuse, come anche la fame e la mancanza di un tetto, esigono che cerchiamo di «redimere» la situazione, di adoperarci per restituire il mondo al disegno che Dio ha per lui. In questa comprensione del processo di redenzione, agli esseri umani compete un ruolo attivo perché, secondo i Saggi, agendo con giustizia e rettitudine diventano collaboratori di Dio nel completare la creazione dell’universo”
(Shorka, 2020).

Quello che possiamo sperare, dunque, per rispondere oggi alla domanda kantiana, non è riuscire a vincere la morte né finire in paradiso, ma operare nel mondo, generazione dopo generazione, nella speranza che il nostro agire sarà in grado di cambiarlo radicalmente e renderlo più simile a ciò che desideriamo, sapendo che forse questo sforzo non avrà mai fine ma nondimeno provandoci e sperando. Come conclude brillantemente Pievani:

“Bisogna immaginare Sisifo inquieto. Inquieto non dell’inquietudine di chi insegue piaceri innaturali e non necessari – fama, gloria, onori, potere e ricchezze – ovvero piaceri che non soddisfano bisogno reali e non eliminano il dolore, ma, al contrario, generano affanni e angosce. No: la sua, la nostra, è un’inquietudine costitutiva, una disobbedienza congenita. La finitudine ci lascia infatti senza requie, tormentati. La sappiamo invincibile, ma ciò nonostante la sfidiamo, e così facendo protestiamo contro la morte. Consapevoli della caducità di tutte le cose, ci attacchiamo alla vita fin dal primo vagito, tanto che ci sembra una preghiera il suggere della bocca nei cuccioli d’uomo e animale”.

Letture

  • Barbara Adam, Time and Social Theory, Polity Press, Cambridge, 1990.
  • Hans Urs von Balthasar, La mia opera ed epilogo, Jaca Book, Milano, 1994.
  • Hans Urs von Balthasar Sperare per tutti – Breve discorso sull’inferno – Apocatastasi, Zygmunt Bauman, Il teatro dell’immortalità. Mortalità, immortalità e altre strategie di vita, Jaca Book, Milano, 2017.
  • Rudolf Bultmann, Storia ed escatologia, Queriniana, Brescia, 2017.
  • Conferenza Episcopale Italiana, La Sacra Bibbia, San Paolo Edizioni, Roma, 2008.
  • Oscar Cullmann, Cristo e il tempo, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2005.
  • Helga Nowotny, Time: The Modern and Postmodern Experience, Polity Press, Cambridge, 1996.
  • Steven Pinker, Illuminismo adesso, Mondadori, Milano, 2018.
  • Hartmut Rosa, Accelerazione e alienazione, Einaudi, Torino, 2015.
  • Abraham Shorka, Su salvezza e redenzione, Osservatore romano, 21 dicembre 2020.
  • Jacob Taubes, Escatologia occidentale, Quodlibet, Macerata, 2019.