titolo15
di Vittorio Martone

 

“I telai, come macchinari abbandonati in un vecchio teatro dell’opera, erano lì sul pavimento a impedire il passaggio”.

Con i telai tramortiti dalla furia della Grande Depressione si apre uno dei primi racconti brevi di William John Cheever. Fall River, apparso per la prima volta nel 1931 in The Left. A Quarterly Review of Radical and Experimental Art, è uno splendido esempio della concisione, dell’acume e del disincanto che ammanta la prima produzione di questo novelliere. In effetti, quasi diciannovenne, dopo un percorso scolastico discutibile e l’esperienza di un padre alcolista e caduto in miseria, Williams John scrive già come un osservatore astuto, capace di decifrare il quotidiano scrutando il marcio del tedio piccolo borghese di provincia, cogliendo istanti di grigio dietro una marca di sigarette o di whisky, dietro un gesto, un profumo o due nuvole di passaggio. Una capacità evolutasi nel tempo, attraverso più di duecento racconti brevi, il cui filo conduttore è stato il dissacrare le immani costruzioni di cosmesi della piccola borghesia nordamericana dei primi cinquant’anni del Novecento. Quando, dal 1935, Cheever diviene uno dei principali collaboratori del New Yorker, stessa rivista in cui si cimentano Truman Capote, J.D. Salinger, John Updike, Philip Roth, il racconto breve si consolida come sua forma espressiva prevalente; sebbene anche i suoi racconti lunghi e i suoi romanzi siano stati apprezzati da critica e pubblico (ad esempio, sia The Wapshot Chronicle che The Swimmer hanno avuto una trasposizione cinematografica) il racconto breve resterà il carattere principale del suo posizionamento negli annali.
Fall River è dunque uno scritto del primo Cheever, quello della crisi del 1929, dei sobborghi del New England, dove un’America interrotta, smarrita, sembra non riuscire ad andare oltre un silenzio raggelante. Viene inserito in una raccolta postuma, Thirteen Uncollected Stories del 1993. La crisi è in tutti gli angoli delle strade, nelle fabbriche deserte, nelle macchine spente, in qualche flebile grido di collera dei lavoratori comunisti talmente fuori luogo da non credere in se stessi.
Dall’appartamento su, in collina, Cheever descrive la atroce sonnolenza di una valle depressa, stantia, immobile, dove l’arrivo della primavera – dopo un inverno senza neve – segna un ciclo degli eventi che non trova corrispondenza nell’indifferenza arresa e senza tempo dei disoccupati attorno a Fall River. Perché tutti sanno che tornerà l’inverno, e tutti sanno che sarà un altro inverno senza fabbriche.

 

Il cielo era pesante come carne – era la primavera, non c’erano dubbi. Per noi era evidente dalle colline, dal disgelo e dal dolore disperato della terra spaccata. Ma nonostante tutto le ruote non erano in movimento e i telai fermi come ballerini inquieti e, proprio per questi motivi, a voler parlare della primavera erano in pochi.

 

Si tratta di uno spaccato oramai conosciuto al grande pubblico, spesso letto solo come una sospensione momentanea, un intervallo difettoso ma interno a uno sviluppo ininterrotto intrapreso dalle società liberali nelle economie di mercato. Di quell’epoca si sottolinea quasi esclusivamente il rinnovato vigore dell’intervento pubblico come principio regolatore dell’economia. Anche rispetto alla espressione artistica si cita spesso l’esperimento del PWAP (Public Works of Art Project), il piano contro la disoccupazione rivolto agli artisti tagliati fuori dal mercato del lavoro. Dal dicembre del 1933 con il PWAP Roosevelt commissiona, fino al giugno del 1934, ben 15mila piccole opere per 3.700 artisti, con un investimento di un milione e trecentomila dollari. 
Conrad Aidken, Saul Bellow, Ralph Ellison, Edward Hopper, Willem de Kooning, Jackson Pollock, Richard Wright e lo stesso John Cheever lavorano per il PWAP. 
Di quell’epoca si sottolinea poi il lavorìo culturale e politico che sembra aver traghettato l’Occidente oltre lo stallo del 1929. La Depressione è «Grande» perché coinvolge una totalità storica, è sede di irreversibile delegittimazione del capitalismo, fucina di una sua reinvenzione, momento di forte espansione del conflitto di classe. Quest’enfasi sulla politica della crisi finisce per situare nel lavoro una funzione identificante verso la classe per sé, e nel lavoro perduto un elemento mortificante dalle conseguenze anomiche.
La variabile più propriamente politica fa dunque della crisi un motore di mutamento sociale e politico, come un processo dinamico, sia essa afferente a guarigione o a fine.

 

Per fortuna di tutto questo nulla sembra mostrarsi a Fall River. Tutti gli aspetti che tratteggiano nella storia l’epoca del Furore (Steinbeck, 1940; Ford, 1940), quando non assenti, restano sostanzialmente sullo sfondo, flebili o ridicoli. A Fall River non c’è nessuna depressione «Grande», nessuna rivincita collettiva, nessuna solidarietà. Padroni e operai sopravvivono annoiati nello stesso spaventoso spaesamento. E l’elemento che li accomuna è il ristagno dell’umano, la stasi, la morte sociale. La fallacia di ogni prospettiva di rivalsa popolare è stroncata da Cheever anche in In Passage (The Atlantic Monthly, 1936), altro racconto dei primi anni, che accompagna Fall River nella raccolta Thirteen Uncollected Stories. Cheever scrive, osservando Girdansky, un’attivista radicale intento ad arringare in una piazza di Boston:

 

“Abbiamo il potere di cambiarlo. C’è una sola via d’uscita, la dittatura del proletariato. È semplice come il desiderio di mangiare, bere e vivere…”
Non mi trattenni a lungo; faceva troppo freddo per restare fermi. Non sono andato a parlargli. Non so neppure se mi avrebbe riconosciuto. Camminai lungo Charles Street sollevando le foglie morte e chiedendomi dove sarei stato l’anno seguente nello stesso periodo.

 

Eccoli, gli occhi lucidi dello spaesamento disincantato, che portano quell’espressione inconfondibilmente bionda e vuota, tanto minima che neanche la malinconia avrebbe il coraggio di costruirci la casa per l’inverno. Sono gli occhi di chi ode solo i cani che abbaiano sotto le finestre nelle sere di gennaio senza neve e le navi come carovane di mare che se ne stanno attraccate e silenziose dando la schiena a un Paese spogliato e interminabile. Con la sensazione che non gli resta molto.

 

Più a nord, nei porti, c’erano parecchie barche vuote in attesa di un carico. Le avevano ancorate lontano dalle banchine e quelle facevano avanti e indietro sospinte dalle correnti della marea. Le avevamo viste in estate e se fossimo tornati in primavera di sicuro le avremmo trovate ancora lì. Enormi ammassi di acciaio e vetro in balia della marea e in attesa di un carico. Non sarà questa primavera e magari nemmeno quest’estate. Le barche saranno ancora lì al porto ad aspettare, con la loro lucina nel caldo e nel buio della sera.

 

La condizione umana nella stasi fa spavento, e prosciugarne l’assurdo senza una ragione vuole dire raccontarsi di cose mai successe, o successe solamente dietro a tutto. Fall River non è una città dopo lo sterminio, cui si concede una stretta di mano per non farla disperare. È una città durante lo sterminio, permanente, dove è impossibile superare la notte, dove l’aria ha l’odore del temporale prima e dopo ch’è cominciato, dove finalmente non resta più nascosta la forma tonda del dolore che lievita costante nell’esistenza. 
Mentre la morte si avvicina a passo lento e l’Equatore è lontano, a Fall River non si compra una vita e non si guadagna la morte. Si accetta solo la sconfitta, ci si rintana e si muore prima di morire.

 

Erano ormai sei mesi che un vecchio del piano di sotto non lavorava più alla fabbrica. I primi tempi non riusciva a starsene con le mani in mano e così ogni mattina si alzava, attraversava il fiume e andava in città in cerca di lavoro. Anche quando si rese conto che il lavoro non c’era continuò ad alzarsi ogni mattina e a girarsi tutta la città a piedi fino a sera, poi riattraversava il grande fiume parlando con quelli che un lavoro ce l’avevano. Andò avanti così per due mesi, poi un giorno cadde e si fece male a una gamba. Quando la gamba guarì, l’uomo aveva perso la voglia di camminare. Usciva dalla camera solo per comprarsi qualcosa da mangiare, poi tornava e mangiava. Era chiaro a tutti che quando le ruote avrebbero ricominciato a girare e le lunghe cinghie a vibrare con i loro bruschi movimenti non sarebbe tornato a lavorare. Viveva nella sua stanza, usciva per comprarsi qualcosa da mangiare e tornava.

 

Qualcosa da mangiare, birra, sigarette. Nell’eternità incombente d’un immutabilità insulsa ma salvifica, all’essere umano resta il vigliacco eppure nobilissimo espediente, con la fortuna di tramortirsi di tutti i vizi d’un vivere-morendo: “A quanto pare l’età è indicata da confusione, brutte abitudini e vizi”.
A Fall River non c’è lavoro, non c’è futuro, non c’è speranza. A Fall River è tutto immobile e intriso dell’assurdo, un sentimento diffuso di chi sa che ogni suo momento, ogni suo slancio, ogni sua opera è sottoposta al vaglio della morte. La vita è assurda perché esiste la morte.

 


 

LETTURE

Cheever John, Tredici Racconti, Fandango, 2011.

Cheever John, Gli Wapshot, Fandango, 2004.

Steinbeck John, Furore, Bompiani, 1940.

 

VISIONI

Ford Henry, Furore, Twentieth Century Fox, 1940.

Perry Frank, Il Nuotatore, Columbia Pictures, 1968.

space