Marckalada: tra filologia
e indagine poliziesca

Paolo Chiesa
Marckalada
Quando l’America
aveva un altro nome
Laterza, Bari, 2023

pp. 168, € 16,00

Paolo Chiesa
Marckalada
Quando l’America
aveva un altro nome
Laterza, Bari, 2023

pp. 168, € 16,00


Negli ultimi anni la produzione e la pubblicazione saggistica in Italia hanno visto emergere con particolare veemenza due principali categorie di testi: la divulgazione scientifica da un lato e la divulgazione storica dall’altro. Entrambi questi segmenti hanno dimostrato di poter ottenere un notevole successo di pubblico, attestando che, quando la saggistica è frutto di un lavoro responsabile e ha come obiettivo la diffusione anche in campo non accademico delle sue ricerche, questa può raggiungere un numero notevole di lettori e di conseguenza ampie fette di mercato. Il volume di Paolo Chiesa Marckalada. Quando l’America aveva un altro nome, edito da Laterza, rientra ovviamente nella divulgazione di carattere storico, e sostanzialmente porta avanti due linee discorsive, sebbene queste non siano applicate in modo sequenziale quanto piuttosto in un gioco di continui richiami reciproci.
Nella prima viene descritto e narrato, in modo assolutamente appassionante e coinvolgente, il lavoro di ricerca che è stato fatto per recuperare e rintracciare la fonte manoscritta di cui il volume si occupa. Nella seconda, invece, l’autore si dedica a decostruire la metodologia di indagine, dedicando diversi capitoli alla valutazione stessa del lavoro del filologo. Perché Paolo Chiesa è un filologo, precisamente un professore di Letteratura latina medioevale e di Filologia mediolatina. È quindi in questo contesto che veniamo a scoprire in cosa consiste il suo lavoro, e proviamo a comprendere cosa significa analizzare un testo da un punto di vista filologico, prima ancora che storico.
La differenza è sottile, ma passo dopo passo emerge anche agli occhi del profano. Chiesa ci mostra difatti come nella ricerca si declini una vera e propria economia delle fonti, e come lo studioso le soppesa, e le utilizza (o meno) proprio ai fini dello studio in corso. Le fonti sono, agli occhi dello studioso, pezzi di un mosaico, del quale però la gran parte è andata perduta. È evidente quindi che la scelta di determinati tasselli, o la scoperta di nuovi, porterà a ipotesi diverse circa il disegno che si cerca di ricostruire. Dare peso a una singola frase recuperata in un manoscritto, oltre tutto non originale bensì ritrovato nella versione di un copista, e su questa sola frase ricostruire un complesso di ipotesi, è una scelta precisa, che può essere non condivisibile, e di cui il filologo si assume la responsabilità, insieme alle conseguenze che comporta.

In questi capitoli traspare perciò, oltre alla metodologia utilizzata e sostenuta dall’autore, anche il valore delle scienze umane, che costituiscono il fulcro del suo mestiere, unito al valore dell’insegnamento, che viene in diverse occasioni ribadito e a cui ha dedicato tutta la vita accademica. Chiesa, infatti, si definisce un insegnante alle soglie della pensione, e il suo è – in un certo senso – anche il tentativo di dare diffusione a temi che lo appassionano profondamente (come traspare da ogni pagina) e che altrimenti rimarrebbero estranei alla gran parte dei lettori. Vi è quindi un duplice registro da tenere presente nell’affrontare il volume. Da un lato, come si è detto, l’appassionata ricerca storica compiuta e i risultati ottenuti, dall’altro il lavoro di indagine sui fondamenti metodologici della ricerca stessa. Soprattutto, viene qui testata anche la qualità di un sistema come quello accademico, che, se da un lato dimostra la sua età avanzata, e quindi i suoi limiti, dall’altro continua a essere tutto ciò che abbiamo per cercare codificare il sapere umanistico. Difatti, se il sapere scientifico è da tempo uscito dalle università, per accedere all’industria e ai laboratori di ricerca privati, questo passaggio per gli studi letterari, storici e filosofici non è mai avvenuto. È un bene? Come in ogni campo vi sono aspetti contrastanti, e, per il lettore che vorrà coglierle sono questioni che traspaiono in questo testo.

La Cronica di Galvano Fiamma
Il volume in prima istanza è perciò la narrazione di una scoperta avvenuta in modo assolutamente casuale, e che si è dimostrata gravida di conseguenze. L’autore racconta di come i filologi siano abituati a scorrere meticolosamente i cataloghi delle case d’aste, nel tentativo di rintracciare manoscritti contenenti nuove versioni di testi già noti, o, come in questo caso, testi finora sconosciuti. Come in una indagine poliziesca si seguono le tracce di un documento, attraverso altri documenti che ne parlano, indici e archivi, nella speranza di scoprire in quale polveroso magazzino di una biblioteca potrebbe essere rimasto, dimenticato da tempo. Oppure l’occhio esperto potrebbe cogliere delle anomalie, delle incongruenze tra ciò che si dichiara e ciò che invece è realmente contenuto nel manoscritto. Questo è esattamente ciò che è successo in quest’occasione. Un codice, che, se avessero dato credito all’intestazione avrebbe dovuto contenere un determinato testo, in realtà si è scoperto essere un’opera assolutamente diversa, sebbene dello stesso autore. È stata perciò una serie di fortunate coincidenze, oltre ovviamente all’acutezza dell’occhio, allenato da una lunga serie di studi, che ha permesso a Chiesa e ai suoi studenti di riconoscere prima e di studiare poi, il manoscritto in oggetto.
Si trattava di una cronaca, tipico genere letterario del tempo, scritta da un autore milanese della prima metà del Trecento, giunta sino a noi nella versione copiata da un secondo frate amanuense, vissuto circa sessant’anni dopo, quindi verso la fine dello stesso secolo. Ora, cosa ci poteva mai essere di così particolarmente interessante in un testo così di nicchia? In effetti nulla. Certamente nemmeno il gruppo di studiosi che vi stava lavorando si aspettava di scoprire ciò che poi hanno trovato, e lo stesso Chiesa insiste sulla bassa qualità letteraria del testo e sulla totale assenza di aspetti interessanti, composto com’è da un miscuglio di fonti classiche, già ampiamente citate dai cronisti suoi contemporanei.

Galvano Fiamma in una miniatura dal Codice Trivulziano, 1438, c. 1r. L’opera appartiene all’Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana – © Comune di Milano.

L’autore del testo si chiamava Galvano Fiamma, un nome probabilmente completamente sconosciuto alla quasi totalità dei lettori del testo di Chiesa, tranne forse che è una piccolissima percentuale di addetti ai lavori. Incidentalmente è giusto sottolineare come “l’ampia audience” che la ricerca sta avendo sia a tutti gli effetti da considerare come un grande successo per il filologo, dimostratosi in grado di comunicare adeguatamente anche con i non esperti, senza rinunciare a nulla della complessità necessaria ad una comprensione approfondita. Galvano Fiamma, come molti autori dell’epoca, era di fatto al soldo di una famiglia nobile, sebbene fosse un frate domenicano. Per la maggior parte, le sue opere erano testi commissionati dalla famiglia dei Visconti, all’epoca dominante nella città lombarda, o comunque rivolte ad aumentare e migliorare il loro pantheon di antenati gloriosi. Questo testo in particolare si rivelò essere una Cronica Universalis, cosa non così rara nei testi dell’epoca. Ciò che però, in questo caso, colpisce lo studioso contemporaneo sono alcuni riferimenti geografici decisamente anomali in un testo lombardo, e quindi sostanzialmente vicino al mondo mediterraneo della prima metà del Trecento.

Marckalada
Si tratta di una frase in cui si riportano racconti dei marinai del nord Europa, in cui si possono riconoscere l’Islanda, la Groenlandia e una non meglio identificata terra ancora più a ovest, chiamata Marckalada. L’ipotesi su cui si costruisce l’intero saggio di Paolo Chiesa è che sia l’apparizione, per la prima volta in un testo dell’Europa mediterranea, di uno dei nomi presenti nelle saghe norrene per indicare l’America.

“I marinai che frequentano i mari della Danimarca e della Norvegia dicono che oltre la Norvegia, verso settentrione, si trova l’Islanda. Più oltre c’è un’isola detta Grolandia […] e ancora oltre, verso occidente, c’è una terra chiamata Marckalada. Gli abitanti del posto sono dei giganti: esistono edifici di pietre così grosse che nessun uomo sarebbe in grado di metterle in posa, se non grandissimi giganti. Lì si trovano alberi verdi, animali e moltissimi uccelli. Però non c’è mai stato nessun marinaio che sia riuscito a sapere con certezza notizie su questa terra e sulle sue caratteristiche”.

Vi sono due occorrenze di questo nome ignoto all’interno del testo di Galvano Fiamma e Chiesa dedica la parte ricostruttiva del suo saggio a collegare questa presenza con le tradizioni norrene oggi ben conosciute che confermano la presenza di marinai e agricoltori vichinghi giunti dalla Norvegia fino a Terranova e (forse) nel Maine, attraverso l’Islanda e la Groenlandia. L’autore dimostra tutta la sua esperienza e capacità nel trasformare quello che nei fatti è un lavoro certosino e meticoloso in una appassionante caccia al tesoro, spesso arricchita da momenti di vero divertimento, grazie a una giusta dose di sense of humor. Nel testo vengono così citati antichi geografi, si racconta di mappe perdute di cui possediamo solo copie poco chiare, si porta testimonianza di una delegazione di ambasciatori etiopici a Genova, desiderosi di incontrare il Papa, incontriamo Marco Polo con il Milione e impariamo a conoscere la difficile esistenza dei marinai a quel tempo. Tutto ciò dopo aver letto e approfondito le saghe di Erik il Rosso e quella cosiddetta dei groenlandesi, dove si racconta delle spedizioni dei vichinghi che raggiunsero le tre terre oltre il gran mare Oceano: Helluland, “la terra delle pietre piatte”, Markland, “la terra dei boschi”, e Vinland, “la terra del vino”. Il lettore potrà così apprezzare l’avventuroso mondo che Paolo Chiesa qui ci racconta, con l’involontaria collaborazione di Galvano Fiamma. In seguito, concluso questo racconto d’avventure, viene chiaramente spontaneo chiedersi se e come queste notizie influenzarono il viaggio di Cristoforo Colombo. Chiesa non si nega nemmeno su questo spinoso aspetto del problema, e cerca di ricostruire la possibilità che le notizie presenti a Genova nel 1340 possano essere giunte al navigatore che cercava sovvenzioni e marinai, almeno un secolo dopo. Anche a questo proposito è il mondo dei marinai a essere indagato, e che ci fornisce le informazioni più interessanti. Per esempio, chiederemo lumi al geografo Giovanni da Carignano, la cui mappa oggi perduta era utilizzata da chi voleva cercare di superare i confini già noti, inoltre cercheremo informazioni sui racconti – all’epoca ben noti – del tentativo fallito dei fratelli Vivaldi, partiti da Genova nel 1290. Come è giusto che sia Paolo Chiesa pone questi problemi in una logica non semplicistica, ed evita correttamente le trappole del nazionalismo così come quelle dell’eurocentrismo. Ovviamente non ha la minima importanza “chi è arrivato prima”, poiché

“Nessuno, naturalmente, ha scoperto l’America. L’America, naturalmente, era lì, e i suoi abitanti non avevano bisogno di scoprirla”.

In questo contesto Chiesa è qui doppiamente ammirevole, poiché capace di chiudere il cerchio formato dalla ricerca e dalla metodologia della ricerca stessa, dall’oggetto di indagine e dai fondamenti dello studio, ed emerge evidentemente quanto certe assunzioni siano incomprensibili, se si ha un approccio filologicamente corretto. Perché, a voler ben vedere anche il nome stesso America potrebbe essere messo in discussione, dato che

“Un altro nome in realtà ci sarebbe, […] politicamente migliore, perché è memoria di rispetto e non di conquista. In fondo quei remissivi vichinghi l’hanno raggiunta e se ne sono andati, lasciandola ai loro abitanti, come forse era meglio facessero anche Colombo e Vespucci. In più è un nome ecologico, evocando foreste, chiamiamola Marckalada”.