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di Daniela Fabro

 

Secondo alcuni, ogni racconto letterario è mosso e generato dalla paura, perché la necessità della narrazione deriva direttamente dallo scarto, dal divario tra l’inizio di un accadimento e l’inquietudine che ne scaturisce finché questo accadimento non giunge a compimento. Ma forse nessun genere, letterario o cinematografico – thriller, horror, pulp, splatter, fantasy vampireschi, polizieschi dei più efferati e violenti –, supera l’effetto di straniamento e alienazione delle facoltà mentali, e quindi genera paura, di certa fantascienza. Di cui il maestro indiscusso e insuperabile fu Philip K. Dick, il cui racconto Impostore (ma molti altri se ne potrebbero portare ad esempio, da Minority Report a Total Recall) rappresenta la summa della sua poetica dell’assurdità dell’esistenza umana e del repentino dissolversi della trama del reale. Ma altri esempi sono i telefilm della serie televisiva americana degli anni Cinquanta intitolata Ai confini della Realtà, sceneggiati da scrittori come Richard Matheson e Ray Bradbury. Così come i racconti di Alfred E. Van Vogt: leggerne le prime pagine e decidere di chiudere per sempre un suo libro è una decisione in certi casi utile, e qui siamo già ai confini della paura del “fuor di sesto”, a salvaguardare la propria salute psichica.
Perché con la fantascienza non sono in gioco la nostra conoscenza e le nostre previsioni per il futuro, più o meno avveniristico o ipertecnologico, quanto il nostro rapporto con l’identità. Che il trasporre in un tempo di là da venire, e perciò stesso sconosciuto e incerto, non rende meno angosciante e perturbante, anzi, semmai di più, in quanto vi si proiettano l’incertezza, l’ansia e le paure quotidiane. E chi meglio di uno scrittore che ebbe più di un rapporto con sostanze psichedeliche e fu portato da sua madre, a un certo punto della sua vita, da uno psichiatra, che però lo trovò perfettamente sano, può incarnare il mito di questa alienazione, mentale e sociale?
Philip Dick riassume in sé il paradigma dell’autore “maledetto”, quasi misconosciuto in vita, la cui grandezza si può riassumere nel modo in cui interpretò il tema del doppio, della relatività della conoscenza, dell’impossibilità di conoscere la verità e individuare il reale, come si vede argomenti di natura prettamente filosofica (e molta della sua formazione scolastica e personale lo fu), incarnandolo in soggetti e trame di cui sono protagonisti i replicanti, gli androidi, robot che hanno preso il posto degli umani senza che questi ultimi lo sappiano.
A prima vista, questa idea, soprattutto oggi che la questione è diventata l’opposto, e cioè gli uomini che diventano macchine, potrebbe parere un po’ puerile e soprattutto superata dal nuovo immaginario dei computer e della rete, che ha smaterializzato i rapporti tra le persone rendendoli ancora più evanescenti, incerti e aleatori delle invenzioni di Dick.
Invece il suo insegnamento è valido ancora adesso perché ci svela delle costanti dell’animo umano, inclusi i meccanismi dell’insorgere della paura. Nel duplice significato dei timori, anzi dello spavento, del terrore, cui sono esposti i personaggi dei suoi racconti, ancor più che dei suoi romanzi, nello svolgersi delle vicende che li vedono protagonisti, e della paura che fanno nascere nel lettore, quando non anche nell’autore stesso (in una postilla a La formica elettrica, altra narrazione breve sul tema dell’(in)esistenza della realtà esterna, in quanto veramente esistente o mera proiezione della nostra mente, è Dick stesso che si dichiara sconvolto nel rileggere il finale di questo suo racconto).
Il fatto è che questo autore ha svelato i meccanismi con cui certe persone percepiscono più di altre le minacce e la cattiveria delle azioni altrui, che sono sempre sovradeterminate dalla inautenticità della società in cui si vive – che sia quella degli anni Cinquanta, decennio di massima prolificità della sua scrittura, che siano quelle che si sono succedute fino ad oggi, perché sempre dominate dalla ricerca del profitto – patendone le conseguenze in termini di profondo disadattamento.

 

impostoreImpostore, racconto del 1953, che è stato inserito anche ne Le Meraviglie del possibile, Antologia della fantascienza, a cura di Sergio Solmi e Carlo Fruttero, e da cui è stato tratto nel 2002 il film omonimo per la regia di Gary Fleder, riunisce le due tematiche (relativismo delle nostre certezze – ma soprattutto: “siamo veramente umani o siamo programmati per credere di esserlo?” – e pericolosità del prossimo) svolgendole in una trama che tiene sospeso il lettore sino al finale, come ovviamente tutti i racconti che si rispettino, ma con un di più eccezionale. E cioè l’opera destabilizzante di chi sa – e chissà come mai lo sapeva? – che non possiamo mai essere sicuri della realtà che ci circonda e perfino di chi siamo veramente.
Come non lo sa il protagonista di questo racconto, l’impostore, che potrebbe essere sia l’umano da difendere dall’appropriazione delle sue sembianze da parte di un robot venuto sulla Terra per distruggerla, sia il robot stesso che queste sembianze ha già preso, come pensano gli agenti dei servizi segreti a difesa del pianeta. Costoro verranno tutti fatti morire in un’esplosione quando verrà pronunciata una determinata frase. Naturalmente non ci sarà happy end, ma lo straniamento e il senso del “fuor di sesto” è provocato soprattutto dall’incertezza sull’identità del protagonista, che egli stesso coltiva pur essendo sicuro di essere se stesso.
Fino a quando, in una radura del bosco vicino a casa sua, non verranno trovati i resti dell’astronave sui cui viaggiava il replicante, e il replicante stesso, a quanto parrebbe, perché nel petto squarciato vi luccica una parte metallica. Invece è il coltello con il quale il protagonista è stato ucciso dall’androide: lo scambio è avvenuto quindi e il protagonista non potrà sottrarsi al destino di saltare in aria con i suoi amici perché lui, in quanto robot programmato proprio per questo, pronuncerà alla fine la frase fatale.
Una suspense dalla carica ineguagliabile, capace di generare paura ma anche di innescare processi sociali e mentali irreversibili. E cioè quelli della paranoia, che non è una malattia mentale, ma la capacità di alcuni individui estremamente sensibili di “cogliere la profonda essenza maligna di tutte le relazioni umane, anche quelle animate dalle più buone intenzioni, in quanto irrimediabilmente avvelenate dall’inautenticità del mondo in cui siamo condannati a vivere” come ha scritto Carlo Formenti recensendo sul “Corriere della Sera” l’ultimo romanzo inedito di Dick, Lo stravagante mondo di Mr. Ferguson. Dove ritornano i leit motiv della letteratura di questo scrittore e cioè “l’insensatezza dell’esperienza umana e lo slabbrarsi del tessuto della realtà; la ricerca dell’assurdo e del surreale che viene associata nella sua sf a dispositivi di simulazione tecnologica”. 
Una letteratura che è il naturale complemento e sottofondo allo svolgersi dei rapporti umani in una società, come tutte, ma soprattutto come quella che si andava delineando a partire dagli anni Cinquanta e cioè la società dei consumi, dove la malignità dei rapporti tra gli uomini si esplica nella ricerca del profitto e del benessere individuale ad ogni costo, anche a scapito degli altri, rendendoci più artificiali e artificiosi degli stessi simulacri tecnologici inventati da Dick. Fino ad arrivare agli estremi in cui ci troviamo adesso.
C’è infatti chi sostiene che la “società della stanchezza” o dell’“eccitazione”, come l’hanno chiamata due sociologi dei nostri tempi, in cui vive oggi l’individuo occidentale (ma se è per quello, anche l’asiatico affluente, difatti uno dei due sociologi citati è coreano, Byung-Chul Han, mentre l’altro è il tedesco Christoph Turcke), sia frutto della scarsa avvedutezza della generazione di chi ha adesso quarant’anni, ed era giovane negli anni Ottanta, quelli del riflusso e dell’individualismo, che spesso senza portare a casa risultati positivi nemmeno per sé, non hanno però soprattutto pensato ai figli e ai figli dei propri figli.
Cioè non affrontando i nodi irrisolti di una società border line che genera ansie da border line: l’ansia era la malattia del secolo nel Novecento, ma lo è ancora adesso, anche perché nel Novecento ci siamo ancora; del resto il re /Lucertola/ della psichedelia aveva già detto: “People are strange when you are stranger” (The Doors, 2007). E il gioco (della paura) è fatto.

 

Chi ha letto l’Antologia della letteratura fantastica di Jorge Luis Borges, Silvina Ocampo e Adolfo Bioy Casares, e soprattutto Le meraviglie del possibile, Antologia della fantascienza, con l’introduzione di Sergio Solmi, sa naturalmente che l’humus di cui si nutrono racconti come questi è la volontà di spiazzare il lettore mettendolo di fronte a una visione onirica della realtà, che spesso – sempre – è la realtà onirica stessa degli autori.
Con il duplice effetto di fabbricare universi futuri e /o paralleli e di creare nella mente del lettore il sospetto che esistano davvero. Se poi il lettore è dotato di una speciale attività di quelli che adesso gli scienziati neurobiologi hanno scoperto essere i neuroni specchio… E se poi la fisica quantistica contemporanea conferma l’esistenza dei mondi paralleli…
Niente di tutto ciò si sapeva negli anni Cinquanta, o forse già sì? E se ne aveva più paura una volta, che tutto pareva frutto di fantasie, o adesso, che sembra tutto così spiegabile? La differenza oggi è che la fantasia, come sempre, è stata superata dalla realtà. Ma è la realtà asettica dei laboratori e delle ricerche scientifiche. Che, anche se a dire il vero tanto asettica non è (“non lasciare che i fatti rovinino una bella storia”, il motto del giornalismo inglese vale anche per gli scienziati), con la sua concretezza sperimentale svuota questo tipo di narrazione dal suo senso di vertigine. Il senso di vertigine (e di paura) che nei racconti di Dick era più reale del reale stesso scoperto adesso.
D’altra parte, “se questo mondo vi sembra spietato, dovreste vedere cosa sono gli altri”.  E se la perdita di senso e di significato di ciò che ci circonda comunemente fa parte sia dell’immaginario letterario della fantascienza, sia del bagaglio di esperienza clinica di uno psicotico, il punto di contatto tra le due cose può realmente far paura. Philip K. Dick, però, fu trovato perfettamente normale e in salute dallo psichiatra che lo visitò e, a parte qualche confidenza con gli allucinogeni, traeva la materia del suo scrivere, un continuo andare a venire dal multiverso, principalmente dalle sue riflessioni filosofiche (studiò filosofia anche a livello universitario).
E non c’è bisogno di ricordare Friedrich Nietzsche, secondo il quale il peso della realtà e dell’esistenza può essere sopportato solo a patto di essere un essere superiore a quello delle vite comuni (cioè o un artista o il famoso “Superuomo”); e questo perché la verità è talmente relativa che tutti possono avere ragione, ma la ragione ce l’ha sempre il più forte. Al che o ci si rifugia nel mondo estetico e della creatività o si è, a proprio rischio e pericolo, superuomini. 
Anche il mondo degli universi paralleli della fantascienza è il mondo della relatività della verità, con la prospettiva di dover sempre soccombere di fronte alla forza (e Atto di forza è il titolo di un film con Arnold Schwarzenegger tratto da un altro racconto di Dick). E non se ne esce se non con l’ironia, per esempio, di un John Belushi che apparentemente in modo umoristico, ma in realtà profondamente serio, ebbe a dire: “Non può essere tutto qui, è impossibile, ci deve essere qualcosa di più, qualcos’altro”.
Se infatti il mondo è il coacervo di conformismi e ipocrisia che tutti conosciamo, meglio sognare che ci sia qualcos’altro, anche a rischio di morire pazzi in sella a un cavallo o di overdose all’hotel Chateau Marmont di Los Angeles. Oppure ci si infila in un cunicolo spazio temporale, wormhole, e si sta a vedere cosa succede. Ma la paura resta. Anche perché, con Sylvia Plath (1998):

 

Morire
è un’arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in maniera eccezionale.
Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.

 


 

LETTURE

AA.VV., Le meraviglie del possibile, Antologia della fantascienza, edizione a cura di Solmi Sergio e Fruttero Carlo,
Einaudi, Torino, 2009.

Belushi John, D lo domanda a …, in “D. La Repubblica delle Donne”, 25 febbraio 2012.

Borges Jorge Luis, Ocampo Silvina, Bioy Casares Adolfo, Antologia della letteratura fantastica, Einaudi, Torino, 2007.

Cerami Vincenzo, Il seme della paura genera storie, in “Domenica del Sole 24 Ore”, 13 maggio 2012.

Chul Han B., La società della stanchezza, Nottetempo, Roma, 2012.

Dick Philip K., Se questo mondo vi sembra spietato, dovreste vedere cosa sono gli altri, Edizioni e/o, Roma, 1996.

Dick Philip K., Rapporto di minoranza e altri racconti, Fanucci Editore, Roma, 2002.

Dick Philip K., Vita breve e felice di uno scrittore di fantascienza, Feltrinelli, Milano, 1997.

Formenti Carlo, Il primo Dick, che non credeva alla gratitudine, in “Corriere della Sera”, 4 aprile 2012.

Nietzsche Friedrich, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 1986.

Perniola Mario, Contro la comunicazione, Einaudi, Torino, 2004.

Plath Sylvia, Lady Lazarus e altre poesie, Mondadori, Milano, 1998.

Türcke Christoph, La società eccitata, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.

Van Vogt Alfred Elton, Mente Suprema, Nord, Milano, 1978.

 

VISIONI

Verhoeven Paul, Total Recall, Universal Pictures, 2009.

Spielberg Steven, Minority Report, 20thCentury Fox Home Entertainement, 2010.

 

ASCOLTI

The Doors, Strange Days, Rhino Records, 2007.

 

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