celine

I RETROBOTTEGA
DELLA VILLE LUMIÉRE

di Adolfo Fattori


“La maggior parte dei passages parigini sorge nei quindici anni dopo il 1822 […] Cominciano ad apparire i magasins de nouveauté […]. I passaggi sono un centro del commercio di articoli di lusso […] Essi restano ancora, per molto tempo, un centro di attrazione per gli stranieri.” Così scrive Walter Benjamin (1976, p. 140) negli anni Venti del secolo scorso parlando della capitale di Francia e di Charles Baudelaire.
Anzi, citare i passages gli serve per mettere in primo piano due elementi cruciali dello sviluppo di Parigi – la “città delle luci” – come metropoli: gli sviluppi del mercato tessile, e l’introduzione del ferro nelle costruzioni (ibidem). E la relazione dell’industria siderurgica con l’utopia di Jean Baptiste Fourier e dei suoi falansteri (ivi, p. 142), i progenitori – alla fine – dei quartieri dormitorio dei nostri giorni.
Manifattura e industria pesante però non sono solo questo, ma due delle leve della società industriale e metropolitana, di cui Parigi diventa una delle capitali del mondo, almeno nell’Ottocento, anzi, dell’intero XIX secolo, stando ancora a Benjamin. A maggior ragione quando l’industria, il mercato, cominceranno a spettacolarizzare se stessi, prima con le esposizioni universali (a Parigi nel 1889, poi nel 1900), poi con il dispiegamento dell’intera metropoli e dei luoghi del commercio/consumo come spettacolo in sé – e di sé (Abruzzese, 2003). Fra questi, appunto, i passages parigini, ancora – non solo ai tempi di Walter Benjamin, attrazione per i turisti, museo vivente degli sfarzi di una volta.

 

Ma… ma sappiamo bene che il capitalismo accoppia al suo lato luminoso, creativo, un lato più che oscuro e distruttivo: quello dello sfruttamento, della miseria, del degrado (Harvey, 2002). E che su questo, spesso, si glissa.
Sempre nell’Ottocento ci pensò Charles Dickens, con i suoi romanzi, a svelarlo, a denunciarlo, il volto diabolico dell’accumulazione primitiva – scegliendo di narrare le vicissitudini dei soggetti più fragili fra quelli coinvolti nel cambiamento: i ragazzini, i giovanissimi, un’altra delle capitali della modernità in ascesa, Londra.
A Parigi ci penserà Louis-Ferdinand Céline, con Mort à crédit (2010), pubblicato nel 1936 con alcune righe censurate, a parte 117 copie complete fuori commercio, su cui fu condotta l’edizione integrale francese nel 1981. In Italia Morte a credito fu pubblicato per la prima volta nel 1964, e di nuovo nel 1981 nella stessa traduzione, anche questa integrata delle parti originariamente espunte.
Una storia tormentata, che in un certo senso mima le vicende di cui il francese narra. E che si colloca proprio negli anni di cui scrive Benjamin, con le Esposizioni universali, la costruzione della Torre Eiffel, il commercio dei tessuti.
Perché le traversie del piccolo Ferdinand, il protagonista – trasparente la dimensione autobiografica che Céline dà al romanzo – come quelle dei ragazzi di Dickens, mostrano tutta la violenza e la brutalità della condizione capitalistica della vita, dove davvero “il bestiale diventa l’umano e l’umano il bestiale”, come scrisse Karl Marx. Ferdinand vive in una famiglia di miserabili commercianti, dominata da un padre isterico e melodrammatico, che per aiutare il bilancio di famiglia lavora come impiegatuccio, violentissimo a parole senza riuscire ad esserlo nei fatti, depresso, autodistruttivo, idealtipico esempio di quello stato di “nervosismo sociale” di cui scrive Georg Simmel in quegli anni (1995), e con una madre malaticcia, claudicante, una specie di mulo da soma che regge di fatto tutto il peso del lavoro e di collante della famiglia, in una condizione di continuo bisogno e disperazione, tutti e due alla continua ricerca di quella rispettabilità piccolo borghese che sembra il più alto ideale possibile. Il ragazzo è il bersaglio preferito delle rabbie del padre, della disonestà e ipocrisia degli adulti con cui entra in contatto – a rappresentare, però, la condizione di tutti i minori dell’epoca, almeno nelle classi più deprivate.

 

La famiglia di Ferdinand viene dalla provincia, si è trasferita a Parigi per commerciare, ed occupa, appunto, una delle botteghe del passage Choiseul, un luogo mefitico, insalubre, come il minuscolo, sudicio, buio appartamento che vi sorge alle spalle e al di sopra. E rappresenta il lato più sfortunato e minimale dell’imprenditoria, sempre sull’orlo della bancarotta e della miseria, piccoli, miserabili parvenu, che non vedranno mai il benessere, figuriamoci la ricchezza. Unica sponda per il ragazzino, uno zio scombinato e la nonna, che lo trattano da essere umano.  
Insomma, dei testimoni, la famiglia di Ferdinand e lui stesso, di quanto la via dell’impresa sia costellata di macerie umane, tanto che, partita per commerciare nel campo della moda, la famiglia di Ferdinand si riduce a trafficare in tutto, ma sempre in robaccia di scarso valore, alla maniera dei rigattieri, dei robivecchi, pur di sbarcare il lunario.
Viene spontaneo il confronto con un’altra famiglia di mercanti che ha abitato la letteratura del Novecento, ma dal coté nobile della storia, come esordio, ai tempi del sorgere del capitalismo, al crollo, quando la borghesia mercantile, quella del Beruf, fu soppiantata dalla borghesia industriale, anonima, impersonale, quella della catena di montaggio: i Buddenbrook (2006), descritti da Thomas Mann nel romanzo omonimo – che esce nel 1901.
Anche qui c’è un ragazzino, Hanno, non a fare da protagonista praticamente assoluto, in effetti, quanto piuttosto da indice della “decadenza di una famiglia”, come recita il sottotitolo del romanzo: ultimo erede della dinastia Buddenbrook, è destinato a morire giovane, perché malaticcio e indifeso, in contiguità fisica con la sua debolezza di carattere, che simboleggia l’esaurimento delle energie di un’intera visione del mondo, fondata sull’etica e sul rigore.

 

Al contrario di Ferdinand, che pur maltrattato, incompreso, rifiutato, accusato di nefandezze infinite (ed impossibili, almeno alcune, per un bambino), resiste tignosamente e caparbiamente alle difficoltà e all’incomprensione degli adulti. Pure, anche in questo romanzo, scritto in un registro urgente, ossessivo, invadente, ridondante, fatto di accumuli di descrizioni urlate e iperboliche, apocalittiche, ad esprimere direttamente il “nervosismo” dell’epoca, c’è una dimensione di – relativa – serenità e leggerezza: è quella occupata dallo zio di Ferdinand, Edouard, uno svalvolato, e spiantato signore, pieno di debiti, naturalmente, sempre a caccia dell’affare del secolo, ma divertente, geniale, appassionato di meccanica, subito popolare dovunque vada. Un’altra faccia della trasformazione in atto, il lato solare della modernità. 
E poi c’è la nonna, l’altra persona che si occupa del piccolo con affetto, sopravvivenza della vita precedente – e del mondo da cui proviene Ferdinand, quello tradizionale, della campagna, destinato a uscire distrutto dal mutamento sociale…
Per il resto, personaggi sordidi, laidi, come le luride donne cui il ragazzo si accompagna – o meglio, che quasi abusano di lui, che lo usano, che lo ingannano.
E c’è ancora dell’altro, in questo romanzo di formazione/autobiografia romanzata: il viaggio di studio in Inghilterra, cominciato anche questo malissimo, ma destinato a diventare uno dei pochi avvenimenti gradevoli nella vita giovanile del ragazzo (che sfugge qui paradossalmente il destino delle vittime di Dickens, anzi, si concede qui forse l’unico periodo confortevole della sua gioventù). O il rapporto con Courtial, inventore e scienziato eccentrico, emulo di Flammarion, progettista di un “familinsterio” destinato all’educazione dei giovani. Ancora Fourier! E un compendio dell’immaginario del Novecento, dalle visioni della città a quelle di una scienza che sconfina nella fantascienza. E ancora Walter Benjamin, che dal lato della critica sociologica coglierà con il suo immaginifico ma elegante stile esattamente gli stessi elementi che Céline ci sbatte in faccia con la necessaria violenza, un feroce malgarbo, infinita partecipazione, definitiva scorrettezza politica

 

LETTURE

× Abruzzese A., Lessico della comunicazione, Meltemi, Roma, 2003.

× Benjamin W., Angelus novus, 1955, trad. it. Einaudi, Torino, 1976.

× Céline L.F., Mort à crédit, 1936, trad. it. Morte a credito, Garzanti, Milano 2010.

× Harvey D., The Condition of Postmodernity, trad. it.  La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano, 2002.

× Mann T., Buddenbrooks, 1901, trad. it. I Buddenbrook, Einaudi, Torino, 2006.

× Simmel G., Die Großstädte und das Geistesleben, 1903,
trad. it. Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma, 1995.