Quando la morbida macchina
divenne resiliente ai Soloni

Soft Machine
Bundles
Formazione complessiva:

Karl Jenkins (oboe, piano, piano
– acustico ed elettrico –,
sassofono soprano),
Mike Ratledge (piano elettrico, organo, sintetizzatore),
Allan Holdsworth (chitarre),
John Etheridge (chitarra elettrica),
Roy Babbigton (basso),
John Marshall (batteria, percussioni).

Esoteric, Cherry Red Records, 2022

Soft Machine
Bundles
Formazione complessiva:

Karl Jenkins (oboe, piano, piano
– acustico ed elettrico –,
sassofono soprano),
Mike Ratledge (piano elettrico, organo, sintetizzatore),
Allan Holdsworth (chitarre),
John Etheridge (chitarra elettrica),
Roy Babbigton (basso),
John Marshall (batteria, percussioni).

Esoteric, Cherry Red Records, 2022


La recente ristampa in formato extended di Bundles (uscito nel 1975) include la pubblicazione di un concerto tenuto l’11 ottobre dello stesso anno alla Nottingham University. L’ottava fatica dei Soft Machine risalente a oltre quaranta anni fa, dovrebbe invitare al mea culpa chi, come il sottoscritto, aveva ai tempi liquidato l’album come il canto del cigno di una formazione ormai avvitata su sé stessa e imprigionata in una fusion ripetitiva e poco originale. Allora, il partito dominante della critica tricolore era tutto per Robert Wyatt e non aveva perdonato soprattutto a Mike Ratledge la decisione, condivisa anche da Hopper e Dean, di mettere alla porta il riottoso batterista nell’estate del 1971 al termine di una tournée negli Usa definita devastante a livello nervoso. Si parlò addirittura di un complotto che, di fatto non ci fu, alla luce di dichiarazioni postume di Wyatt e di ex amici, ma tant’è, il dado era tratto e i Soft Machine, dopo l’uscita di scena di Wyatt, da gioiosa macchina canterburiana vennero progressivamente, si fa per dire, degradati a musica commerciale e precipitati nel girone infernale del jazz rock sclerotizzato e di maniera. A partire da Seven, in particolare, sul quartetto formato da Mike Ratledge, unico componente originario rimasto, Karl Jenkins, Roy Babbington e John Marshall, erano piovuti strali da tutte le parti. Giaime Pintor su Muzak scriveva:

“In Seven la gradevolezza, lo sperimentalismo come frivolezza, il jazz castrato sono piacevolissimi, ma di una piacevolezza che non riesce a coprire la superficialità […] Jenkins, entrato ai tempi di Six, dà prova in Seven di grande capacità dal punto di vista della facilità e della commerciabilità dei pezzi. E Carol Ann è il più tipo esempio della morte dei Soft Machine”
(Pintor in Castaldo, Dessì, Mariani, Pintor, Portelli,1977).

Bundles, il primo album dell’era Harvest e il primo a rompere lo schema della serie numerica nei titoli, ovviamente, finì anche lui, senza appello, tra le fiamme dell’ade musicale. Marco Fumagalli su Gong annotava all’interno in un lungo e colto articolo, o meglio dialogo immaginario sulla parabola artistica dei Soft Machine alcune note critiche relative a un ascolto in anteprima dell’album: “…stupidi giochini di synt/uccidere Allan Holdsworth, niente di meglio che imitare l’Ollie Halsall dei tempi Patto/Ratledge in paranoia “rockjazz” (?)/Marshall è frustrato e deleterio…” (Fumagalli, 1975). Per non parlare degli anni post Bundles, che in un vademecum della musica pop, jazz, d’avanguardia e delle sue strutture, sempre a cura dei giornalisti di Gong, veniva liquidato così:

“il suono dell’attuale Machine in confronto con quello delle origini fa pensare alla relazione tra il muggito di un toro e un acuto di Enrico Caruso”
(Autori vari, 1977).

Difatti, a partire da Six con l’ingresso in pianta stabile di Karl Jenkins (oboe e tastiere) e di John Marshall (batteria), il sound della band aveva decisamente virato verso un jazz rock più prevedibile e accessibile, ma non per questo meno avvincente o solido dal punto di vista compositivo ed esecutivo. Semmai si può dire, e questo non piacerà agli irriducibili del progressive, che dalla pubblicazione di Six nel 1973, ma forse anche da prima, la band taglia definitivamente i ponti con il Canterbury sound delle origini e con un’estemporaneità che andava oltre i confini del jazz. Certo, non ci sono più le scintille di genio e gli scatti di fantasia dell’era Wyatt, ma è anche vero che la band, alle soglie del 1973, non è più quella dei primi album e, dunque, sarebbe stato impossibile replicare istanze e visioni del passato.

La formazione di Bundles. Da sinistra, sopra: Karl Jenkins, Mike Ratledge, John Marshall.
Sotto: Allan Holdsworth, Roy Babbigton.

Ma torniamo a Bundles che tra gli album con Jenkins al comando delle operazioni è quello che, riascoltato oggi –  grazie anche alla distanza storica – pare superare meglio la prova del tempo e che fotografa un gruppo di musicisti ancora in stato di grazia e alla ricerca di un proprio percorso quanto più possibile alternativo al mainstream. Merito in particolare dell’arrivo di Allan Holdsworth e della sua Gibson SG Custom che scombina e altera l’architettura del suono machiniano che allora poggiava essenzialmente sulle tastiere di Jenkins e del veterano Mike Ratledge, ormai però prossimo a lasciare il gruppo e che ai tempi tempi dichiarava:

“Dopo Six sentivo di dover sviluppare qualcosa di veramente mio. Dopo quel disco sono stato sempre più coinvolto in cose che non avevano nulla a che fare con il gruppo e sono diventato sempre meno interessato a comporre. Credo che, rispetto al periodo precedente in cui ero costretto a comporre perché nessuno lo faceva, ora Karl (Jenkins) sia in grado di farlo e io ovviamente ho smesso…”
(Ratledge in Bennett, 2005).

Le prime apparizioni come ospite di Holdsworth proveniente dalle file dei Nucleus risalgono già alla fine del 1973, precisamente al tour dei Soft Machine in Irlanda nel novembre di quell’anno, e a Jenkins scatta subito l’idea di reclutarlo a tempo pieno tanto che si mette immediatamente al lavoro per riarrangiare parte del repertorio in funzione di un nuovo strumento solista, la chitarra elettrica, che dai tempi di Daevid Allen, era completamente assente dalla strumentazione della band. Un cambio di passo decisamente rivoluzionario e non è un caso che l’album si apra proprio con la mini suite in cinque parti Hazard Profile, composta da Jenkins, che costituisce quasi l’intero primo lato del long playing, con Holdsworth protagonista quasi assoluto. La prima parte della suite, introdotta da un cupo rintocco di campane sottolineato da un crescendo di batteria, sfocia presto in un dirompente e avvolgente riff unisono di chitarra e basso seguito da un assolo di Holdsworth che dà subito prova del suo stile originale. La composizione presenta forti analogie con Song For The Bearded Lady, brano sempre firmato da Jenkins che appare in We’ll Talk About It Later dei Nucleus del 1971. Brano che tra l’altro era stato rodato dallo stesso Holdsworth durante i live dei Nucleus nel corso del 1972, avendo anche lui militato, come Jenkins, Marshall e Babbington, nel gruppo capitanato da Ian Carr. In fase di registrazione dell’album, l’assolo e le parti di chitarra Hazard Profile Part 1 vengono ripetute e registrate più volte perché Holdsworth non è mai soddisfatto del risultato finale e, sebbene il riff iniziale ricordi la composizione già citata dei Nucleus, lo svolgimento del brano è completamente diverso: più dinamico e fluido grazie all’espressività drammatica dell’esecuzione Holdsworth, ottenuta con un controllo millimetrico del bending e dei legati.

Non meno interessanti le altre sezioni della suite che alternano temi melodici ed elegiaci, come Toccatina (Part. 2), con Jenkins e Holdsworth solisti, rispettivamente al piano e alla chitarra acustica, o la conclusiva e corale Part. 5 che riprende il tema portante e vede le tastiere tornare in primo piano. Il secondo lato dell’album è aperto da Bundles, altro brano firmato da Jenkins, che forse ancora più della suite rappresenta il manifesto del nuovo corso musicale della band basato su un jazz rock guitar oriented onesto, ma non banale, accessibile e forse, per alcuni palati sofisticati, troppo poco cerebrale. Anche in questo caso, Holdsworth mette in bella mostra il suo talento producendo un assolo che rifugge il vuoto virtuosismo e che si caratterizza per un’originale finezza timbrica. La vecchia guardia impersonata da Mike Ratledge entra in scena quasi a conclusione del minutaggio dell’album con due brani, apparentemente interlocutori, The Man Who Waved At Trains e Peff. Da tempo il sound amplificato e distorto dell’organo Lowrey di Ratledge non è più il marchio di fabbrica della band e anche nelle sue composizioni inserite in Bundles la parte del leone è giocata da Jenkins che con il suo oboe elettrificato ricama i temi principali e firma i vorticosi assoli. L’album si chiude con The Floating World di Jenkins, brano etereo di sapore vagamente rileyano che anticipa l’atmosfera post ambient di quelli che saranno gli ultimi album in studio dei Soft Machine ufficiali ormai privi di alcun membro originario, Softs del 1976 e Land of Cockayne del 1981. Dando prova di lungimiranza c’è chi, già nel 1975, aveva lodato l’ottavo album dei Soft Machine. Si trattava di Steve Lake, giornalista ed editorialista del Melody Maker, nonché inventore della Canterbury scene e per decenni braccio destro di Manfred Eicher fondatore dell’Ecm Records.

“Questo album – scriveva – ci obbligherà quasi a chiedere perdono ai Soft Machine per aver dubitato di loro. Se mi avessero fatto ascoltare questo disco presentandomelo come il lavoro di un gruppo di esordienti, sarei rimasto sorpreso dall’inventiva e dal virtuosismo di cui i musicisti danno prova” (Lake, 1975).

Per la cronaca Bundles fu anche l’album che proiettò Holdsworth fuori dal circuito underground e lo fece conoscere ad addetti ai lavori e pubblico. Nella primavera del 1975, appena dopo l’uscita dell’album, il chitarrista abbandona la band per entrare nei Lifetime di Tony Williams e dare vita a una serie di collaborazioni che ne cementeranno la reputazione come uno dei musicisti più innovativi della scena jazz rock, inanellando negli anni a seguire una serie di importanti collaborazioni (Pierre Moerlen’s Gong, Jean-Luc Ponty, UK, Bruford ecc.) e ponendo le basi di una lunga carriera solista (il suo primo lavoro a proprio nome, Velvet Darkness, risale al 1976). Un’uscita di scena, quella di Holdsworth, che provocò un piccolo terremoto nella band e che sconvolse i piani di Jenkins che sperava di poter contare sull’estro e l’ispirazione di un musicista decisamente fuori dal comune per poter ridare credibilità e nuova linfa a un progetto musicale in piena fase di maturità. A rimpiazzare Holdsworth venne chiamato il pur bravo John Etheridge. Ma ormai i tempi e il suono, come anche dimostra il live alla Nottingham University incluso nel set della Cherry Red Records, erano cambiati.

Letture
  • Autori vari, Top Music ’77 – Vademecum della musica pop, jazz, d’avanguardia e delle sue strutture 1975 – 1977, Arcana Edizioni, Roma, 1977.
  • Graham Bennett, Soft Machine Out-Bloody- Rageous, Saf Publishing, 2005.
  • Gino Castaldo, Simone Dessì, Bruno Mariani, Giaime Pintor, Alessandro Portelli, Muzak, Savelli, Roma, 1978.
  • Steve Lake, Bundles (review), in Melody Maker, 26 aprile 1975.
  • Aymeric Leroy, L’école de Canterbury, Le Mot Et Le Reste, Marsiglia, 2016.
  • Marco Fumagalli, Soft Machine – Dialogo dei massimi sistemi sull’abitabilità del suono, in Gong, n. 7/8, luglio – agosto 1975.