titolo11
di Clara Ciccioni

 


 

Tutto è fantasia: la famiglia, l’ufficio, gli amici, la strada; 
tutto fantasia, più lontana o più vicina, la donna. 
Ma la verità più prossima è solo che tu premi la testa 
contro il muro di una cella senza finestre e senza porte.

 


 

“Carissimo Max, la mia ultima preghiera: tutto quello che si troverà nel mio lascito (dunque nella libreria, nell’armadio della biancheria, nella scrivania, in casa e in ufficio o in qualunque altro luogo qualcosa fosse stato trasferito e ti capitasse sotto gli occhi) quanto ai diari, manoscritti, lettere, altrui e mie, disegni eccetera, bruciarlo integralmente e senza averlo letto, come pure tutti gli scritti o disegni che tu o altri, ai quali dovrai chiederlo in nome mio, possediate. Chi non voglia consegnarti delle lettere dovrà almeno impegnarsi a bruciarle personalmente. Tuo Franz Kafka”.

 

Quando morì di tubercolosi della laringe il 3 giugno del 1924 nella clinica di Kierling, Franz Kafka era probabilmente rassegnato alla consapevolezza che il suo desiderio di restare pressoché sconosciuto al mondo non sarebbe stato rispettato. L’amico Max Brod lo aveva già avvertito qualche anno prima, non aveva alcuna intenzione di eseguire quella sua volontà, ma non per questo Kafka aveva nominato un altro esecutore, né aveva smesso di riempire i suoi quaderni di racconti e frammenti di fantasie.
Dopo la sua morte, tra le pagine di uno di quei quaderni, Max Brod trovò un racconto, probabilmente incompiuto, che nella più celebre traduzione italiana si apre così:

 

Ho assestato la tana e pare sia riuscita bene. Dal di fuori, in verità, si vede soltanto un gran buco che però in realtà non porta in nessun luogo.

 

libro11_KafkaCome è evidente dall’incipit – in realtà più al lettore italiano, dato che il termine Bau, utilizzato da Kafka nell’originale e qui tradotto con tana, assume nella lingua tedesca il significato più ampio di “costruzione”, “edificio”, “configurazione”, “edificio”, “struttura”, “ordito” e infine “tana (vano scavato)” – è ancora una volta una creatura ibrida, a metà tra uomo e animale, a popolare la fantasia di Kafka, una sorta di bestia raziocinante che ha trascorso una vita intera dedicandosi unicamente alla sua “costruzione”, un rifugio sotterraneo in cui raccogliere provviste e godere il più possibile dell’ineguagliabile piacere del silenzio, nell’assoluta priorità di proteggersi da un nemico mai visto che proprio turbando (forse) quel silenzio manifesta la sua esistenza e costituisce la ragione ultima di tanti sforzi razionali e ingegneristici, nonché delle fatiche fisiche necessarie a realizzarli.
Der Bau è uno degli ultimi racconti scritti da Kafka, e insieme a Josephine la cantante, considerata l’ultima opera più o meno compiuta, è uno dei due unici casi in cui la narrazione si svolge in prima persona. Al di là di ciò che questo io narrante ci rivela del suo scrittore, dell’inesorabile consapevolezza di una morte vicina, del suo tentativo di tirare le somme della propria esistenza, della sua metafora costruzione/opera letteraria, la narrazione in soggettiva ha il risultato immediato di immergere chi legge in un sottosuolo psichico in cui non può fare a meno di collocare se stesso.
La bestia pensante, estremamente pensante, ha i bisogni semplici ed elementari di una creatura animale: costruirsi una tana dove rifugiarsi e accumulare provviste, mangiare, dormire sonni tranquilli, trastullarsi nella pace del suo rifugio. Essa possiede però anche una capacità di raziocinio di altissimo livello, che la conduce a un incessante dialogo interiore sull’efficienza della sua costruzione, una sofisticata opera sotterranea edificata attorno ad una vasta e rifinita piazza centrale, da cui si irradia una complessa rete di tunnel e corridoi di cui soltanto uno, ben mimetizzato, ha la funzione di comunicare con l’esterno. Già alle prime pagine è evidente che tanta efficienza non abbia altro scopo se non quello di un’autocelebrazione compulsiva che, nel meticoloso vaglio di ogni ipotesi di invasione e strategia di difesa, precipita già dopo pochi periodi nella presa di coscienza della vanità di tanto operare.

 

Tutti questi sono calcoli molto faticosi, e la gioia che il cervello intelligente ha di se stesso è talvolta l’unico motivo perché si continui a calcolare.

 

Ma è un precipitare accidentale, pressoché indifferente, e appare quasi come l’unico momento di lucidità di un folle, che come seguito immediato a una tale constatazione riprende a calcolare e a considerare la minaccia del nemico sempre più vicina

 

Devo avere l’immediata possibilità di evasione; infatti, nonostante la vigilanza non potrei essere aggredito da una parte assolutamente imprevista? Vivo in pace nella parte più interna della casa, e intanto il nemico mi si avvicina da qualche parte scavando lento e silenzioso.

 

Tanto più che i nemici non vengono solo da fuori, ma anche “dall’interno della terra”, e la possibilità di sfuggirvi si sgretola di fronte all’ennesimo paradosso che la razionalità non può colmare: “Da essi non può salvarmi neanche quella via d’uscita, probabilmente non mi salva in nessun caso, ed è invece la mia rovina: però è una speranza e senza di essa non posso vivere”.
La salvezza è la rovina, ma la rovina è una speranza di salvezza. Non esistono certezze, e più si procede nel racconto più si avverte inesorabile la fragilità di una mente tanto operosa e intelligente, che si affanna a dare un senso al lavorio di una vita intera senza poter evitare di riflettersi nello specchio della follia che la vede unica artefice del turbamento della sua pace interiore.

 

Peggio è quando riscotendomi dal sonno mi sembra che la distribuzione sia in quel momento assolutamente sbagliata, che possa essere causa di gravi pericoli e debba essere immediatamente rettificata in gran fretta senza riguardo al sonno e alla stanchezza; allora mi affanno, allora volo, non ho tempo di far calcoli; volendo eseguire un piano nuovo e preciso afferro a capriccio ciò che mi capita fra i denti, trascino, porto, sospiro, gemo, inciampo, e un mutamento, pur che sia della situazione attuale e all’apparenza così straordinariamente pericolosa, mi pare che basti; finché a poco a poco, mentre mi sveglio del tutto, arriva la riflessione, non capisco il perché di tanta fretta, respiro la pace della mia dimora che io stesso ho turbata, ritorno al mio giaciglio, mi addormento subito per la nuova stanchezza e ridestandomi mi trovo magari un topo fra i denti, prova inconfutabile del lavoro notturno che mi pare quasi di aver sognato.

 

Questa lotta per il silenzio, apparentemente l’unica ragione di esistenza della bestia pensante, assume pagina dopo pagina i caratteri sempre più nitidi della paranoia kafkiana, scandita dalle riflessioni su un nemico che non è altro che rumore, e un rumore che è temuto ma al contempo inconsciamente desiderato.

 

Non è niente, penso che nessuno tranne me lo udrebbe, lo sento però sempre più distintamente con l’orecchio reso più sensibile dall’esercizio; benché in realtà si tratti dappertutto del medesimo rumore, come posso convincermi facendo confronti. Non diventa neanche più forte, me ne rendo conto quando sto nel mezzo della galleria senza origliare proprio alla parete. Allora, solo facendo uno sforzo o addirittura concentrandomi, più che sentire indovino il soffio di un suono.

 

Il racconto si dispiega guidando il lettore in un estenuante delirio tra ragione e abisso, tra la concretezza della costruzione e il vuoto di senso che in fondo essa contiene nel suo avvicinarsi al rifugio perfetto, fino a sospendersi nella constatazione di uno stato di cose rimasto tuttavia sempre identico.

 

“Tutto invece è rimasto immutato…”. Non è dato sapere se Kafka avesse voluto concludere il racconto in questo modo, e stando alla testimonianza di Dora Diamant, ultima compagna di vita nei mesi trascorsi a Berlino, lei stessa avrebbe distrutto un seguito in cui il nemico prendeva la forma di una creatura contro la quale il costruttore della tana ingaggiava un feroce combattimento. Di certo c’è che in questo finale sospeso risiede l’ultimo micidiale colpo alla razionalità umana, che di fronte alla totale assenza di perturbazioni dello stato di cose diviene libera di soccombere al suo essere l’unico e il più inadeguato strumento che ha l’uomo per sopravvivere all’esistenza. “Porto le sbarre dentro di me”, confidava Kafka all’amico Gustav Janouch. “Ogni uomo vive dietro alle sbarre che si porta con sé. È per questa ragione che le persone scrivono così tanto di animali. Ciò esprime il desiderio ardente di una vita libera nella natura… L’esistenza umana per loro è un fardello, perciò ne dispongono nella fantasia… Gli uomini hanno paura della libertà e della responsabilità, perciò preferiscono nascondersi dietro alle sbarre della prigione che si costruiscono attorno”. Il suo ultimo desiderio, vedere la sua opera bruciata e destinata all’oblio, avrebbe forse voluto essere il tentativo estremo di distruggere la sua prigione, una liberazione che non avrebbe mai potuto procurare a se stesso in vita e che a grande vantaggio dei posteri e della cultura letteraria mondiale degli anni a venire non gli fu concessa neppure per mano altrui dopo la morte.

 


 

LETTURE

Kafka Franz, Racconti, Mondadori, Milano, 2006.

Janouch Gustav, Conversazioni con Kafka, Guanda, Milano, 1991.

Müller Michael, Franz Kafka, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1990.

Bloom Harold, Franz Kafka, Infobase Publishing, New York, 2010.

Citati Pietro, Kafka, Adelphi, Milano, 2007.

 

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