titolo06
di Francesco Zago

 


 

Quando la notte risale i muri 
delle case abitate,
e penetra nelle stanze.

 

Poema a fumetti, Dino Buzzati

 


 

Siamo nella Milano del boom economico, in una redazione giornalistica che potrebbe essere tranquillamente quella del Corriere della Sera di via Solferino. Il protagonista è lo stesso Buzzati, nel suo ruolo quotidiano, “normale”, seppur celebre, di giornalista. Bastano però poche righe perché le prime crepe comincino a sgretolare una realtà rassicurante. Le coordinate temporali alludono subito a un tempo fantastico: “A mezzogiorno circa il direttore arrivò, io mi presentai, era il 37 aprile, aveva ricominciato a piovere”.
Il giornalista Buzzati pensa che vogliano spedirlo a fare il corrispondente da Cipro, ma il direttore ha in mente ben altro, “qualcosa di più… di più…”. Ancora qualche esitazione, il direttore non vuole sbottonarsi, poi, poco dopo: “Giù dalle scale, alle mie spalle, un passo precipitoso e ritmico, oh quel passo, io lo sapevo da quando ero bambino, che mi avrebbe preso e sbaragliato. Disse: «Il direttore la desidera»”. Nell’incarico che lo aspetta, il giornalista avverte tutto il peso del destino. Poche righe dopo, l’assurdo, l’indicibile irrompe nella consuetudine di un grigio ufficio milanese: durante gli scavi per la metropolitana milanese, un operaio, un certo Torriani, ha scoperto “la porta dell’inferno”. Anzi, degli “inferni”. In apparenza, hanno riferito al direttore, nulla a che vedere con altri inferni ben noti: lì “è tutto come qui da noi, e gli uomini sono di carne ed ossa, mica come quelli di Dante. Vestiti come noi. E dice che è una città come le nostre con luce elettrica e automobili […] le case e i bar i cinema i negozi”. Nonostante le rassicurazioni, Buzzati ha paura, si rende conto “che la famosa porta stava aprendosi”.

 

Buzzati incontra Torriani e Vicedomini, ingegneri che lavorano alla Metropolitana Milanese. Dopo qualche ritrosia – e perciò il temporaneo sollievo del giornalista – viene svelato il luogo dove si aprirebbe un passaggio, una porta: in fondo a una galleria in costruzione, presso la stazione di piazza Amendola. È tutto vero: il giornalista segue una galleria e risale una scaletta, e si ritrova in un mondo a parte, ma del tutto simile al nostro. “Niente di infernale e diabolico”. La gente, le strade, le case, i negozi. Semmai, l’inferno è una trasfigurazione, neppure così lontana dalla realtà, delle nostre città: i suoi abitanti sono imprigionati in un “gigantesco ingorgo” di cui non si vede la fine; gli occupanti delle auto “non sembravano ombre bensì individui in carne ed ossa. Con le mani sul volante, immobili, sulle facce pallide una ottusa atonia come per effetto di stupefacenti […] Pallidi, svuotati, castigati e vinti. Allora mi chiesi: è forse questo il segno che siamo veramente all’Inferno? O incubi del genere avvengono abitualmente anche nelle città dei vivi?”.
Buzzati viene prelevato dalle “diavolesse”, capeggiate dalla signora Belzeboth, “alta vestita di un tailleur grigio ferro stretto in vita, una donna sui quarant’anni, molto bella […] una faccia da statua greca, ferma, autoritaria, sicura di sé”. Le diavolesse sono terribili e moderne amazzoni che manovrano oscuramente i destini dei dannati da una sala di comando dal sapore vagamente fantascientifico. In un clima che ricorda la colpa ancestrale e indefinita delle parabole kafkiane, il nostro Dante scopre di essere già dannato: “«E io… Io dunque sarei dannato?» «Penso di sì.» «Che cosa ho fatto di male?» «Non lo so» disse. «Non ha importanza. Tu sei dannato perché sei fatto così. I tipi come te l’inferno se lo portano dentro fin da bambini…»”.
Da qui si spalanca una serie di spaventosi gironi novecenteschi, tableaux vivants della desolazione umana, cui Buzzati assiste da alcuni schermi. Ci sono “Le accelerazioni”, dove l’ingegner Tiraboschi, prototipo del professionista affermato e indaffaratissimo, viene maneggiato dalle diavolesse come “un burattino folle”, fino all’“accelerazione ultima, il vortice, la cateratta dell’estremo dì”. E poi ci sono le “solitudini”, forse la parte più riuscita del racconto, con quello sbirciare oltre i muri e le finestre dei palazzi che per Buzzati doveva essere un’ossessione: “Che strane case laggiù all’Inferno, là dove mi avevano messo ad abitare. Dalla parte davanti era uno spettacolo bellissimo”. Ma è solo un’illusione. Perché “l’altra parte della casa, la parte di dentro, le viscere le budella i segreti dell’uomo […] luce di gesso grigia uniforme nel cortile che si inabissa alle due e mezza due e tre quarti del pomeriggio. […] Qui nel cortile dei condominii universali le aride solitudini nostre vostre”. Nella carrellata di “solitudini”, una per ogni piano di un condominio, Buzzati rivede “un vecchio amico”, che a uno sguardo più attento si rivela l’autore stesso: al quinto piano nota una figura, un uomo, “non dico che esistesse veramente: c’era. La luce morta del cavedio se ne stava andando come il cameriere decrepito del vecchio caffè quanto parte l’ultimo cliente”. 
Alla fine, tutte le anime condannate a vivere le une accanto alle altre ma nella più desolante solitudine si ritrovano a un surreale ricevimento, e quando la festa sembra avere inizio, “tutti fecero un moto con la bocca a guisa di pesci morenti, invocando forse un po’ d’aria. […] Ma nessuno si liberava, nessuno era capace di uscire dalla casa di ferro in cui si trovava chiuso fin dalla nascita, dall’orgogliosa cretina scatola della vita”.

 

libro06_buzzatiNell’inferno parallelo si celebra la festa dell’Entrümpelung, allegra ricorrenza di primavera che ricorda i capodanni nostrani, con tanto di lancio dalle finestre di ogni genere di cianfrusaglie, ferrivecchi e immondizie inutili. Stessa fine, però, fanno anche gli anziani, ormai inservibili perché incapaci “di correre, di rompere, di odiare, di fare l’amore”. E quindi vengono eliminati per poi essere buttati nelle fogne dagli “incaricati dell’autorità municipale”, con indifferenza e crudeltà indicibili: il capitano d’industria Schrumpf viene appeso “come un maiale” e linciato, e “dopo una ventina di colpi ha già perso gli occhiali, i denti, i sensi”; la “Zia Tussi” viene trascinata giù per le scale dai suoi familiari, “lasciando che sbatta malamente di gradino in gradino, con brutto rumore di ossa” .
Buzzati prosegue la sua disperata esplorazione. Tutto non fa che confermargli lucidamente l’assoluta somiglianza degli inferi con la vita “normale”, ma, appena sotto la superficie, “basta pochissimo e subito si avverte una indifferenza, una lontananza, una freddezza impassibile e grigia”. Il giornalista ci ripensa, e conclude che dopotutto la somiglianza è totale, non solo superficiale, con Milano – “dico Milano per dire la città nostra, di ciascuno di noi, la città della solita vita”. Ma l’inferno offre qualche possibilità per trasformarsi. Buzzati si descrive “timido, gracile, deteriorato e sprovveduto”, col “complesso di inferiorità e il mento sfuggente”, ma risolve tutto acquistando un’auto. Una “Bull 370”, “una biposto, ma non sportiva”: “Da quando la guido, sono un altro”. Buzzati si sente più bello, più sicuro, più importante, più spavaldo: “una belva, un Nembo Kid”. Le strade diventano a poco a poco un’arena, il luogo per eccellenza dove dimostrare la propria forza. Ma c’è un segreto: all’inferno il volante delle auto viene trattato con una speciale vernice, “una droga simile a quella che scatenava i torbidi istinti del dottor Jekyll”, in grado di trasformare persone miti e remissive in “manigoldi brutali e bestemmiatori appena sono alla guida di un’auto”. Il protagonista gira per la città in cerca di risse, di vittime della propria belluina tracotanza, e nemmeno lui sa perché: “Che cosa mi sta accadendo? […] Perché questa voluttà di sopraffazione e ingiustizia? Chi mi ha stregato? Io sono la cattiveria, la vigliaccheria, la foresta. Sono schifosamente felice”. È solo la sera, quando Buzzati rientra nella “solitudine immensa” della sua casa e ripensa a tutto questo, che riemerge Mr Hyde: “Io mi spavento. Dunque l’Inferno è penetrato in me, nel sangue, io godo del male e della mortificazione altrui […] spesso vorrei frustare, battere, dilaniare, uccidere”.

 

L’ultima parte del racconto, “Il giardino”, si apre con un barlume di speranza: un giardino, unico in mezzo alla metropoli, dove il sole risplende davvero, dove “tutto era lieto, felice, perfetto, tale e quale certi quadri un po’ leziosi dell’ottocento tedesco”. Ma basta poco a cancellare tutto. Fa sorridere amaramente il modo in cui l’amministrazione cittadina distrugge pezzo dopo pezzo quell’angolo di paradiso. Evidentemente ciò che accade oggi a Milano e in molte altre città italiane non era nuovo neppure a Buzzati negli anni Sessanta, ma è scioccante (perché così attuale) leggere come, da una parte, le “autorità” fagocitino mostruosamente e del tutto legittimamente il giardino, e dall’altra le stesse autorità, nella figura del professor Massinka, assessore ai parchi e giardini, esplodano “in irruenti proteste contro lo scempio delle ultime superstiti oasi di verde”, riuscendo a “convincere tutti gli astanti che la salvezza del pochissimo verde residuo nella città era questione di vita o di morte”. Intanto, “una specie di rinoceronte meccanico sfondava il muro di cinta […] con le sue braccia a forma di falce, di tenaglia, di denti, di odio e di distruzione”, nel “fracasso frenetico dei bull-dozers sitibondi di selvaggia rovina”. E poi una sentenza che non ha bisogno di nessun commento: “E si diffuse un acuto odore di manovra elettorale”. Miasmi e contraddizioni a cui siamo fin troppo abituati.
Il giardino paradisiaco si riduce via via a simbolo stesso dell’inferno e della sua devastazione endogena e cancerogena, un “funesto buco, un angusto pozzo nudo e grigio […] laggiù il sole non sarebbe arrivato mai più […] e neppure il silenzio, né il gusto di vivere. Nemmeno il cielo si poteva vedere dal sinistro cortiletto, neppure un minuscolo fazzoletto del cielo, tanti erano i fili e i cavi che si intrecciavano […] per il trionfo dei progressi e delle automazioni”.
I sospetti e le diffidenze dell’inizio si trasformano, al termine del racconto, nello sconforto e nella conferma di quei presagi: “E poi, a me stesso che ci sono stato, non è ben chiaro se l’Inferno sia proprio di là […] mi domando anzi se per caso l’Inferno non sia tutto di qui, e io mi ci trovi ancora, e che non sia solamente punizione, che non sia castigo, ma semplicemente il nostro misterioso destino”. La colpa kafkiana si è risolta in un puro meccanicismo senza sbocchi.
Come in tanti altri casi, queste pagine trasudano letteralmente del più tipico pessimismo buzzatiano, laico e così profondo da escludere ogni speranza. Neppure il fantastico, l’assurdo sembrano suggerire un antidoto, una fuga, anzi sono la conferma di un reale crudo e inesplicabile. Il tema della “porta”, del “passaggio” (“la bocca nera dell’abisso”) verso un mondo altro (e perlopiù negativo, spaventoso) ricorre spesso nei racconti e nei quadri di Buzzati. Ad esempio nella Stanza (1968) (Ferrari, 2006), definita dall’autore una “cronaca figurata”, dove una sagoma umana stilizzata si spinge inutilmente verso una porta che rimpicciolisce e scompare. Oppure in una “vignetta” ritrovata a margine di una pagina d’agenda, dove un uomo curvo sul bastone si dirige verso una porta, la “Soglia estrema”: in questo caso, il “passaggio” coincide con la morte, ultima ossessione dell’autore, di cui tutti gli altri “cunicoli”, anfratti e pertugi che si spalancano su altri mondi sono una prefigurazione, un anticipo, forse un avvertimento. Sempre in Buzzati aleggia la percezione di un “altrove” misterioso, una dimensione parallela, in cui spesso i suoi personaggi cadono, o da cui sentono attratti, e quasi sempre si tratta della città, o di una città dentro la città, come in Un amore: “Il groviglio fantastico dei camini sul tetto, la perdizione dei cavedi che si inabissano […] tutta la densità di vite che fermentano e mai si sa mai si saprà in una specie di rombo silenzioso, già scendeva la notte i lumi qua e là ma in alto ancora tutte le case nere, enigmatici profili fumiganti di caligine lui era sul bordo di una fossa immensa e lunga…” (Buzzati, 1965). Come nel Viaggio agli inferni del secolo, in Poema a fumetti il baratro si spalanca in un punto toponomasticamente fantastico (ma preciso), in via Saterna, tra via Solferino e largo La Foppa: un ennesimo inferno, ma a forti tinte sadico-erotiche.

 

Un altro aspetto che accomuna narrativa e immagine, probabilmente derivato dall’esperienza giornalistica, è la semplicità del tratto, linguistico o pittorico che sia: “«È legge rigorosa che per esprimere un concetto fantastico occorra un linguaggio estremamente preciso, nudo, senza frange e svolazzi». Insomma, «quanto più fantastico il tema, tanto più preciso deve essere il linguaggio»” (Ferrari, 2006). Per questo i quadri di Buzzati ricordano spesso De Chirico, per quell’elemento magico e al tempo stesso straniante che percorre le sue piazze, case, strade desolate. Indimenticabili sono certi palazzi anonimi che fanno da sfondo a figure enigmatiche, come il volto accigliato di Primo amore, opera del 1930; difficile non accostarvi pure i “paesaggi urbani” che Mario Sironi dipingeva negli anni Venti. Ma mentre Sironi si ispira all’architettura delle periferie industriali, fatte di binari, capannoni, grigiori suburbani, gli scenari di Buzzati evocano una metropoli tetramente metafisica, onirica, mentale, dove la distinzione tra centro e periferia perde di senso.
Alla mappa reale se ne sovrappone quindi un’altra, a metà tra il fantastico, il fantascientifico e lo psicologico, ma da cui non riesce in fondo a staccarsi o a distinguersi. Una realtà nascosta, parallela, perennemente in agguato, oppure così vicina, familiare, fino a confonderne e renderne indecifrabile il mistero. È l’inquietudine strisciante che diventa incubo palpabile negli “inferni del secolo”.
Forse Buzzati intendeva dirci che non dobbiamo andare molto lontano per trovare il mostruoso. Non in mondi lontani e fantascientifici, ma sotto casa, nelle nostre città, o nei meandri della nostra immaginazione. I demoni interiori dello scrittore trovano sfogo nel mostruoso della porta accanto. Per questo il “fantastico”, l’altro, l’indicibile spesso assumono forme quotidiane (quando questo non accade, la prospettiva si capovolge radicalmente: si pensi solo al Segreto del bosco vecchio, o La famosa invasione degli orsi in Sicilia, dove Buzzati sceglie deliberatamente il fiabesco e il leggendario). Per Buzzati, lo straniamento più autentico è lì, a portata di mano, nelle “cose” silenziose, assorte nel loro mistero. Il linguaggio del racconto è, di conseguenza, semplice, distaccato, perfino dimesso. Negli innumerevoli inferni descritti, raccontati e dipinti da Buzzati non c’è nulla di eccezionale, iperbolico, o metafisicamente dantesco. Tutto sembra perfettamente normale e opaco. E forse aveva proprio ragione.

 


 

LETTURE

Buzzati Dino, Viaggio agli inferni del secolo, in Il colombre, Mondadori, Milano, 1992.

Buzzati Dino, Poema a fumetti, Mondadori, Milano, 1991.

Buzzati Dino, Un amore, Mondadori, Milano, 1965.

Ferrari Maria Teresa (a cura di), Buzzati racconta. Storie disegnate e dipinte, Electa, Milano, 2006.

 

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