Il primato dell’invisibile:
Ratzinger e la modernità

Benedetto XVI
(Joseph Aloisius Ratzinger)
Marktl, 16 aprile 1927 

Città del Vaticano, 31 dicembre 2022

Benedetto XVI
(Joseph Aloisius Ratzinger)
Marktl, 16 aprile 1927 

Città del Vaticano, 31 dicembre 2022


Le ultime parole che Joseph Ratzinger – Benedetto XVI – ha voluto consegnare al mondo, in particolare a quello dei credenti, le aveva vergate nel 2006, appena un anno dopo l’inizio del suo pontificato. A tanto risale infatti il testamento spirituale reso noto subito dopo la sua scomparsa (di cui era nota l’esistenza, avendolo l’allora papa emerito confermato al suo biografo Peter Seewald). Anni in cui l’allora pontefice era impegnato nella parte cruciale di una battaglia durata tutta la vita, il cui obiettivo fu quello di evitare che le seduzioni del pensiero secolare contemporaneo aprissero nuove brecce nel depositum fidei del cristianesimo. “Non lasciatevi confondere!”, scrisse allora Benedetto. Confondere da cosa? Dalla “scienza”, ossia “le scienze naturali da un lato e la ricerca storica (in particolare l’esegesi della Sacra Scrittura) dall’altro”. Entrambe validissime e preziose nei loro rispettivi ambiti disciplinari – è il pensiero di Ratzinger – ma che rischiano di traviare quando applicate agli ambiti della fede. Delle scienze naturali, egli scrive che le “apparenti certezze contro la fede” sono ormai svanite, “dimostrandosi essere non scienza, ma interpretazioni filosofiche solo apparentemente spettanti alla scienza”; del cosiddetto metodo storico-critico applicato all’esegesi biblica, afferma invece “con il susseguirsi delle diverse generazioni ho visto crollare tesi che sembravano incrollabili, dimostrandosi semplici ipotesi”. La ricerca del Gesù storico, dunque, non ha intaccato “la ragionevolezza della fede” (Ratzinger, 2022).

È da quest’ultima formula che si deve partire per capire il senso di queste parole, espressione di una preoccupazione che è rimasta centrale nel pensiero di Joseph Ratzinger al punto da averne fatta una vera e propria missione, che in veste di teologo prima, di prefetto dell’ex Sant’Uffizio poi, e da papa infine, ha cercato per tutta la vita di realizzare: una nuova sintesi tra il pensiero cristiano e le forme più avanzate del pensiero contemporaneo, per assicurare alla Chiesa la sua sopravvivenza nel terzo millennio. Una missione che tuttavia non ha avuto gli esiti sperati, e il cui parziale fallimento può aiutare anche a comprendere le ragioni delle dimissioni dello stesso pontefice.

Ragionevolezza della fede?
Nel 1959, pronunciando la lectio inaugurale della cattedra di Teologia dogmatica a Bonn, dal titolo Il Dio della fede e il Dio dei filosofi, l’allora trentaduenne Joseph Ratzinger propose il manifesto programmatico della sua carriera. Il riferimento era alla distinzione tracciata dalla filosofia greca tra teologia mitica, teologia civile e teologia naturale, attraverso la quale i Greci potevano formalmente essere politeisti, ma relegando le storie sugli dèi al mito (teologia mitica) e all’aspetto cultuale (teologia civile) erano giunti a coltivare il “monoteismo filosofico”. Il fatto che in ultima essenza il pensiero filosofico greco – o meglio ellenico, quello diffusosi nella koiné post-alessandrina – fosse monoteistico consentì “la sintesi operata dai Padri della Chiesa tra la fede biblica e lo spirito ellenico”; una sintesi, spiegava Ratzinger, “non solo legittima, ma necessaria”: perché in tal modo lo Jahvè ebraico, che è un Dio degli uomini, Dio di persone (“il Dio dei tuoi padri, di Abramo, di Isacco, di Giacobbe”, come si rivela a Mosè nel roveto ardente), può fondersi con il Deo ignoto in cui credevano i filosofi, creatore dell’universo e delle leggi di natura, “muto e ineffabile”, ma che Paolo di Tarso all’Areopago di Atene annuncia essere lo stesso Dio dei cristiani. Solo così il nascente cristianesimo poté diventare religione universale, liberandosi dal cascame nazionalista dell’ebraismo, il cui “Signore degli eserciti” avrebbe dovuto garantire a Israele la supremazia sui nemici, a partire dai Romani stessi.

“Se è essenziale, per il messaggio cristiano, essere non una dottrina segreta esoterica per una limitata cerchia d’iniziati, ma il messaggio di Dio rivolto a tutti, allora è essenziale, per esso, anche il tradurlo verso l’esterno nel linguaggio comune della ragione umana”
(Ratzinger, 2011).

Per milleseicento anni, questa sintesi consentirà al cristianesimo di essere “the only game in town”, l’unico modo possibile di interpretare la realtà, rendendo la stessa scienza una mera ancilla theologiae. Quando si affaccerà la minaccia del pensiero aristotelico, riscoperto attraverso le traduzioni dall’arabo provenienti dalla Spagna, Tommaso d’Aquino guiderà la controffensiva teologica che realizzerà la seconda sintesi, quella rappresentata dalla “scolastica”: un sistema di pensiero in grado di coprire ogni aspetto dello scibile e fornire risposte a qualsiasi domanda. Talmente sicuro di sé da respingere persino le evidenze di Copernico, Galileo, Cartesio, liquidando come eresie eliocentrismo e atomismo nel Seicento; così strettamente intrecciato con l’ordine socio-politico esistente da non prendere nemmeno in considerazione le istanze di uguaglianza e democrazia del Settecento, men che meno quelle nazionaliste dei moti risorgimentali dell’Ottocento; per finire poi per buttare dentro un unico calderone democrazia, socialismo, esegesi biblica, pensiero scientifico, idealismo, sotto l’etichetta di “modernismo”, “madre di tutte le eresie” secondo il pensiero di Pio X.

Verum ipsum factum?
Quando Joseph Ratzinger tiene la sua conferenza, è la vigilia dell’apertura del Concilio Vaticano II. La Chiesa in cui Ratzinger è cresciuto gioca da molto tempo ormai in difesa, assediata dal pensiero moderno. Gli stessi papi vivono, dai tempi della breccia di Porta Pia, trincerati in Vaticano, da cui lanciano anatemi e scomuniche. Giovanni XXIII vuole rompere l’isolamento e aprire la Chiesa al mondo; Ratzinger la pensa allo stesso modo. Il suo obiettivo è realizzare una nuova sintesi, trovare il modo di conciliare la fede cristiana con le nuove correnti di pensiero: assicurare al cristianesimo la possibilità di tornare a essere sistema di pensiero par excellence in un’epoca di crescente secolarismo. Impresa ai limiti della disperazione.

“Il riconoscere che Dio è un Dio in rapporto con il mondo e con l’uomo, che agisce nella storia, cioè, detto più profondamente, il riconoscere che Dio è Persona, Io che incontra il Tu, questo riconoscimento esige indubbiamente su tutta la linea una nuova verifica e applicazione delle asserzioni filosofiche, che non è stata ancora sufficientemente effettuata”
(Ratzinger, 2011).

Qui c’è, in estrema sintesi, il pensiero ratzingeriano. Dio agisce nella Storia, quindi può essere trovato anche nella modernità. Non appartiene al passato, a sistemi filosofici o politici ormai superati; è continuamente presente nel tempo e quindi esisteranno “asserzioni filosofiche” in cui la sua presenza è maggiore. È a quelle che la teologia deve rivolgersi. Nel 1968, con la Introduzione al cristianesimo, il teologo Ratzinger indica la strada. Bisogna spezzare “il dominio del factum”, l’idea che si possa conoscere solo ciò che appare comprensibile ai sensi umani, il dato sensibile, fenomenico, e non il noumeno, la cosa in sé. Questa idea infatti conduce al pensiero tecnico, “condensato nella formula «verum quia facendium» – la verità, d’ora in poi, è la fattibilità” (Ratzinger, 2005). Seguendo questo percorso, si approda al disprezzo di ogni metafisica. Al contrario, “la fede cristiana comporta l’opzione per cui l’invisibile è più reale del visibile”:

“La mentalità di oggi infatti, sotto forma di positivismo e di fenomenologismo, ci invita a limitarci al «visibile», al ‘fenomenico’ nel senso più ampio del termine, a estendere l’atteggiamento metodico di fondo, cui le scienze naturali vanno debitrici dei loro successi, alla totalità dei nostri rapporti con la realtà. In quanto tecnica, poi, ci incita ad abbandonarci al fattibile e ad attenderci da esso il terreno solido che ci sostiene. Il primato dell’invisibile sul visibile e del ricevere sul fare contrasta in maniera stridente con tale impostazione di fondo”
(Ratzinger, 2005).

Insperati aiuti vengono incontro a Ratzinger da quei pensatori che condividono i timori per una scienza trasformatasi in scientismo, dove l’intera realtà, inclusa l’etica umana, è ricondotta a puro calcolo costi-benefici. Sono non a caso i grandi nomi del pensiero tedesco: Martin Heidegger, Karl Jaspers, Jürgen Habermas e la Scuola di Francoforte. Quanto a Paul Feyerabend, che Ratzinger citò nel 1990 in un discorso alla Sapienza preludio alla “riabilitazione” di Galileo Galilei due anni dopo, per mettere in discussione la fede nel metodo scientifico, fu in quel caso solo un riferimento marginale, non condividendo Ratzinger il pericoloso relativismo del pensatore austriaco – al punto che dal Vaticano giunse una secca smentita ufficiale all’ipotesi di un endorsement del prefetto all’autore di Contro il metodo.

Sintesi impossibile?
Qui sta infatti l’altro punto essenziale. Mettere in discussione l’assunto dello scientismo, ossia che si possa approdare a una conoscenza certa della realtà attraverso l’indagine empirica del fenomenico, non significa contrapporgli l’idea che la certezza della verità sia preclusa all’umano. Significa, al contrario, contrapporgli l’idea che la certezza dell’empirismo è solo un’illusione, perché la Verità con la maiuscola appartiene a un altro dominio della conoscenza, quello della Rivelazione di Dio nella storia. Ne consegue che la teologia, per Ratzinger, non deve affatto accontentarsi di un posto a bordocampo nella grande partita della modernità, ma rivendicare il suo ruolo come centravanti di sfondamento. È questo il senso della Fides et Ratio, l’enciclica firmata da Giovanni Paolo II nel 1998, nell’ambito di un percorso di conciliazione tra Chiesa e mondo iniziato con la riabilitazione di Galileo nel 1992 e che si chiuderà con la Giornata del Perdono del 12 marzo 2000 con cui la Chiesa riconobbe i suoi errori verso il mondo (non condivisa da Ratzinger). In quell’enciclica, di cui il prefetto è ghost-writer, si riconosce sì il contributo determinante della scienza e delle filosofie moderne al perseguimento della verità, ma si difende innanzitutto la titolarità della fede cristiana a rappresentare la strada che porta al logos, poiché Dio è appunto ragione. Tuttavia, a quasi quarant’anni da quella lezione a Bonn, l’analoga esortazione contenuta nella Fides et Ratio a realizzare una nuova sintesi cadeva nel vuoto. Perché?

Il programma di Ratzinger richiederebbe apertura, ma il prefetto, che pure da perito teologo del Vaticano II aveva perorato e promosso quell’apertura, finisce nelle stesse trincee dei suoi predecessori. Nel confronto con il mondo, viene travolto dalla rivoluzione culturale del Sessantotto al punto da abbandonare l’università di Tubinga – dove allora insegnava – in quella che più di una fonte descriverà come una e vera propria fuga. Gli appaiono improvvisamente di fronte agli occhi i segni dell’Apocalisse. Da qui il programma di restaurazione, termine che Ratzinger non esiterà a usare (suscitando forti reazioni) nella celebre intervista a Vittorio Messori pubblicata in Rapporto sulla fede (1985). Il pensiero scientifico, innanzitutto, deve essere messo in condizioni di non nuocere: proceda sulla sua strada, senza pensare di poter trasformare la stessa ipotesi dell’esistenza di Dio in una teoria falsificabile sperimentalmente, come vorrebbe Karl Popper. Il metodo storico-critico applicato allo studio della Bibbia, che rapporta il suo contenuto alle scoperte archeologiche, filologiche e storiografiche, può essere un utile strumento fintantoché serve al ressourcement, il programma della Nouvelle Théologie che promuove la riscoperta del pensiero patristico, per contrapporlo allo stucchevole devozionismo barocco che ha ricoperto il cattolicesimo di una glassa di zucchero tale da rendere impossibile riconoscere il vero sapore della fede; ma bisogna evitare che si spinga troppo oltre, affermando che dei veri connotati cristiani dell’uomo Gesù – la natura divina, la resurrezione – nulla si possa dire, perché altrimenti “vana sarebbe la nostra fede” (1Cor 15,14). Le istanze politiche di libertà e uguaglianza vanno bene se lette alla luce dell’annuncio evangelico del Regno, non se promuovono trasformazioni radicali dell’ordine sociale, perché di lì ai totalitarismi non c’è che un passo; ci penserà la dottrina sociale della Chiesa a indicare la strada di una società più giusta. Non è possibile fare altrimenti, perché negli anni successivi al Vaticano II Ratzinger si rende conto che tutti i tentativi di dialogo tra cristianesimo e modernità non hanno che un unico esito: annacquare la fede cristiana nel grande mercato post-moderno delle verità à la carte. È l’esito che Ratzinger denunciava già nella prefazione all’Introduzione al cristianesimo con la storia della “fortuna di Gianni” (in originale Hans, in cui alcuni videro un riferimento al collega-rivale Hans Küng):

“Costui, per maggior comodità, si era messo a scambiare il mucchio d’oro, che gli risultava troppo pesante e faticoso, con una serie di altre cose: dapprima con un cavallo, poi con una mucca, indi con un’oca, e infine con una cote per affilare, che terminò per gettare in acqua senza nemmeno perderci molto; anzi, ciò che ora ne aveva ottenuto in cambio, era il dono della piena libertà da lui tanto agognata”
(Ratzinger, 2005).

Così finirebbe la fede cristiana se, nel tentativo di adeguarla al pensiero moderno, venisse man mano alleggerita da pesi troppo ingombranti. Acconsentire, per esempio, a derubricare la fede nella resurrezione dei corpi sostituendola con una generica fiducia nella vita che ogni giorno è sempre nuova (un esempio dello stesso Ratzinger), come potrebbe sostenere qualsiasi life coach; abbandonare l’ingombrante figura del Dio “umano, troppo umano” per sostituirla con un generico riferimento a un dio-energia, come ha provato a fare il teologo eterodosso Vito Mancuso seguendo Pierre Teilhard de Chardin, ma come potrebbe sostenere anche qualsiasi guru della New Age; ridurre la Legge mosaica all’idea che Dio agisca nelle leggi di natura, come nello spinozismo di molti scienziati “credenti”, o il comandamento fondamentale – amare Dio e il prossimo – a un vago precetto morale; riconoscere – come fanno gli studiosi del Gesù storico – che Gesù fu certamente un brav’uomo, ma in sostanza un “profeta apocalittico fallito”, che si salvò dall’oblio di molte altre figure similari solo perché i suoi seguaci furono più perseveranti. Quanto durerebbe un simile cristianesimo?

L’ultimo papa?
Una risposta la immaginò Sergio Quinzio nel suo Mysterium iniquitatis (1995), ipotizzando – sulla scia della “profezia di Malachia” – la prossima ascesa al soglio petrino dell’ultimo papa con il nome di Pietro II. Divenuto pontefice in un’epoca di assoluta indifferenza alla proposta del cristianesimo, scompare progressivamente dai media e i fedeli che accorrono ai suoi Angelus “si contano prima a migliaia, poi a centinaia, e infine a decine”:

“Le parole di Pietro II suonano come sopravvivenze arcaiche, non solo non piacciono, ma non significano, né a destra né a sinistra. Il papa non crede né al rilancio istituzionale della Chiesa per il terzo millennio, né alle da sempre smentite speranze della reformatio ecclesiae. Precipita velocemente nel passato il Concilio Vaticano II, e un nuovo concilio non potrebbe che sanzionare la consumazione dell’orizzonte teologico cristiano, con la proliferazione di tanti cristianesimi dai contenuti sempre più vaghi e contraddittori”
(Quinzio, 1995).

Questo racconto, che sembra profetizzare in maniera inquietante il pontificato di Benedetto XVI, vede quindi Pietro II, ormai completamente isolato all’interno delle stesse mura ecclesiastiche, chiedersi “se esiste ancora una possibilità di riconoscersi cristiani in un nucleo essenziale di cose in cui sperare e credere”. Ci prova allora con una enciclica, Resurrectio mortuorum, in cui definisce solennemente come verità di fede la resurrezione della carne, ma il documento “cade tra l’indifferenza e la commiserazione”.

La seconda e ultima enciclica, Mysteirum iniquitatis, fa invece riferimento a un passo delle lettere paoline che si riferisce agli ultimi tempi. La tesi è che la Chiesa stessa sia ormai diventata un freno al compimento della salvezza e al ritorno di Cristo, per cui bisogna distruggerla; così Pietro II si suicida in un estremo tentativo di restituire senso alla fede cristiana. Benedetto XVI non è stato così drammatico, ma la sua uscita di scena sembra riecheggiare molto di questo estremo disfattismo. Rinunciando all’antico progetto di una sintesi moderna che permetta alla Chiesa di tornare a essere protagonista nel terzo millennio, nel suo testamento spirituale Ratzinger ha lanciato ai fedeli un estremo avvertimento dalla trincea, da cui sembra emergere la sua convinzione che il tempo della fine sia prossimo e con esso il momento di rispondere alla tremenda domanda del giudice supremo: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8).

Letture
  • Giovanni Paolo II, Lettera enciclica “Fides et ratio” circa i rapporti tra fede e ragione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1998.
  • Sergio Quinzio, Mysterium iniquitatis, Adelphi, Milano, 1995.
  • Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia, 2005.
  • Joseph Ratzinger, Il Dio della fede e il Dio dei filosofi, in Id., Il problema di Dio nel mondo contemporaneo, a cura di Umberto Casale, Lindau, Torino, 2011.
  • Joseph Ratzinger, Testamento spirituale del Papa Emerito Benedetto XVI, Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede, 31 dicembre 2022.
  • Joseph Ratzinger, Vittorio Messori, Rapporto sulla fede, Edizioni Paoline, Roma, 1985.