A che gioco giochiamo?
Alla ricerca di realtà

Steven Spielberg
Ready Player One
Cast principale: Tye Sheridan,

Olivia Cooke,
Ben Mendelsohn,
T.J. Miller, Simon Pegg,
Mark Rylance
Produzione e distribuzione:
Warner Bros, 2018

Steven Spielberg
Ready Player One
Cast principale: Tye Sheridan,

Olivia Cooke,
Ben Mendelsohn,
T.J. Miller, Simon Pegg,
Mark Rylance
Produzione e distribuzione:
Warner Bros, 2018


Basato sul romanzo Player One di Ernest Cline (2011a), Ready Player One di Steven Spielberg si svolge in un 2045 elettronicamente sfavillante. Passa tutto per Oasis, un videogioco che è anche un social network totalizzante, un Facebook futuribile che rende irrilevante il mondo fisico inglobando le relazioni sociali ed economiche veramente significative.
Vincere nel mondo-videogioco significa vincere nella vita intesa come realtà rilevante. Che ne è del mondo fisico? La realtà materiale è visualizzata da Spielberg enfatizzando lo squallore distopico degli “stacks”, bidonville a forma di alveare in cui pare viva la maggior parte della popolazione.
Il defunto creatore di Oasis, James Halliday, lascia in eredità il controllo economico e legislativo della piattaforma digitale a chiunque riesca a risolvere una scia di enigmi appositamente concepiti e disseminati nel gioco. Proprio come Willy Wonka, l’eccentrico uomo d’affari che in La fabbrica di cioccolato (2005) decide di lasciare il suo business dolciario in eredità a Charlie Bucket, un ragazzino poverissimo (cfr. Dahl, 1994). Dalla cima di una pila di baracche in Ohio, il giovane Wade Watts (con il suo avatar chiamato Parzival) partecipa alla caccia elettronica incarnando l’umiltà del piccolo Charlie. Riuscirà Parzival a trovare il Sacro Graal e a sollevare l’ideale spada nella roccia lasciata dal re dei videogame?

Fantasy non vuol dire solo fantasia
Il seme che ha ispirato l’idea di Oasis viene piantato negli anni Ottanta, quando si diffondono i primi MUD (Multi-User Dungeon) mondi virtuali, generalmente di ambientazione fantasy derivata da John R.R.Tolkien, in cui più persone possono incontrarsi in rete (prima di internet esistevano altre modalità) e collaborare o affrontarsi discutendo e interagendo con oggetti e ambienti virtuali (cfr. Bartle, 2004).

Il game designer Richard Garriott rilancia l’idea con il suo Ultima Online, uno dei primi grandi successi planetari per questo genere videoludico e, idealmente, progenitore di Oasis. Quando Garriott coniò il termine MMORPG (Massively Multiplayer Online Role-playing Game) questo divenne di uso comune e diede forma e identità a un appassionante meccanismo di interazione tra contendenti che ha ormai conquistato un ruolo centrale nell’industria del gioco elettronico. Con il suo alter ego Anorak, Halliday richiama la figura del Dungeon Master (abbreviato in DM) ovvero il giocatore che crea il mondo del gioco stabilendo regole e situazioni (cfr. Tweet, Cook, Williams, 2001) che gli altri devono seguire.
La descrizione di Anorak (nel libro come nel film) si ispira a un’illustrazione di Jeff Easley presente sulla copertina di una popolare guida al gioco Advanced Dungeons & Dragons (cfr. Gygax, 1983) pietra miliare del fantasy e fondamentale riferimento della cultura nerd anni Ottanta. Come ha affermato lo stesso Cline, la vita di Garriott è una leggenda centrale nella cultura nerd (cfr. Cline, 2011b). Certificata tra l’altro anche dal fatto che è stato uno dei primi turisti spaziali. Anorak è, quindi, anche un omaggio a Lord British, alter ego di Garriott in Ultima Online e travestimento con cui questi si presentava in quasi tutte le occasioni pubbliche rimarcando simbolicamente la saldatura nerd tra persona e avatar. Siamo all’alba dei reami cibernetici totalizzanti e della diffusione dei giochi di ruolo: due momenti di rottura storici anche per il modo di intendere il gioco.

In anni recenti numerosi studi stanno dimostrando l’importanza dei giochi di ruolo sul piano pedagogico e anche rispetto alla formazione di pensiero divergente e creativo (cfr. Bowman, 2010). Tra mostri, razze e duelli, i giochi di ruolo sono costituiti da complesse relazioni sociali che richiedono documentazione, collaborazione interpersonale e un pizzico di audacia nelle scelte. Non è forse questo il senso del lavoro di squadra in un ambiente lavorativo e forse della coesione sociale in generale? Del resto sia controllare il gioco come DM sia affrontare le sfide da giocatore implica lo sviluppo di strategia e di logica ma anche di facoltà narrative per prefigurare i pericoli e le possibili soluzioni. Da notare che in tutti i film che descrivono sistemi sociali virtuali, che sia esplicito o meno lo schema del gioco, c’è un DM, quasi sempre simulacro del programmatore/creatore: il Master Control Program in Tron (1982), gli Stranieri in Dark City (1998), l’agente Smith in Matrix (1999). Alla fine di queste storie, il Davide trionfa sempre sul Golia e i giocatori finiscono con il destabilizzare la costruzione sociale che trovano mettendo in discussione o detronizzando il DM per creare nuove regole.

Benvenuti nel labirinto delle citazioni pop
La sfida lanciata da Halliday è quella di risolvere gli enigmi esplorando una sterminata rappresentazione grafica di tutto quanto sia mai stato immaginato e narrato. Densissimi sfondi impreziosiscono le sequenze action: mashup retromaniacali che spaziano da Star Wars fino a King Kong. In questo complesso cyberspazio è evidente il processo di “rimediazione” (cfr. Bolter e Grusin, 2000) con vecchi miti e vecchie forme espressive che migrano in forme nuove. Qui si immagina ancora intatto nel 2045 il senso della “transmedialità” e della cultura della “convergenza” ovvero il bisogno culturale profondo di consumare sempre gli stessi miti e gli stessi contenuti (cfr. Jenkins, 2007) trasportandoli dai vecchi media a Oasis. Visori tridimensionali e tute che restituiscono un feedback aptico a tutto il corpo possono garantire una nuova vita a qualsiasi frammento di immaginario. Anche per questo quella del game designer è oggi una professione molto interessante perché si trova al centro di forti spinte economiche che guardano al futuro ma che implicano la rimediazione dell’immaginario passato, terreno di coesione con il pubblico. Necessario per chi produce ambienti virtuali (videogiochi ma anche pubblicità e comunicazione web in generale) conoscere l’immaginario, imparare a manipolarlo, respirarlo per fiutare i cambiamenti.

Le differenze rispetto al romanzo
Il viaggio nelle citazioni pop anni Ottanta nel film finisce col mettere in secondo piano il modo in cui il mondo digitale influisce su quello fisico. La sceneggiatura di Zak Penn si concentra sulla caccia al tesoro omettendo tutte le visioni futuribili concepite da Ernest Cline (che ha partecipato all’adattamento approvando quindi le scelte) gettandoci in un mondo distopico che percepiamo in rovina ma senza capire bene il perché.
Nel film solo brevi cenni, di solito gag che mostrano persone intente a giocare con la realtà virtuale nei contesti più improbabili, oppure presenze inquietanti non approfondite come i “centri di riqualificazione” progettati per reindirizzare il comportamento dei dissidenti. Lampi veloci per non disturbare l’azione ma che finiscono col rimandare a uno sfondo narrativo distopico che, in questi anni, altre narrazioni audiovisive come Black Mirror, Mr. Robot o Westworld stanno esplorando molto più proficuamente. Insomma la skyline delle città-baraccopoli deve bastare da sola a spiegare il perché la gente preferisca fuggire dal mondo fisico e passare le giornate in un videogioco. Non che il romanzo vada molto oltre, ma vi è senz’altro più spazio dedicato alle implicazioni di una società modellata attorno alla realtà virtuale. Vi troviamo ad esempio Wade Watts che è costretto a frequentare una scuola pubblica sul pianeta Ludus all’interno di Oasis perché vittima di bullismo in una scuola reale. Cline riesce così a esporre le specificità di un immaginario sistema didattico basato sul cyberspazio.

Ma gli spunti interessanti sono altrove: il regista segue la traccia di Ernest Cline ma cerca di usare la soggettiva psicologica dei giovani protagonisti (il luogo spielberghiano del gruppo di ragazzini che scappa con le biciclette, tutti idealmente orfanelli) per dare uno scopo più pregnante al safari dei riferimenti pop anni Ottanta. Né sopravvivenza, né sopraffazione: piuttosto il progresso viene dalla capacità di tradurre e di comprendere ciò che non si conosce e che sembra strano. Capire l’alieno ovvero l’altro da sé, di solito dando ascolto alla voce del proprio bambino interiore, come in E.T. l’Extraterrestre o Incontri ravvicinati del terzo tipo. E l’alieno Halliday propone un gioco che, nella sua fase conclusiva, tocca tematiche importanti come il possesso del gioco stesso e quindi il diritto a cambiarne (o rinforzarne a seconda dei punti di vista) le regole. In qualità di alter ego di Spielberg, Halliday esce di scena in compagnia del sé stesso bambino, ulteriore avatar che rappresenta una ipotetica riconciliazione con il suo bambino interiore.

Il regno della gratificazione e della gamification
Inserire elementi di redditività o comunque premi di grande rilevanza sociale in Oasis implica una radicale ridefinizione del concetto di intrattenimento e di tempo libero. Con la modernità il “nuovo tempo libero, strappato alla necessità, si carica dei contenuti altri rispetti a quelli del lavoro, della famiglia e della festa” (Morin, 2005). Nel 2045 non vi è più alcuna separazione tra il tempo libero nella sua accezione moderna e il lavoro. Già oggi la mutazione post-moderna mette in risalto quello che il sociologo Robert Stebbins definisce “tempo impegnato” (“serious leisure”), ovvero una sostanziale coincidenza tra il tempo dello svago e quello dell’autoformazione professionale (cfr. Stebbins, 2007). Forse profetico questo 2045 in cui è stata ascoltata eccome la voce del bambino interiore spielberghiano.
Non dimentichiamo che Cline, classe 1972, è stato a sua volta esposto da giovane a quegli anni Ottanta che Spielberg ha contribuito a plasmare. Il gioco che un tempo era considerato manifestazione di infantilismo, di ozio capitalistico e di intrattenimento effimero è, di fatto, il principale (se non l’unico) vettore di cambiamento collettivo e individuale nel 2045. Come dice Wade, “le persone vengono in Oasis per quello che possono fare, ma rimangono per quello che possono essere”.

I vestiti e l’aspetto fisico simulato sono frutto di precise scelte estetiche ed economiche che finiscono con il definire l’essenza identitaria. L’essere si rovescia nell’apparire e diventa pura informazione. Colui che vive con il cervello fuori dalla testa e i nervi fuori dalla pelle ha perso il senso della separazione tra interiorità ed esteriorità, tra essere e apparire (cfr. McLuhan, 2015).
Le interfacce e i dispositivi con cui passa sempre più tempo il videogiocatore “pretendono che il corpo si annulli, che sparisca, che si distacchi dall’identità, che perda il suo peso, la sua biologia, i suoi tradizionali riferimenti spazio-temporali” (Pecchinenda, 2003). Si cresce insieme al proprio capitale di beni virtuali che diventa via via sempre più sofisticato.
In effetti la morte in Oasis coincide con la perdita della propria armatura ovvero delle customizzazioni conquistate, acquistate, disegnate, sognate: momento frustrante perché segnato dalla consapevolezza di dover ricominciare l’accumulo da zero. Il videogioco ridefinisce radicalmente il rapporto tra corpo biologico e corpo artificiale.
Nel 2018 abbiamo già da decenni ambienti digitali collaborativi in cui individui possono incontrarsi e perseguire le proprie fantasie customizzando il proprio aspetto, perfezionando le proprie abilità o la propria funzione narrativa.
Oggi la app economy è uno dei settori trainanti dell’economia digitale e ruota in larga misura intorno al videogioco o alla gamification intesa come accumulo di punteggio o come gioco di ruolo. In Ready Player One ci sono qua e là frecciatine satiriche sull’industria contemporanea come ad esempio le mire del malvagio capitalista IOI che vorrebbe riempire Oasis di popup pubblicitari e subdole inserzioni. Ma tra presa di coscienza sul sistema mediatico e divertimento, il film (come il romanzo) sembra volersi schierare decisamente verso il divertimento. Eppure questa caccia al tesoro ha già (il libro è del 2011) stimolato una prima generazione di sviluppatori di virtual reality. Palmer Luckey, fondatore di Oculus, ha distribuito una copia del romanzo a tutti i suoi dipendenti (cfr. Shepherd, 2918). Oggi i big player dell’elettronica di consumo prendono molto sul serio le intuizioni dei MMORPG o di ambienti come Second Life e stanno lavorando a partire dal presupposto che i visori diventeranno sempre più leggeri e alla portata di tutti. Già raggiunta una perfetta sincronia tra ciò che si vede nel visore e i movimenti della testa e del corpo. Dopo anni di false partenze, l’industria della VR ora sembra pronta ai blocchi di partenza e una spinta importante sarà sempre e comunque la possibilità di vivere relazioni con persone reali, rigorosamente non in carne ed ossa.

Capire Rosebud e l’Overlook Hotel
Lo straordinario accentramento di potere economico determinato da Oasis rende ogni minuto della vita di Halliday degno di attente e approfondite analisi. Con una posta in gioco così alta è logico che la corporation senza scrupoli paghi talenti videoludici ed esperti culturologi per analizzare la cultura pop novecentesca sperando di capire cosa passava per la mente del defunto DM. L’esercito di mercenari IOI è un’armata minacciosa solo se vista da lontano: a ben vedere Spielberg ci mostra impiegati, esperti di programmazione e di cultura pop messi in campo per perseguire lo stesso scopo di Wade.
In fondo è la metafora della ricerca di tanti narratori contemporanei in cerca di ispirazione in questi anni di nostalgia retromaniacale: si prova a decodificare la ricetta segreta dei blockbuster audiovisivi e videoludici degli anni Ottanta. Una sterminata forza-lavoro intellettuale che è operativa a Hollywood (ma anche in tutte le altre industrie della comunicazione) e lavora tutti i giorni a testa bassa in un gioco senza cuore di montaggio e smontaggio sperando di trovare l’emozione del bello in una combinazione vincente di pezzi. Alchimia riuscita ad esempio ai fratelli Duffer, nati nel 1984, che hanno realizzato un serial di straordinario successo come Stranger Things basato proprio su una fitta rete di rimandi agli anni Settanta e Ottanta. Quando Wade/Parzival intuisce che il Sacro Graal è nascosto nella biografia di Halliday, il film si avvicina a Quarto Potere di Orson Welles. A cercare il fantasma di Halliday non è un giornalista, un detective o un ambizioso giovane startupper ma un giovane sprovveduto nerd patito di videogiochi che vuole risolvere un puzzle e far colpo su una ragazza. Da notare che sono gli occhi virtuali di Parzival, l’avatar di Wade, a visitare la biblioteca contenente le memorie digitali di Halliday: un avatar che osserva le registrazioni video di persone in carne e ossa. Wade e soci sono fantasmi elettronici che inseguono altri fantasmi, come sembra evidente anche nella terrificante corsa tra i corridoi dell’Overlook Hotel, giusto tributo a Shining di Stanley Kubrick.
Nell’esaltare figure semplici come il ragazzino politicizzato dalla sua cotta per la ragazza o il sociopatico Halliday, degno patriarca nel distopico 2045, Spielberg chiude la ricerca cavandosela con battutine e ammonimenti rivolti ai giovani e agli startuppers: collaborate, condividete, non passate troppo tempo con il lavoro o lontano dal mondo fisico.
Ecco la misura della profondità umana incarnata da James Halliday: “non vado matto per la realtà ma è pur sempre l’unico posto dove trovare un pasto decente”. In questo pazzo 2045, anche chi se ne va in giro con in tasca un dottorato nerd può finalmente diventare l’anima della festa.

Letture
  • Richard Bartle, Designing Virtual Worlds, New Riders, Indianapolis, 2004.
  • Jay D. Bolter, Richard Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Guerini e Associati, Milano, 2002.
  • Sarah Lynne Bowman, The Functions of Role-Playing Games: How Participants Create Community, Solve Problems and Explore Identity, McFarland, Jefferson, North Carolina, 2010.
  • Ernest Cline, Player One, Isbn Edizioni, Milano, 2011a.
  • Ernest Cline, How Lord British Inspired Anorak, in Ernie’s Blog, 2011b.
  • Roald Dahl, La fabbrica di cioccolato, Salani, Firenze, 1994.
  • Gary Gygax, Advanced Dungeons and Dragons (Dungeon Masters Guide), TSR Inc., Lake Geneva, Wisconsin,1983.
  • Henry Jenkins, Cultura convergente, Milano, Apogeo, 2007.
  • Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 2015
  • Edgard Morin, Lo spirito del tempo, Meltemi, Milano, 2005.
  • Gianfranco Pecchinenda, Videogiochi e cultura della simulazione: la nascita dell’“homo game”, Laterza, Bari, 2003.
  • Jack Shepherd, Ernest Cline interview on Ready Player One, working with Steven Spielberg, and the future of virtual reality, in The Independent, 2018.
  • Robert A. Stebbins, Serious Leisure: A Perspective for Our Time, Transaction Publishers, Piscataway, New Jersey, 2007.
  • Jonathan Tweet, Monte Cook e Skip Williams, Guida del Dungeon Master, Twenty Five Edition, Parma, 2001.
Visioni
  • Steven Lisberger, Tron, Walt Disney, 2011 (home video).
  • Alex Proyas, Dark City, New Line, 2008 (home video).
  • Lilly e Lana Wachowski, Matrix, Warner Bros, 2018 (home video).
  • Sam Esmail, Mr. Robot: Stagione 1, Universal, 2017 (home video).
  • Jonathan Nolan e Lisa Joy, Westworld, Warner Bros, 2017 (home video).
  • Steven Spielberg, E.T. l’Extraterrestre, Universal, 2017 (home video).
  • Stanley Kubrick, Shining, Warner Bros, 2007 (home video).
  • Matt e Ross Duffer, Stranger Things, Netflix, 2016 (streaming).
  • Orson Welles, Quarto potere, Dynit RKO, 2015 (home video).