Strani frutti del 1970:
i creativi del jazz inglese

Soft Machine
Facelift. France & Holland
Formazione: Elton Dean (contralto, saxello), Lyn Dobson (tenore, soprano, flauto, armonica a bocca, voce), Mike Ratledge (tastiere), Hugh Hopper (basso elettrico), Robert Wyatt (batteria, voce).

Cuneiform Records, 2022

The Keith Tippett Group
How Long This Time? Live 1970
Formazione gennaio
Marc Charig (cornetta), Nick Evans (trombone), Elton Dean (sassofoni), Keith Tippett (piano), Jeff Clyne (contrabasso, basso elettrico), Trevor Tomkins (batteria)

Formazione agosto
Come sopra tranne Roy Babbington (basso elettrico) e Bryan Spring (batteria) in sostituzione di Clyne e Tomkins

British Progressive Jazz, 2022

Soft Machine
Facelift. France & Holland
Formazione: Elton Dean (contralto, saxello), Lyn Dobson (tenore, soprano, flauto, armonica a bocca, voce), Mike Ratledge (tastiere), Hugh Hopper (basso elettrico), Robert Wyatt (batteria, voce).

Cuneiform Records, 2022

The Keith Tippett Group
How Long This Time? Live 1970
Formazione gennaio
Marc Charig (cornetta), Nick Evans (trombone), Elton Dean (sassofoni), Keith Tippett (piano), Jeff Clyne (contrabasso, basso elettrico), Trevor Tomkins (batteria)

Formazione agosto
Come sopra tranne Roy Babbington (basso elettrico) e Bryan Spring (batteria) in sostituzione di Clyne e Tomkins

British Progressive Jazz, 2022


Senza nulla togliere alle altre scene jazz europee, ciò che saltò fuori dalla Gran Bretagna tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta è certamente di altro livello, per quantità e qualità. Non bastasse già l’ampia discografia a nostra disposizione, ancora emergono, con inattesa regolarità, autentiche gemme ad impreziosire l’intera scena e ad allietare l’ascoltatore. Prova ne sono le ultime uscite a nome Soft Machine e Keith Tippett, indubbiamente inediti dell’anno.
Prima di addentrarci nei particolari va sicuramente notato che, se in parte non aggiungono molto di nuovo, questi dischi hanno il merito di mostrarci due formazioni di assoluto valore che reinterpretano in maniera assolutamente originale gli stilemi jazz, fornendo una lettura di stampo europeo delle musiche di derivazione afroamericana. E se questo può sembrare ovvio per quanto riguarda Keith Tippett e il suo sestetto, meno scontato è inserire in pieno ambito jazzistico un gruppo come i Soft Machine. Ma qui stiamo parlando della formazione che nel 1970 pubblicò quel Third che per alcuni versi venne catalogato come la risposta europea a Bitches Brew di Miles Davis, colmo com’era di suggestioni e approcci di chiara derivazione jazz. A ogni modo, il cofanetto Facelift. France & Holland pubblicato dalla Cuneiform, contenente due cd e un dvd, proprio di quel periodo fa parte e ne illumina ancora di più le traiettorie uniche che i Soft Machine seppero percorrere in brevissimo tempo. Cuore e autentico gioiello di questa uscita discografica è il dvd che contiene parte del concerto al Theatre de la Musique di Parigi del 2 marzo del 1970 e trasmesso dalla televisione francese nel programma Pop 2 (ah, altri tempi!).

I Soft Machine in concerto al Theatre de la Musique di Parigi il 2 marzo del 1970.
Da sinistra: Lyn Dobson,Elton Dean Hugh Hopper, Robert Wyatt e Mike Ratledge.

Innanzitutto, un dato: siamo in presenza di una rara testimonianza della formazione a cinque che operò per soli tre mesi, dal gennaio al marzo del 1970 e comprendente oltre Mike Ratledge, Hugh Hopper e Robert Wyatt, i due fiatisti Elton Dean al contralto e al saxello e Lyn Dobson ai sax tenore e soprano, al flauto, armonica a bocca più alcuni interventi vocali. Il repertorio è in gran parte quello già uscito su vari live postumi, come il fondamentale Facelift, oppure Breda Reactor, così come le bellissime registrazioni dell’archivio della BBC. E quindi Out-Bloody-Rageous, Mousetrap, Eamonn Andrews, Backwards, Facelift e Esther’s Nose Job, più un’intrigante improvvisazione vocale di Wyatt. Un repertorio che in gran parte finirà su Third (Esther’s Nose Job invece è del secondo disco) ma che era l’asse portante delle esibizioni live dei Soft Machine di quel periodo.
Il dvd, nel quale non c’è tutto il concerto del due marzo ma solo quello poi trasmesso dalla tv francese, è di ottima qualità e mostra una formazione di assoluta eccellenza. Possiamo dire che l’irruenza del rock, la creatività, il lascito psichedelico della swinging London vengono trasportati, abilmente modificati e contaminati con il linguaggio jazzistico. Un interplay assoluto che fa emergere un vero e proprio collettivo dove non ci sono in realtà solisti ma è tutto il gruppo che di volta in volta muta forme e suoni, al di là di chi stia improvvisando o suonando i temi. Tuttavia, note di merito particolari vanno assolutamente date all’improvvisatore, oltreché fondamentale supporto ritmico, Hugh Hopper, per la qualità e l’originalità del suo essere bassista elettrico, e a Lyn Dobson: un vero peccato non abbia proseguito la sua collaborazione con il gruppo, perché in questo concerto si dimostra essere un fiatista brillante e incisivo, come per esempio al soprano su Out-Bloody-Rageous, o nel canterburiano assolo di flauto di Backwards. Capace di una narrazione emozionante, si amalgama alla perfezione con il suono irruento di Elton Dean, e la perfetta sintonia e il continuo alternarsi dei due fiatisti è probabilmente la sorpresa maggiore di questo cofanetto. Lo stesso Dean si produce, sempre su Out-Bloody-Rageous in un assolo magistrale, di altissimo livello, mentre ancora Dobson, in Facelift, tra flauto, interventi vocali e armonica a bocca porta il soffio del blues all’interno delle atmosfere elettriche e allucinogene del brano.

Se il dvd è di valore assoluto altrettanto si può dire del disco tre del cofanetto, che riporta il concerto fatto dal gruppo il 17 gennaio del 1970 al Concertgebouw di Amsterdam. Scaletta praticamente identica del concerto del 31 dello stesso mese all’Het Tufschip di Breda, nei Paesi Bassi, già pubblicato sul doppio cd Breda Reacto. Qui la qualità sonora è molto buona e si può apprezzare appieno l’energia live, il flusso sonoro continuo senza soluzione di continuità che i Soft Machine erano soliti produrre dal vivo, caratteristica presente fin dagli esordi. Facelift, una versione compatta di Moon in June, 12/8 Theme un brano di Hopper mai registrato in studio, un esplosivo assolo di batteria e, a conclusione, la consueta Esther’s Nose Job/Pigling Bland, sono concatenate tra loro a costruzione di un universo sonoro fatto di improvvisazioni, suoni distorti, soffici melodie e creativo virtuosismo. Un disco che lascia senza fiato per la bellezza della musica suonata, e che mostra, una volta di più, l’importanza e la rilevanza dell’approccio improvvisativo del gruppo. Come riportato nel booklet interno, le parole di Dobson colgono pienamente nel segno:

“A mio avviso, i Soft Machine facevano cose di assoluta originalità. Quella tra Robert, Hugh e Mike era una combinazione fantastica. Pur nelle rispettive differenze, o forse proprio per quella tensione, il risultato era incredibile. Col tempo gli esiti si sono attenuati, rientrando nell’atmosfera generale delle produzioni del periodo, ciò che ai tempi si chiamava jazz-rock. Ma noi facevamo tutt’altro: più un rock-jazz, per così dire. Una musica di grande potenza”.

Nel dvd è incluso l’audio della versione audience recording dell’intero concerto di Parigi, che purtroppo non risulta di buona qualità. Meglio il primo disco del cofanetto: sempre lo stesso concerto, ma sostanzialmente senza il brano 12/8 Theme.

Se per i Soft Machine il percorso è stato dal rock al jazz, le vicende musicali del pianista di Bristol Keith Tippett hanno le radici ben piantate nell’ambiente jazzistico, anche se saltuariamente ha intrapreso il tragitto inverso. Ovviamente si fa riferimento alla sua fruttuosa esperienza con i King Crimson, ma anche al mastodontico progetto Centipede, con il doppio album Septober Energy del 1971, ensemble di circa una cinquantina di musicisti provenienti dai più diversi ambiti musicali. In realtà, in quegli anni, i confini sono ancora labili e le musiche prodotte contengono tali e tante contaminazioni, influenze e idee che non fanno altro che arricchire in maniera complessiva le diverse proposte. Tuttavia, per quanto riguarda il sestetto di Keith Tippett, pur con tutte le suggestioni ed influenze varie, dai sudafricani di Chris McGregor ai contatti per l’appunto con il mondo del rock, salda e chiara rimane l’estetica jazz. A gettare uno sguardo ulteriore sul gruppo giunge, grazie all’etichetta British Progressive Jazz, How Long This Time? Live 1970 frutto di due live radiofonici registrati nel gennaio e nell’agosto del 1970 (annus mirabilis!). Assieme a Keith Tippett al piano, ritroviamo Elton Dean ai sax assieme a Marc Charig alla cornetta, Nick Evans al trombone, Jeff Clyne al basso e Trevor Tomkins alla batteria per il primo live mentre nel secondo la sezione ritmica cambia e subentrano al loro posto rispettivamente Roy Babbington e Bryan Spring: sono loro gli artefici di questo eccellente disco, a cavallo tra l’esordio You Are Here…I Am There e il successivo Dedicated To You, But You Weren’t Listening.
Due inediti, il brano eponimo e In A Vacant Mood, mentre il resto, Thoughts To Geoff (due versioni), Five After Dawn e Green & Orange Night Park entrerà a far parte del secondo ellepì. L’intero lavoro mostra, anche qui come nel cofanetto dei Soft Machine, l’alto grado di interplay, la linearità e l’originalità dei temi, larghi e coinvolgenti, una sequenza di improvvisazioni caratterizzate da momenti nervosi, aperture free, slanci melodici, un virtuosismo intelligente e per nulla fine a sé stesso (Thoughts To Geoff). Ancora, la ritmicità mutuata dai musicisti sudafricani che tanto diedero alla scena musicale inglese, l’approccio modale all’improvvisazione che permette una libertà assoluta, l’alternarsi di momenti delicati e riflessivi (How Long This Time?) a situazioni caratterizzate da improvvisazioni libere ed estemporanee (Five After Dawn e l’introduzione di Thoughts To Geoff Version 2). Insomma, un prontuario che raccoglie tutto quanto di buono emergeva in quel periodo in Gran Bretagna e non solo.

A questo proposito va fatta una riflessione che riguarda i due prodotti discografici. Ambedue esprimono, in modi peraltro simili e vicini, un respiro collettivo, un afflato di gruppo che porta con sé modalità d’insieme nella gestione musicale ed espressiva. Non emerge il solista, il leader, il frontman, ma il progetto, l’elaborazione plurale. Stiamo parlando di una generazione di musicisti che ha assistito e partecipato ad una rivoluzione non solo musicale e culturale in genere, ma politica e sociale. Proprio questo fermento sembra trascendere le individualità per farsi creazione collettiva, pluralità di idee, riflessioni, improvvisazioni, musiche. Ascoltando (e vedendo) queste due testimonianze si ha come l’impressione di veder fluire, dai musicisti, quel calderone creativo irrefrenabile frutto dei profondi cambiamenti in atto, in tutto il mondo, in quel periodo. Qualcosa certamente di molto lontano dalla dimensione individualista e dal personal branding in atto oggi. Ne dovremmo trarre ancora insegnamento.