celine_NY Céline a New York nel febbraio 1937, Copyright Manuel Komroff, archivi Bancroft Library, Berkeley

L’IMPOTENZA-ONNIPOTENZA
AL TERMINE DELLA NOTTE

di Luca Bifulco


Se il viaggio con cui Louis-Ferdinand Céline, ed il lettore che lo accompagna, sondano il termine della notte è stato considerato una narrazione paradigmatica della modernità, la ragione va cercata anche – forse soprattutto – nella sua capacità di porre sottotraccia una delle questioni fondamentali della società moderna: le articolate conseguenze dell’affermazione dell’individuo. La vita di Bardamu, il medico protagonista e alter ego dello stesso Céline, lambisce in effetti i territori più significativi dell’esperienza moderna, dalla Grande Guerra alla fabbrica, dalla trama coloniale alla realtà della metropoli o della complessa periferia urbana. Eppure, la sua presa sul mondo è plasmata da una consistente dose di ironia, cinismo, senso di decadenza, tormento, ma anche distacco e ricerca di singolarità. È nelle peripezie di questo sguardo, ricco di aporie e snodature sfuggenti, che emerge e viene rappresentato il frutto dell’individualizzazione nella società occidentale.
Come valenti studiosi hanno dimostrato, questo lungo processo socio-storico, che ha condotto alla pretesa di ogni persona di reclamare la propria unicità, è emanazione dell’affrancamento dell’uomo occidentale dalla dipendenza ma anche dalla protezione di realtà trascendenti e divine. La conoscenza, il controllo del mondo reso possibile da scienza e tecnica hanno infatti portato all’idea di poter governare razionalmente la realtà, di poter disegnare e dominare il divenire (cfr. sull’argomento anche Cavicchia Scalamonti, 2007). Un’illusione di onnipotenza, sostiene Horst-Eberhard Richter in un suo bel saggio, del tutto narcisistica, che ha però caricato sugli uomini responsabilità insostenibili, anche perché ingiustificate e destinate ad essere spesso disattese (cfr. Richter, 2001). Perciò alla volontà di autorità sul mondo si sono intrecciati, in maniera tanto ironica quanto indissolubile, il timore e la sensazione di debolezza e incapacità. E per questo è lecito parlare di complesso narcisistico di impotenza-onnipotenza, ovvero di un’ambivalenza potenzialmente traumatica.
Un complesso che, oltre ad essere riverberato nelle forme e nella storia della cultura, della politica, dell’organizzazione sociale, sembra essersi poi inoltrato nell’esistenza di ogni individuo. Perché, anche in ossequio all’esigenza di unicità, ognuno è chiamato a forgiare autonomamente la propria biografia (cfr. Beck, 2008), ad autorealizzarsi, a concepire di suo pugno il significato di realtà invece complicate e spesso inafferrabili. Ma, di fronte alla pluralità contraddittoria del reale, e smarrito il conforto – forse castrante, ma in qualche misura rassicurante – della razionalità classica, è presumibile che l’individuo si trovi di fronte ad una forte difficoltà nell’attribuire valori netti e riconosciuti, nel dominare gli eventi, pur avvertendone la responsabilità. In fondo, per questo il riparo fornito dagli assoluti dei totalitarismi, che davano risposte certe benché liberticide, o la messa al bando di ogni ambivalenza – come lo straniero, l’ebreo, il diverso, ecc. – hanno spesso potuto fare breccia nelle persone.
Così, a suo modo, anche il rifugio nel nichilismo di Bardamu diviene una risposta diffusa al disagio provocato dal peso di dover creare il senso delle cose. Un atteggiamento, insomma, tipico del Novecento. Ciò rende il protagonista del romanzo di Céline una sorta di portavoce delle istanze del suo tempo.
Quella che egli affronta è una specie di diserzione dinanzi alle zone di crisi che gli si aprono attorno. Bardamu penetra nei vuoti, nelle carenze dell’esperienza moderna, dove domina l’impossibilità di imporre significati propri, dove aleggia il pericolo dell’impersonalità. Dove, insomma, la responsabilità di concepire e farsi carico dei valori e dei propri criteri diviene per tanti motivi vana e impraticabile. Per questo il distacco, l’accettazione ironica e cinica della propria inconsistenza, assume i contorni di una via quasi salvifica. Schiacciato dall’obbligo di scelta, e dall’insufficienza del proprio arbitrio di fronte all’inestricabile contraddittorietà del mondo, allora ci si può abbandonare all’impotenza, che prende i tratti ora dell’edonismo, ora della gratuita ma turbata cura dei più indigenti, ora della strafottenza, ora della percezione di inadeguatezza, ora dell’istinto di conservazione, ora dell’insoddisfazione, ora di un senso di abbandono, ora dell’inquieta fuga dalla colpa.

 

Le tenebre della notte che avvolge Bardamu accompagnano proprio i territori di vuoto e di molteplice indeterminatezza della sua epoca. Così, ad esempio, la realtà desolata delle regioni coloniali rappresenta quello che Stephen Kern chiamerebbe uno “spazio positivo negativo” (Kern, 1995). La desolazione del luogo, quel nulla che ti circonda, non è semplice assenza, ma assume un significato rilevante. Stringe il protagonista, lo pervade e si infiltra nella sua coscienza. Ed è il costante richiamo della solitudine che il suo distacco ironico inevitabilmente comporta.
In maniera analoga, la Grande Guerra, vissuta perlopiù ai bordi o nella notte oscura ma per certi versi rassicurante, si presenta distintamente agli occhi di Bardamu come paralisi della volontà, meschina e grottesca sospensione del tempo e dell’azione, inutile massacro. Il protagonista avverte l’alito dell’orrore, la sua oscenità. E la notte qui diviene una protezione contraddittoria. Così come solo uno sguardo distaccato e avido di paradossi e cinismo può esorcizzare il silenzio della coscienza, l’assenza di parole significative che il trauma bellico genera. Non solo, ma esso è forse l’unica rivincita dell’individuo, della sua singolarità, di fronte all’anonimato della morte di massa, all’impotenza che annichilisce qualsiasi senso di autorità, di unicità del sé, gettando luce sull’angoscia del fallimento narcisistico.
Non meno spersonalizzanti possono risultare la fabbrica fordista e la metropoli, ambienti centrali della modernità che Bardamu abita e sperimenta compiutamente. Da una parte l’esperienza della subordinazione al regime del lavoro industriale che, denuncerebbe György Lukács, rischia di accantonare le “proprietà qualitative, umano-individuali del lavoratore” (Lukács, 1991, p. 114). Dall’altro il contesto della grande città, labirintica, caotica, anonima, ricca di suggestioni transitorie e spettacolari, che fa del transitorio e del fugace la propria cifra. Nei suoi “santuari dell’effimero”, i suoi passaggi plurali e contraddittori, tutto sembra fuggir via (Rella, 1981, pp. 97-101). Anche l’idea di solidità dell’Io, che – opinione diffusa nella modernità – pare smarrirsi nello spaesamento complessivo, compromettendo l’idea di governo cosciente del divenire.

 

Infine, il degrado della periferia francese, lo stato di abbandono sia sociale che umano, che invalida la vanagloria dell’idea di progresso, ormai impaludato nella miseria della condizione dell’uomo. La fiducia nel dominio razionale delle cose deve ormai fare i conti con il suo fallimento. Lo stesso oltraggio colpisce l’orgoglio del pensiero scientifico e della disciplina medica, la cui baldanza viene ampiamente sminuita dal tagliente sarcasmo dell’opera. Anche qui il legame turbolento tra onnipotenza ed impotenza emerge in tutto il suo travagliato vigore. E l’individuo, in questa realtà, pare come irretito, ridimensionato nella sua volontà e determinazione.
In effetti, nell’insieme, Céline coglie probabilmente un lamento diffuso di tipo identitario. Di fatto, proprio tra Otto e Novecento nel pensiero occidentale si diffondono a dismisura necrologi dell’Io come realtà salda e durevole (cfr. Burrow, 2002). Con buona pace dell’idea di bontà, autenticità e coerenza del carattere e della personalità. Uno schiaffo in chiave narcisistica non indifferente. Per non parlare dell’ambivalenza inquieta che emerge quando l’inconscio guadagna la ribalta dell’attenzione sociale e si erge a protagonista dell’esistenza. Garante estremo dell’individualità, dell’unicità della persona, esso rivela però un atroce contraltare: la sua ingovernabilità. Uno smacco clamoroso per l’orgoglio e la volontà di potenza, specie delle élites. Allora le strade da percorrere non sono poi tante. Una è quella di abbandonarsi allo sconforto per la difficoltà di realizzarsi come volontà, di esprimere la propria direzione. Un’altra è, all’opposto, quella di avvalersi della deresponsabilizzazione che l’inconscio mette su un piatto d’argento, per tentare di proclamarsi innocenti permanenti, di indossare gli abiti dell’infante perpetuo e privo di macchia (cfr., in tal caso, Bruckner, 2001).
Non è inverosimile pensare che Bardamu in qualche misura incorpori entrambi gli orientamenti. La sua condizione, che da un certo punto di vista fa da specchio alla miseria che lo circonda, è quella di uno smarrimento sostanziale e prolungato. Forse solo la morte, negazione della negazione, pare capace di annientare – in modo paradossale – il vuoto stesso. Per questo, solo un altro personaggio chiave del romanzo, Robinson – un doppio atipico del protagonista che ne condivide tutti gli accenti d’inquietudine – con la sua capacità di pensare la propria dipartita e di morire sembra aver avuto la possibilità di determinare la propria direzione. Quasi come se nella fine di tutto si celasse il nucleo più poderoso e vincente della scelta; come se nella mancanza di senso dell’epilogo fatale si riuscisse a stanare, una volta e per tutte, l’ipocrisia di un’esistenza dai significati impercorribili. A pensarci bene, un’ironica rivincita dell’individuo su se stesso.

 

LETTURE

× Beck U., Eigenes Leben. Ausflüge in die unbekannte Gesellschaft, in der wir leben,
1997, trad. it. Costruire la propria vita, il Mulino, Bologna 2008.

× Bruckner P., La tentation de l’innocence, 1995, trad. it. La tentazione dell’innocenza, Ipermedium libri, Napoli 2001.

× Burrow J. W., The Crisis of Reason. European Thought, 1848-1914,
2000, trad. it. La crisi della ragione. Il pensiero europeo 1848-1914, il Mulino, Bologna 2002.

× Cavicchia Scalamonti A., La morte. Quattro variazioni sul tema, Ipermedium libri, Napoli 2007.

× Kern S., The Culture of Time and Space 1880-1918, 1983, trad. it. Il tempo e lo spazio.
La percezione del mondo tra Otto e Novecento
, il Mulino, Bologna 1995.

× Lukács G., Geschichte und Klassenbewusstsein. Studien über marxistische Dialektik,
1923, trad. it. Storia e coscienza di classe, SugarCo, Milano 1991.

× Rella F., Miti e figure del moderno. Letteratura, arte e filosofia, Feltrinelli, Milano 1981.

× Richter H.-E., Der Gotteskomplex, 1979, trad. it. Il complesso di Dio, Ipermedium libri, Napoli 2001.