Steve Lacy e Evan Parker,
o la saga poetica dei soprano


Ripercorrere la storia del jazz attraverso gli strumenti musicali talvolta può essere utile per fornire una diversa angolazione a vicende e personaggi spesso già preconfezionati dalle narrazioni dominanti, permettendoci di osservare anomalie e singolarità di una musica ricca di mille sfaccettature. E le storie riguardanti i cosiddetti strumenti secondari nello sviluppo del jazz sono assai interessanti e poco frequentate. Si prenda ad esempio il clarinetto, protagonista negli anni Venti, leader indiscusso del periodo swing e poi assolutamente oscurato dall’avvento del be bop, fino a riapparire, ma sempre in secondo piano, con le propaggini free degli anni Settanta. Il sax soprano è ancora più bizzarro nel segnare la storia di questa musica e di alcuni suoi protagonisti. Per anni è stato lo strumento di Sidney Bechet, unico musicista a suonarlo con regolarità delineandone caratteristiche, stile e fraseggio, sostanzialmente senza alcun rivale, a parte brevissime sortite di Johnny Hodges e Woody Herman. In pratica uno strumento inesplorato, anch’esso fuori dal ciclone bop e limitato al fenomeno dixieland. Tutto questo più o meno fino al 1958, anno di pubblicazione di Soprano Sax, primo album solista di Steve Lacy pubblicato dalla Prestige.

La reimmaginazione dello strumento
Il sassofonista di New York City avrebbe dedicato l’intera sua carriera musicale esclusivamente al più anomalo della famiglia dei sax, cosa assai rara nel panorama jazzistico, soprattutto dagli anni Sessanta in poi, dove diverrà pratica costante il multistrumentismo. Invece Lacy lavorerà con assoluto profitto sul soprano esplorandolo a fondo, a partire dalle intuizioni e dalle modalità esecutive di Bechet ma sviluppando una sua originalissima poetica fatta di un suono caldo, di silenzi monkiani e fraseggi tematici avvolgenti e intriganti. Partendo dal dixieland e saltando praticamente l’esperienza bop Lacy impone al mondo jazzistico la sua musica e, in maniera sorprendente, uno strumento che fin lì era stato assolutamente secondario: trasporta il sax soprano direttamente nella contemporaneità, allo stesso modo di ciò che fece Eric Dolphy con il clarinetto basso. E in misura assai maggiore rispetto a quest’ultimo strumento, il nascente movimento free si impossessò delle sonorità acute e spesso acide di questo sax facendone, soprattutto grazie a John Coltrane, uno degli strumenti tipici della New Thing. Coltrane indirizzò la ricerca in maniera differente da ciò che andava facendo Lacy, lavorando sui microtoni, sui sovracuti, dispiegando l’energia sonora attraverso stridii e folate, torcendo lo strumento ai propri fini, in ciò influenzando l’ampia schiera di musicisti americani ed europei che iniziarono a scoprire il sax soprano utilizzandolo spesso come strumento alternativo.

Un alfiere della ricerca radicale
Uno di loro è stato certamente Evan Parker, tenorista e sopranista di Bristol, Inghilterra, alfiere della free music, o dell’improvvisazione libera europea che dir si voglia, e uno degli specialisti del sax soprano, o perlomeno colui che è riuscito ad esprimersi con originalità su questo strumento delineando in sostanza un tracciato assai distinto da quello di Lacy e in parte derivato per l’appunto da Coltrane. Come scrive Trevor Barre nel suo bel libro Beyond Jazz. Plink, plonk & scratch: the golden age of free music in London 1966-1972,

“Lo stile di Evan Parker è unico: polverizza le note prodotte dal sassofono ed estrae a forza dalle molecole musicali gli ipertoni e i microtoni che le formano. Da tutto questo emerge un discorso appassionato e intenso, seppur frammentato, col quale inizialmente è difficile sintonizzarsi ma che sa suscitare un enorme entusiasmo non appena queste sonorità diventano familiari”
(Barre, 2015).

È quindi con estrema curiosità che ci si accinge all’ascolto di questo bel disco, Chirps, registrazione di un concerto di Steve Lacy e Evan Parker tenutosi a Berlino il 18 luglio del 1985 presso lo splendido centro d’arte Haus am Waldsee, entrambi al soprano, intenti ad improvvisare liberamente.  Il concerto, uno dei quattro previsti all’interno del festival Summer Music che avrebbe visto Lacy protagonista assoluto in altri tre differenti duo, con i pianisti Ulrich Gumpert e Urs Voerkel, e il danzatore giapponese Shiro Daimon, è a sua volta diviso in quattro parti: nella prima e nella seconda parte ci sono i solo rispettivamente di Evan Parker e Steve Lacy (purtroppo mai pubblicati), nella terza c’è il concerto in duo, mentre la quarta vede tre brevi e libere improvvisazioni sempre in duo effettuate dopo il concerto, senza pubblico. Il disco venne pubblicato dalla storica etichetta free tedesca FMP nel 1986, solo con la terza parte del concerto, e ristampato poi in cd nel 1991 e nel 2010, sempre con la quarta parte inclusa. Questa ulteriore ristampa dell’etichetta Corbett vs. Dempsey è a tiratura limitata, sole 500 copie, imperdibili considerato l’alto valore musicale, e culturale in genere, espresso dai due musicisti. Per quanto avessero già avuto contatti, collaborazioni e incontri, Lacy e Parker non si erano mai trovati ad improvvisare liberamente insieme in duo, ma questo non ne ha limitato assolutamente l’ampia convergenza musicale, il feeling e l’interplay assoluti che si percepiscono nitidamente all’ascolto del disco.

Da sinistra: Steve Lacy ed Evan Parker.

Potremmo definirlo una sorta di manuale sul come improvvisare, per la particolarità con la quale i due musicisti dialogano intensamente, costruendo frasi intellegibili ed essenziali, per l’elaborazione di un discorso coerente, per l’uso delle dinamiche. Questo appare immediatamente, senza quella tipica fase di studio e ricerca comune a molte situazioni di improvvisazione libera, fin dalla prima nota di Full scale, la lunga improvvisazione di apertura del disco. Sono quasi ventuno minuti di grande fascino, con un uso limitato di sovracuti, doppie staccature, suoni disarticolati, ma ricco di poesia, di riflessioni e di racconti, ogni tanto puntellato da improvvisi e inaspettati appuntamenti consonanti, qualche suono sporcato dal growl di Lacy, equilibrio e spontaneità. Tutto questo lo si ascolta praticamente per l’intero disco, da Relations, con maggiori silenzi e uso dei sovracuti, spazi individuali dove Parker accenna brevemente alla frantumazione delle singole note e una splendida e ripetuta linea melodica finale suonata insieme dai due musicisti, a una Twittering breve ma movimentata, leggermente più nervosa.
Le piccole improvvisazioni suonate a sala vuota, a fine concerto, sono delle miniature, essenziali e sintetiche, e soprattutto in Nocturnal chirps 2 chiari sono i richiami monkiani di Lacy, mentre la chiusura all’unisono dei due soprani in Nocturnal chirps 3 è incantevole e ammaliante. Tutto qui, verrebbe da dire, e non è certamente poco. Se vogliamo aggiungere qualcosa, possiamo dire che in questo concerto è certamente Evan Parker a convergere maggiormente verso l’estetica di Lacy, rinunciando totalmente, per esempio, alla tecnica della respirazione circolare e limitandosi assai nell’uso dei cosiddetti tricks, cioè i suoni non convenzionali dello strumento, doppie e triple staccature, armonici e varie altre bizzarrie. Tutto questo a favore della poesia, perché di questo si tratta: di un album poetico, lirico, pur suonato e composto istantaneamente con uno strumento complicato, difficile, ostico qual è il sax soprano.  Va a totale merito dei due musicisti l’essere riusciti ad elaborare un vero e proprio trattato poetico sull’improvvisazione.

Letture
  • Trevor Barre, Beyond jazz. Plink, plonk & scratch: the golden age of free music in London 1966-1972, Compass Publishing, UK, 2015.
  • Ian Carr, Music Outside. Contemporary jazz in Britain, Northway Publications, London, 2008.
  • Jason Weiss (a cura di), Conversazioni con Steve Lacy, Edizioni ETS, Pisa, 2015.