AI e cultura orientale,
le relazioni più… intelligenti

Filippo Lubrano

Antropologia
per intelligenze artificiali
D Editore Roma, 2023


pp. 400, € 19,90

 

Filippo Lubrano

Antropologia
per intelligenze artificiali
D Editore Roma, 2023


pp. 400, € 19,90

 


Titolo curioso quello scelto da Filippo Lubrano per il suo saggio sull’intelligenza artificiale: Antropologie per intelligenze artificiali, non “Antropologia dell’intelligenza artificiale”. Quel per sembra quasi suggerire un approdo nel fare, o addirittura alludere a un certo pubblico. Qualcuno che legge, comprende e, forse, agisce. Il sottotitolo indica “una guida culturale per comprendere…”, facendo immaginare un lettore che ha bisogno di capire. E chi sarebbe questo lettore a cui rimanda quel “per”? Chi o cosa? Molto presto il saggio di Lubrano, appoggiandosi a categorie e definizioni che spaziano tra antropologia, sociologia e filosofia (gli autori più citati sono Byung-Chul Han e Shoshana Zuboff), definisce con chiarezza la sostanza collettiva che si cela dietro l’espressione “intelligenza artificiale”. Un nodo sintetizzato così da Francesco D’Isa che introduce il volume provando a spiegare cosa c’è di antropico nelle AI:

“L’esito è qualcosa di simile a una risposta ragionevole di una persona che ha letto/visto tutto quel che ha riversato sul web l’umanità”.

Ecco a “chi” dobbiamo pensare quando immaginiamo l’intelligenza artificiale dotata di una coscienza: la summa del nostro scibile condensata in uno sguardo che non possiamo definire del tutto umano (perché è impersonale) ma che nemmeno possiamo semplificare come totalmente altro da noi. In fondo gli algoritmi delle intelligenze artificiali incorporano le nostre intenzioni, le nostre finalità, il nostro passato.

Pluralismo e complessità
Se ammettiamo che l’intelligenza artificiale è un condensato dei nostri saperi reticolari allora è giusto dire, per estensione logica, che noi tutti utilizzatori di tecnologie digitali facciamo parte di quelle intelligenze artificiali a cui si rivolge il testo di Lubrano. Chiarito il target del libro, il punto del discorso è dunque in quel plurale nel titolo: le possibili “intelligenze” indicate sono molteplici così come le motivazioni che forgiano software e hardware. Il libro si inserisce nel dibattito sulle intelligenze artificiali scegliendo il campo umanistico, incrociando sociologia, antropologia e psicologia. Del resto il modo in cui gli artefatti con AI si auto-addestrano è basato sul deep learning ovvero reti neurali artificiali che lavorano spostando le informazioni attraverso più strati (profondità e complessità) rendendo via via più articolata l’elaborazione degli input man mano che si naviga la struttura gerarchica dal particolare al generale. La profondità è riferita al numero di strati che rendono possibili relazioni sempre più complesse tra i nodi. L’aumento in parallelo della quantità di dati a disposizione, delle possibilità di stratificazione e delle capacità di calcolo sta definendo gli snodi cruciali dell’economia digitale contemporanea. Il deep learning è appunto “deep” proprio perché scende tanto in profondità da non poter essere acciuffato con pienezza dal cervello biologico. Lubrano considera l’intelligenza artificiale una tecnologia general purpose alla stregua dell’elettricità, ma non elude la problematicità di un design che è notevolmente più complesso rispetto a quello di una lampadina (sia nella progettazione che nell’utilizzo). Dentro la programmazione delle macchine intelligenti ci possono essere svariate visioni (leggi bias) e sebbene non possiamo conoscerne i dettagli ingegneristici possiamo provare a tratteggiare l’ecosistema culturale che genera e nutre una determinata produzione simbolica. Noi occidentali siamo invitati a capire un punto di vista non occidentale sull’uso delle tecnologie, altrimenti queste non saranno mai inclusive come dovrebbero essere.

La scatola degli attrezzi multiculturali
La scelta di concentrarsi sull’antropologia nasce dal bisogno di sviluppare un confronto tra culture, tra percorsi storici che hanno condotto all’attuale villaggio globalizzato (nel senso che tutti i popoli sono ormai collegati) ma non del tutto omologato, specie in relazione all’uso delle tecnologie per comunicare. Un confronto audace se si pensa che l’elefante nella stanza è la Cina: ormai da tempo fabbrica del mondo e oggi gigante tecnologico destinato a governare il villaggio globale ma non senza polemiche sul suo controverso sistema politico. Il testo di Lubrano guarda oltre la prassi politica e si concentra sulle culture ritenendole preziose prospettive ai fini di uno sviluppo dialettico del percorso socio-tecnologico globale. L’autore vorrebbe almeno “aggiornare stereotipi stantii”, cosa che è “il minimo che si possa fare se si vuole avere una visione non distorta del XXI secolo”. Un’azione di relativizzazione tecno-culturale che aiuta a inquadrare le tante diverse posture culturali possibili rispetto all’accoglienza di tecnologie socialmente rilevanti. Scrive Lubrano:

“Fino a qualche anno fa era semplice: bastava comprendere la forma mentis di qualche uomo bianco, generalmente americano – anzi, californiano –, spesso ingegnere o informatico. Adesso che lo sforzo immaginifico anche in ambito tecnologico è distribuito in maniera molto più larga sul pianeta”.

Quella che Lubrano chiama “competenza multiculturale” è sempre più importante man mano che diventa evidente il fatto che un’occidentalizzazione pervasiva legata alla globalizzazione non è più in agenda. Lo shock culturale che deriva dalle tecnologie digitali sembra trasversale a tutti i contesti nazionali ma alcuni indizi portano a ritenere gli asiatici più attrezzati di noi occidentali nell’accogliere le novità in un contesto collettivo.  La proposta non è tanto quella di individuare una sintesi, un percorso comune in grado di portare alla definizione di codici valoriali o di modalità gestionali e pedagogiche a livello globale, piuttosto far emergere e capire le premesse culturali dei tanti possibili approcci al digitale. Il libro propone esempi concreti al fine di attivare l’immaginazione del lettore nel figurarsi il futuro: dato questo abito culturale, come potrebbe presentarsi una intelligenza artificiale del futuro intesa come soprabito da coordinare?
Il gioco di ruolo tra culture è importante anche per valutare con obiettività i limiti cognitivi della cultura imprenditoriale nella quale noi occidentali siamo immersi: spesso nei mercati si creano posizioni di rendita, di solito dando al pubblico e agli azionisti quello che essi si aspettano, il “more of the same”. Come una profezia auto-avverante le posizioni dominanti tendono a rischiare poco e quindi ad ascoltare poco il consumatore, che non è certo un’entità statica. Qualcosa del genere avviene nella nostra coda di ascolto in Spotify o nei nostri vagabondaggi su Amazon: con le sue opzioni intrinsecamente prevedibili, la macchina sembra volerci proteggere dal mondo esterno e tenerci dentro una certa comfort zone. Poi arriva qualcuno che senza chiedere niente a nessuno propone una novità, un mercato totalmente altro di cui nessuno sa niente, in cui nessuno sa come muoversi e vince, perché gli umani non sono statici. In pratica la stessa cultura imprenditoriale, intrinsecamente miope, riesce a controbilanciare le tendenze oligopolistiche o monopolistiche attraverso un’ulteriore profezia: quella della disruptive innovation (innovazione distruttiva o dirompente) ovvero si costruiscono mercati destinati alla distruzione perché arrivano nuovi mercati a sostituire i precedenti rendendoli gradualmente meno rilevanti (cfr. Christensen, 2016).

Gli attori di queste “distruzioni” (che diventeranno le nuove posizioni dominanti) si presentano come innovatori disinteressati al vantaggio economico immediato e che abbracciano idee nuove investendo in perdita fideisticamente consapevoli dei ricavi futuri. Insomma il capitalismo si mantiene vivo contraddicendo (e mangiando) sè stesso. Una cosa appare dunque certa: se l’umanità sente di aver bisogno di regole, di coerenza e di etica non sarà certo all’interno della cultura imprenditoriale (vecchia o nuova scuola che sia) che dovrà cercare. Il che rende ancora più interessanti le considerazioni di Lubrano sul collegamento tra il digitale e il retaggio filosofico dei popoli non occidentali, spesso basato su un modo completamente diverso di considerare la soggettività e di guardare al tempo e al progresso come a qualcosa di ciclico.
Imparare a saltare da un costrutto culturale all’altro è proprio quello che Lubrano vorrebbe illustrare alle intelligenze che leggono il suo libro. Per esempio l’autore sottolinea il senso del sé in Asia, in particolare l’enfasi sul “non perdere la faccia” che regola le relazioni contrapponendosi all’approccio occidentale più individualizzato. Un approccio che si apprezza anche nei modi della dialettica: mentre a Occidente dominano ancora schemi dicotomici (Hegel), a Oriente si preferisce la ricerca dell’armonia e della risoluzione dei conflitti nella complementarità (Confucio). Non sorprende la nostra propensione alla polarizzazione politica forgiata da tastiere sbrigative e dagli status binari dei social media. Il dubbio e la sospensione sono invece fondamentali nello scandire i ritmi della comunicazione asiatica, favorendo forse un atteggiamento molto più ricettivo e meno nevrotico nei confronti delle novità tecnologiche. Probabilmente sono state le forme religiose occidentali basate su assoluti a plasmare la nostra propensione verso certezze e individui carismatici. Il rispetto delle regole (atteggiamento tipicamente asiatico) è visto invece con sospetto dagli occidentali. L’idea dell’armonia sociale come valore supremo è difficile da accettare per chi celebra la libertà come valore cardine associandola spesso alla ricerca della verità. Una verità che può ovviamente spingere a piegare le regole. Il social networking esalta il sogno di una comunicazione paritaria tutti a tutti, senza poteri forti a dirigere il traffico. Peccato che la diffusa incapacità nel gestire i ritmi e i modi di questa tecnologia comunicativa ci abbia portato a una generale riduzione dei tempi da dedicare alla manutenzione del paniere informativo lasciando dilagare il culto della post-verità e delle fake news.

Più umano dell’umano o copia della copia?
Mentre per noi occidentali è importante sapere che esiste una verità assoluta (anche se temporanea e a volte del tutto menzognera), nella cultura cinese si ha un rapporto molto più disinvolto e laico con la copia: “studiare” e “imitare” condividono lo stesso termine. Ora che il seme delle tecnologie generative è ormai piantato, gli algoritmi per domare i big data cominciano a macinare anche dati di origine AI o comunque ibridazioni umano-AI. Questo getta nel panico il capitalismo occidentale che ha ancora in grandissima considerazione concetti come copyright e privacy, nonché una visione a dir poco contraddittoria dell’individualismo ormai ampiamente confutata dalla storia delle reti. Sarebbe dunque utile capire una fondamentale differenza culturale rispetto al concetto di soggettività.

“Per la patria di Confucio, il nome del fondatore non è significativo nella poietica del pensiero filosofico: quello che conta è come il messaggio viene tramandato, più di quanto lo sia chi è il primo ad averlo formulato. D’altronde, Confucio stesso sosteneva: «Io trasmetto, non creo». Una dichiarazione d’intenti che avrebbe condizionato il pensiero asiatico in una maniera inarrestabile, creando una focalizzazione sul concetto dello studente come “imitatore”, come mero strumento di trasmissione del sapere, che quindi non andava neppure sfidato – da cui l’autorità del laoshi, il vecchio saggio, o maestro, su tutti e tutto”.

Marco Somalvico (tra i primi esperti italiani in fatto di intelligenza artificiale) sceglie il criterio della verosimiglianza come dirimente nel definire una coscienza sintetica. Nel solco di Alan Turing e del suo “gioco delle imitazioni”, la voce italiana di Wikipedia riprende una definizione dell’esperto relativa a quelle “prestazioni che, a un osservatore comune, sembrerebbero essere di pertinenza esclusiva dell’intelligenza umana”. Passaggio ripreso da Lubrano che evidentemente intende sottolineare come i cinesi abbiano un modo molto diverso dal nostro di considerare le proprietà intellettuali.

Ubuntu e la creatività come atto collettivo
Lubrano cita spesso Byung-Chul Han e Shoshana Zuboff: il primo per sottolineare i passaggi più controversi del confine materiale/immateriale introdotti dagli strumenti digitali; la seconda nell’individuare i principali vettori di sviluppo economico per il capitalismo della sorveglianza. Ma per quanto siano solide le argomentazioni (in senso critico come in senso analitico) e affascinanti i passaggi antropologici rispetto ai cambiamenti epocali che stiamo vivendo, anche il libro di Lubrano, come tutti i saggi che si occupano di futuro, tende sempre ad arrivare a parlare di “rischi”, a un chiedersi “che fare?” invariabilmente vago. Certo non dobbiamo lasciare il controllo di certi meccanismi agli algoritmi, agli stati sovrani o alle corporazioni private. Certo il rischio è che, se non lo facciamo noi, qualcun altro prenderà certe decisioni al nostro posto. Certo, certo. Ma chi siamo noi? Cosa vogliamo? E chi sono gli altri? Quali sono i nostri costumi e i nostri pregiudizi culturali? In che modo (in quanto consumatori) possiamo determinare il nostro futuro? Lasciamo queste domande di Han e di Zuboff al gioco pedagogico e ai labirinti massmediologici e prendiamo da questo lavoro di Lubrano le interessanti argomentazioni intorno a quel “noi”. A proposito di termini che incorporano il senso di una comunità, Lubrano ragiona sulla parola ubuntu:

“Presso gli zulu, il termine che traduce il nostro ‘umanità’ è ubuntu, […] che spesso viene tradotto come ‘Io sono, perché tu sei’: un’espressione che vuole consegnare il senso profondo del fatto che si possa essere umani solo attraverso l’umanità degli altri”.

Dire “umani verso gli altri” aggiunge una sfumatura al dire genericamente “umani”. Anche nella cultura occidentale il fatto di muoversi tutti insieme viene considerato un valore che controbilancia le costanti minacce del solipsismo e dell’homo homini lupus insito nella logica competitiva del capitalismo. Libri come questo che citano lo spirito di Ubuntu ci spingono a includere le tecnologie nell’indagine umanistica, eludendo le banalità che ci vedrebbero più o meno umani se usiamo le tecnologie. Siamo più che altro una specie che esprime la propria umanità e le proprie peculiarità sociali proprio attraverso il modo in cui usa le tecnologie.

Lasciamo che i robot ci rubino il lavoro
Ogni volta che chiediamo aiuto a una macchina chiamiamo a raccolta saperi reticolari collettivi. Compattiamo la nostra intelligenza artificiale rendendo il dispositivo co-protagonista dell’atto creativo. Le tecnologie generative non solo altro che vettori di navigazione in grado di aiutarci a navigare nei reticoli con più efficacia. Assorbita la fase rivoluzionaria degli smartphone (l’internet ovunque) ora è tempo di sfruttare per bene l’immensa mole di dati accumulati e accumulabili. La logica lineare e cartesiana non è più all’altezza di questo compito. Occorrono artefatti in grado di ampliare la nostra visione e connettere porzioni di dati che non avremmo mai pensato di connettere. Nuove scoperte da nuovi, anomali, sorprendenti accoppiamenti tra variabili. Permutazioni. Milioni di permutazioni. Questo è il futuro. Italo Calvino guardava con curiosità alle macchine creative perché affascinato da Raymond Queneau e dalla sua pratica di accostare sostanze narrative a giochi matematici di permutazione. In una sua raccolta di saggi figura anche una conferenza del 1967 intitolata Cibernetica e fantasmi, dove si legge:

“Scompaia dunque l’autore […] per lasciare il suo posto a un uomo più cosciente, che saprà che l’autore è una macchina e saprà come questa macchina funziona. […] La macchina letteraria può effettuare tutte le permutazioni possibili in un dato materiale; ma il risultato poetico sarà l’effetto particolare d’una di queste permutazioni sull’uomo dotato d’una coscienza e d’un inconscio […], sarà lo shock che si verifica solo in quanto attorno alla macchina scrivente esistono i fantasmi nascosti dell’individuo e della società”
(Calvino, 2017).

Il dispiegamento di algoritmi all’interno del processo di scrittura è il riflesso tecnologico, la presa d’atto collettiva che le narrazioni sono atti sociali e, come tali, ammettono l’introduzione di qualsiasi strumento in grado di stimolare la circolazione simbolica. Un computer che ci parla e che anticipa desideri e bisogni definisce il sogno di una merce che sembra magica sul piano libertario. Ma il modo in cui si arriva a una simile tecnologia è tutto basato sulla circolazione più o meno libera di dati e non ha niente a che vedere con la visione romantica dell’individuo che sceglie. Qui la società dell’informazione non sembra rinunciare alla partita del controllo tramite l’evoluzione dei dispositivi che, per dirla con Michel Foucault producono il soggetto che li usa dentro una rete che è un gioco di forze (cfr. Foucault, 2006). La cosiddetta libertà rimane dunque confinata in un cerchio operativo definito dal dispositivo stesso e dall’obbligo di produrre dati. Le tecnologie generative assistono l’utente nel rispondere alle sollecitazioni di uno spazio simbolico che non tollera vuoti.

I vantaggi culturali del pensiero asiatico
Il libro di Lubrano sottolinea a più riprese proprio l’importanza del vuoto e del silenzio nelle culture asiatiche, per tornare al discorso della scatola degli attrezzi multiculturali. Pur di esserci e di fare la nostra parte nel circo mediatico strutturato dalle tecnologie digitali, stiamo diventando fondamentalmente bipedi che trasportano sensori per raccogliere dati e terminali per ricevere istruzioni, sempre più deresponsabilizzati nelle esperienze. Se ci perdiamo è colpa del navigatore. Siamo coccolati e incoraggiati da assistenti vocali dalla voce tranquillizzante e dai nomi esotici come Siri o Cortana. Interessanti dunque le constatazioni di Lubrano sulla propensione asiatica all’essere eterodiretti e a introiettare le regole senza dibatterle più di tanto. La docilità che noi occidentali stiamo sviluppando nell’abbandonarci al pilota elettronico sembra un percorso parallelo per arrivare a quello stesso punto. Così funziona la democrazia nella nostra elettronica di consumo e probabilmente così funzionerà anche la nostra vita civile man mano che verrà digitalizzata ogni cosa. Forme organizzative su cui gli asiatici sembrano più attrezzati perché hanno potuto assaggiare esperimenti fantascientifici come il “sistema di credito sociale” in Cina (cittadini schedati in base ai loro comportamenti al fine di personalizzare l’accesso a servizi e benefici) che Lubrano ci segnala ben rappresentato nell’episodio Caduta libera nella stagione 4 di Black Mirror (Brooker, 2016). L’acquisizione dei “meriti” è sempre stata presente nel pensiero buddhista: ecco un altro tratto orientale illuminante sul piano antropologico che si aggiunge a tante altre curiosità simili presenti nel libro.

Letture
  • Italo Calvino, Una pietra sopra, Mondadori, Milano, 2017.
  • Clayton M. Christensen, Il dilemma dell’innovatore. Come le nuove tecnologie possono estromettere dal mercato le grandi aziende, Franco Angeli, Milano, 2016.
  • Michel Foucault, Follia e psichiatria. Detti e scritti 1957-1984, Raffaello Cortina, Milano, 2006.
Visioni
  • Charlie Brooker, Black Mirror, Netflix, 2011-2023.