Trama e ordito su misura
per un piccolo grande sarto

Sonia Liza Kenterman
Raftis (2020)
Cast principale: Dimitris Imellos,
Tamila Koulieva, Thanasis Papageorgiou,
Stathis Stamoulakatos,
Dafni Michopoulou

Produzione: Argonauts Productions SA,
Elemag Pictures, Made in Germany,
IOTA Production 

Sonia Liza Kenterman
Raftis (2020)
Cast principale: Dimitris Imellos,
Tamila Koulieva, Thanasis Papageorgiou,
Stathis Stamoulakatos,
Dafni Michopoulou

Produzione: Argonauts Productions SA,
Elemag Pictures, Made in Germany,
IOTA Production 


D’accordo, la presenza di una sottotrama basata su una fragilissima relazione sentimentale increspa la storia, ma neanche più di tanto. La maschera creata da Dimitris Imellos per dar vita a Nikos, il suo personaggio, quello principale di Raftis (ovvero, sarto), è di una forza tale da conquistare alla prima inquadratura e tutto il resto lo si lascia correre. Mascella quadrata perfetta come calco per una maschera dell’antico teatro greco, occhi che ancora subiscono l’incanto del mondo, un sorriso fanciullesco appena accennato sul volto di questo cinquantenne non ancora cresciuto.
La storia raccontata dalla regista Sonia Liza Kenterman nel suo primo lungometraggio, selezionato per la Mostra Concorso al Bergamo Film Meeting, è di quelle che non ti abbandonano mentre scorrono i titoli di coda. Si strizza l’occhio ai buoni sentimenti, alla giustizia sociale, alla creatività, ma sempre con grazia mescolando la fiaba un po’ surreale della vicenda con i tratti metafisici del personaggio, i cui gesti paiono a metà strada tra l’immobilità dei manichini dechirichiani (e in fondo lui fa il sarto) e l’enigmatico procedere di Chance, il giardiniere incarnato dall’immaginifico Peter Sellers in Oltre il giardino (Ashby, 1979). Tutto raccontato con buon ritmo, facendo leva sulle emozioni essenziali, adoperando un registro morbido, agitando il buono che c’è in noi.

L’impiego voluto di un registro agrodolce
È un film volutamente leggero, lontano dalle atmosfere weird à la Yorgos Lanthimos e di tutto un filone del nuovo cinema greco, quello di Athina Rachel Tsangari e Alexandros Avranas, per intenderci. Altrettanto distante dalla trama fittissima di un film come Il filo nascosto (2017) di Paul Thomas Anderson, dove si taglia e si ricuce una relazione oltre che creare abiti di moda, Raftis è un film godibile, ma non banale, che si pronuncia per un cinema, dall’inequivocabile marchio di fabbrica europeo, ma che prende a prestito la leggerezza di certe commedie hollywoodiane, senza risultare insostenibile.
Il teatro della storia è la Grecia stretta nella morsa della crisi economica nel primo decennio del XXI secolo, una tragica realtà che nella finzione si incarna nell’andamento fallimentare della sartoria di Nikos e di suo padre dal quale ha eredito il mestiere e la gestione dell’attività. Un compito che il figliolo, scapolo, oramai cinquantenne, assolve scrupolosamente.

Ogni mattina la sua vestizione si compie sotto il segno della perfezione. Quando si conclude, impeccabile e imperturbabile, Nikos apre il negozio e attende i clienti. Nell’attesa, si guarda intorno, spolvera il bancone, si guarda intorno, ma non entra nessuno. Una scena che si ripete identica giorno dopo giorno. È uno dei momenti più belli del film, in grado di disegnare il personaggio e il suo ambiente a tutto tondo con poche inquadrature e un montaggio senza fronzoli. Nikos appare subito al sicuro tra le pareti della sua sartoria, ma del tutto indifeso nei confronti del mondo esterno. La sua sicurezza è fatta di ripetizioni, di certezze, come la disposizione dei tessuti, degli arnesi, delle splendide macchine da cucire Singer d’epoca che la regia porta in scena con merito. Quello di Nikos è un mondo ordinato, ed è un ordine conservato a dispetto del caos esterno che viene quotidianamente rinnovato.

Un universo privato che va in frantumi
Questo piccolo grande sarto rimanda inevitabilmente a un’intera serie di anti eroi della letteratura novecentesca, tutti guarda caso alle prese con l’edificazione e/o la conservazione di un’impalcatura logica che dia un senso al mondo, uno qualsiasi, evitando lo smarrimento che segnava il volto di Buster Keaton; un’espressione che si intravvede anche in Nikos quando prende atto del bilancio fallimentare del giorno, perché una volta ancora nel negozio non è entrato nessuno.
È la crisi. L’abito sartoriale fatto su misura, realizzato con stoffe di qualità, è un lusso che non ci si può permettere: è la crisi. Ci sono sarti e sarti, le griffes globalizzate, le maison da un lato e gli artigiani dall’altro, amanti della loro arte, quasi custodi di riti antichi (non dimentichiamo che siamo in Grecia), assolti con cura maniacale. Non mancano gli effetti collaterali: tic e nevrosi. Nikos, per esempio, muove ritmicamente il piede come se stesse azionando una macchina da cucire anche quando è semplicemente a tavola o seduto a conversare, oppure è in grado di notare il benché minimo elemento fuori posto nell’abbigliamento dei suoi interlocutori, fosse anche un filo di cotone che allentandosi rende pericolante un bottone dall’asola di una giacca.

Tanto amore per questo sapere trasmesso di padre in figlio che nulla può contro l’implacabile crisi economica. A causa dei troppi debiti l’azienda sarà pignorata dalla banca. L’ombra cupa non arriva da Mordor ma scende implacabile dai palazzi della finanza internazionale nel piccolo universo di Nikos, una vera e propria terra di mezza in sedicesimo. Suo padre, burbero, autoritario, ma in fondo tenero con suo figlio, dopo un grave malore finisce in ospedale. Il suo figliolo è costretto a rendersi indipendente: dovrà gestire da solo la sartoria, uscire dalla crisi.
Flessibilità, resilienza, si direbbe oggi, ma gratta gratta è tutta questione di affidarsi all’arte di arrangiarsi, o forse gli viene in soccorso l’antico adagio di Maometto e la montagna: non aspetterà in negozio i clienti ma li andrà a cercare per strada, si recherà lui da loro. Il primo esperimento è destinato anch’esso al fallimento. Le stigmate del cambiamento sono già apparse, ma l’idea forte deve ancora maturare. Nikos si ingegna, costruisce un bancone ambulante contenente la sua mercanzia e lo trascina per le strade di Atene alla ricerca di clienti nei mercatini popolari.

Barcamenarsi in un mondo grande e alieno
Si aggira nel traffico ateniese rimandando una volta ancora alle gag del cinema muto, scucendo la simpatia dello spettatore, incurante di quel filo di ruffianeria nei suoi confronti che appare presto evidente. Nikos si renderà conto assai presto che i suoi abiti sono inaccessibili in tempo di miseria dilagante. Esemplare la gag al mercato all’aperto con due ragazzi, possibili clienti presto spaventati dal costo esorbitante degli abiti. Impassibile perché del tutto sconnesso dalla cruda realtà, Nikos non si rende conto del loro sconcerto e spiega l’origine del prezzo elevato del cashmere, entrando nel dettaglio del taglio del vello, del particolare microclima che caratterizza quelle terre d’Australia e così via, ma quando termina i due giovani si sono volatilizzati. Occorre altro, ripensarsi, e su una strada di Atene, Nikos viene illuminato da una donna che gli chiede dall’alto, da un balcone se cuce anche abiti da sposa. A questo punto della storia, la sottotrama a cui si è fatto cenno in apertura ha già iniziato a delinearsi.

Nel mondo di Nikos, tra gessetti, forbici, cartamodelli e quant’altro, c’è la famiglia dei vicini: lui, Thanasis (Thanasis Papageorgiou) tassista, lei, Olga (Tamila Koulieva) con un passato da sarta, e la loro figlia Victoria (Dafni Michopoulou), bambina con la quale si è instaurata una relazione privilegiata, fatta di segnali luminosi e messaggi che viaggiano su barchette di carta grazie a fili stesi tra il balcone di lei e la finestra di lui. La complicità tra la bambina che appare più adulta dei suoi anni e il sarto, più piccolo di quanto dichiarato dalla propria carta d’identità, è la dimensione più genuinamente fiabesca dell’intera vicenda, scevra da qualsiasi altro pericoloso risvolto.

L’amore tra spilli e tulle
La vera relazione pericolosa è quella che nascerà in seguito con sua madre, Olga. Tutto cova nella lunga frequentazione quotidiana conseguenza del coinvolgimento nella nuova attività che Nikos ha oramai intenzione di avviare: fare abiti da sposa, su misura certo, ma a prezzi accessibili. Sarà una storia fatta di sguardi, di progressiva complicità e attrazione, destinata sul nascere a finire. Insieme inventeranno abiti da sposa ricorrendo anche al riciclo di materiali, creando abiti che appaiono favolosi alle giovani che in quella festa vedono un momento di riscatto, di gioia e di eccesso fuori dai confini della vita quotidiana. Lei appare impercettibilmente sedotta dai modi gentili e buffi, dall’eleganza (Nikos è sempre vestito in modo impeccabile, qui l’abito fa il sarto), dalla timidezza. Quanto a lui, è evidente che si tratta del primo amore, che non può mancare in una storia di formazione come questa. Il capitolo principale è però la nuova attività sartoriale. Nikos si perfeziona nella sua attività, si è motorizzato (ora il suo box ambulante è trainato da una rutilante Suzuki), ha ricevuto anche la tacita approvazione dall’austero genitore, non senza contrasti (“è un lavoro per sartine”, sbotta sulle prime), è anche in grado, finalmente, di negoziare i prezzi, raggiungendo un equilibrio tra denaro e baratto. Del tutto cresciuto, potrà uscire anch’egli dal giardino e affrontare il mondo.

Sappiamo bene che le sconfitte non si faranno attendere, che la vita saprà mostrare il suo volto più duro, che altre ferite si rimargineranno e l’altalena tra gioie e sofferenze proseguirà, ma lasciamo il sarto Nikos affrontare la vita con una nuova sicurezza alla guida della sua azienda mobile. È un lieto fine? No, piuttosto un lieto inizio, per Nikos, non quello del film. È una fiaba? Sì, ma che male c’è a raccontarsene una? L’importante è farlo bene, e Raftis lo fa.