Pinocchio reloaded
Vite tra favola e storia

Guillermo del Toro e Mark Gustafson
Pinocchio
Cast vocale originale:

Ewan McGregor (Il Grillo),
David Bradley (Geppetto),
Gregory Mann (Pinocchio e Carlo),
Burn Gorman (Prete),
Ron Perlman (Podestà),
John Turturro (Mastro Ciliegia),

Finn Wolfhard (Lucignolo),
Cate Blanchett (Spazzatura),
Tim Blake Nelson (Conigli neri),
Christoph Waltz (Conte Volpe),
Tilda Swinton
(Spirito del bosco e Morte).

Netflix, 2022

Guillermo del Toro e Mark Gustafson
Pinocchio
Cast vocale originale:

Ewan McGregor (Il Grillo),
David Bradley (Geppetto),
Gregory Mann (Pinocchio e Carlo),
Burn Gorman (Prete),
Ron Perlman (Podestà),
John Turturro (Mastro Ciliegia),

Finn Wolfhard (Lucignolo),
Cate Blanchett (Spazzatura),
Tim Blake Nelson (Conigli neri),
Christoph Waltz (Conte Volpe),
Tilda Swinton
(Spirito del bosco e Morte).

Netflix, 2022


“Come la pigna lascia l’albero
per portare nuovo frutto
e cambiare la trama della storia”

C’era una volta…
Pinocchio – diranno subito gli spettatori.
No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta Carlo, un bambino di carne e d’ossa, e Geppetto, padre anziano e amorevole, e la loro casa, essenziale e intima, e un narratore che li racconta fuori campo, anticipando che la loro diventerà la sua storia.
C’è una torsione liberatoria che si impadronisce della pagina di Collodi e la anima in stop motion, seguendo il ritmo della geniale ispirazione di Guillermo del Toro per figurare possibilità rimaste inesplorate nelle precedenti (tanto numerose, quanto varie) trasposizioni. Non si tratta, più, infatti, di rendere plasticamente credibile il burattino, di dirne con diverso linguaggio tecnico-sperimentale la complessa ontologia. Si tratta di ridefinire l’orizzonte che lega fatti e personaggi, cose e persone, umani e altre creature.
È semplicemente stupefacente come ora sia la Storia, quella materiale e carnale, quella accaduta e già raccontata, a sciogliere la propria morale nella trama della favola divenuta famosa, donandole un’autentica tridimensionalità. Il tempo della realtà irrompe di scena in scena, fin dall’inizio, per farsi legatura ininterrotta e sofisticata in un fraseggio armonico di caduta e redenzione. È possibile sentire la musica della storia oltre la magia della favola. È fatta di accordi che suonano contemporaneamente vita e morte, paura e coraggio, conoscenza e rivelazione, incanto e delusione, dolore e conforto, orgoglio e perdono, obbedienza e libertà, norma e scandalo. Tutto fluisce nel tronco dell’albero, principio e fine delle vicende e delle inquadrature, sintesi unitaria, poderosa e iconica, del distico biblico che nel giardino edenico contrappone le due distinte piante della vita e della conoscenza. E dal flusso nasce il frutto, la pigna, che è la prima forma a emergere dal buio dopo i titoli di testa e l’ultima protagonista a uscire dall’azione prima dei titoli di coda, staccandosi dal ramo che l’aveva originariamente gemmata.

È il dono naturale di cui Carlo si innamora e per cui perde la propria vita (dopo che Adamo e Eva, per la mela, avevano perso la propria immortalità), ostinandosi a recuperarla in chiesa vicino al crocifisso intagliato, ma non ancora ultimato da Geppetto, nello stesso istante in cui una flotta di aerei militari sgancia bombe dall’alto – non si sa se per colpire o per liberarsi del carico –, mandando in frantumi il sogno d’amore di padre e figlio. A terra, in consustanziale corrispondenza, restano le rovine incendiate dello spazio sacro in cui il Padre di tutti i padri, per amore di tutti i suoi figli e prima di ogni tempo, ha voluto il sacrificio della vita terrena del proprio Figlio unigenito. Eppure, contro guerra, caos e devastazione, la pigna (la stessa pigna, la prima e prescelta) si salva e rotola fuori dall’edificio in fiamme verso Geppetto, che la prende tra le mani come segno e memoria di un incanto possibile.
Il seme è nella storia per un’infinita palingenesi, per dire speranza oltre ogni umana perdita.

Pinocchio, l’eccezione redentrice
“Quando una vita finisce, un’altra deve crescere”. Queste parole profetiche commentano la liturgia quotidiana di Geppetto e Carlo: il primo taglia alberi per rifornirsi di legno; il secondo ne osserva i frutti, scegliendo e prendendo per sé quello più bello, con tutte le brattee integre. Nella cornice domestica e familiare è dapprincipio inscritto un destino di morte e rinascita, è naturalmente giustificato l’avvento di Pinocchio. Accanto alla tomba di Carlo, Geppetto seppellisce la pigna ancora intonsa, che al passar degli anni germoglia e dà corpo a una nuova pianta, forte e rigogliosa, il cui tronco diviene dimora di Sebastian, una versione steampunk del collodiano grillo parlante, non a caso scelto da Guillermo del Toro per dare parola all’intera vicenda, per raccontarla, per custodirla. Sì, perché l’insetto umanoide è uno scrittore, un romanziere, in viaggio per il mondo alla ricerca del luogo più riparato e indisturbato in cui poter pensare e mettere su carta la propria autobiografia. L’albero venuto dal sottosuolo di Carlo, come tangibile segno metafisico, può perciò divenire, prima, il santuario di Sebastian (così, propriamente, lo definisce il pensoso e arguto autore), ai cui piedi cadono le preghiere inascoltate di Geppetto; poi, il legno offerto alla disperazione di un padre per consentirgli di sostituirsi a Dio nel riportare in vita un figlio ormai morto.

Questo è l’inizio di una genesi laica, di una resurrezione religiosa che vincolerà tra loro, oltre il pensabile, il creatore (Geppetto, falegname) e la creatura (Pinocchio). Tutti gli elementi sono già dati per annunciare uno dei più riusciti esperimenti di frankensteinizzazione, in cui la forza paradossale del momento creativo è addirittura superata dalla turbinosa intensità del legame tra demiurgo e generato (Aspesi, Griccioli, 2020).
Il tronco abbattuto è trascinato nella casa della vita antica per essere plasmato come corpo di una nuova figura. La metamorfosi voluta da Guillermo del Toro è poderosa nella misura in cui trasforma il senso stesso dell’evento come registrato dal testo originario e dalle sue successive rappresentazioni: non si è in presenza di un pezzo di legno magico, di per sé capace di sentire e parlare, poi modellato in forma di burattino, ma di una materia grezza, successivamente animata, per generosa partecipazione, dagli spiriti antichi presenti nell’atmosfera come occhi luminosi che guardano le cose umane con penetrante intelligenza e intervengono solo quando necessario. Perciò, il Pinocchio di Guillermo del Toro è sinolo perfetto di sostanza e spirito, chiamato al mondo dal desiderio attivo di Geppetto e dal dono vitale della Fata Turchina, qui reinterpretata come nuovo Leviatano, Spirito di spiriti e Occhio di occhi, angelo eterodosso o sfinge misterica, guardiana delle piccole cose, di quelle dimenticate e di quelle perdute. Le sue parole (“sorgerai con il sole e camminerai sulla terra”) e il suo tocco (una mano posata sul cuore del legno, il buco cavo in cui continua a dimorare il grillo) svegliano il bambino fatto di pino, lo battezzano (“ti chiamerai Pinocchio”) e gli attribuiscono una specifica missione (“porterai gioia e compagnia a quel pover’uomo dal cuore spezzato”). Il rito converte anche Sebastian, lo dispone a una muta altruistica, rendendolo custode non più delle proprie memorie, ma dell’integrità di Pinocchio come coscienza carnale e vigile, che guarda nell’interno e dall’interno del legno per volgere al bene la trama della nuova vita, il finale dell’intera storia. Le scene successive si avventurano nella vertigine di un coinvolgente simbolismo.

Nato da un miracolo, Pinocchio diventa scandalo quotidiano, eccezione disobbediente che resiste alla norma del giorno, forza anticonformista, curiosità interrogante. Il Pinocchio di Guillermo del Toro è ultimamente un nuovo Cristo in cammino, trasfigurazione di un crocifisso di legno che ritorna per mettere alla prova reazioni e sentimenti, orgogli e pregiudizi, fede e credenze, autenticità di sentire (spaventevole, destabilizzante) e convenzionale reiterazione di note ritualità (rassicuranti, ordinanti). Tra i momenti più drammatici del film precipita la domanda rivolta da Pinocchio a Geppetto: “Babbo c’è una cosa che non ho capito. Piace proprio a tutti Lui” (riferendosi a quella stessa croce sui cui il padre falegname ha inchiodato il proprio Cristo, scolpito e non finito nel tempo di Carlo, ultimato grazie all’esuberante entusiasmo di Pinocchio) […] “Cantavano tutti per Lui ed è fatto di legno. Perché tutti amano lui e non me?”. La risposta è la più alta espressione (che vince su ogni comandamento) di perdono, riconoscimento e amore: “A volte le persone hanno paura di ciò che non conoscono, ma impareranno a conoscerti, ad amarti”.  Pinocchio è trasformazione (del sé, dell’altro), sovversiva rivoluzione. Per questo non può rimanere sulla superficie terrestre, ma periodicamente deve inabissarsi e morire – come la pigna da cui è nato – per tornare a far rivivere il mondo. Nel regno dell’oltretomba trova un manipolo di conigli che giocano a carte d’azzardo vicino al legno delle bare (come le vecchie guardie giocavano a dadi la tunica di Cristo sotto la croce) e una sfinge imponente, sorella della Fata Turchina, sua copia sotto-terrena chiamata ad amministrare la durata dei tempi di ciascuno e, specialmente, di Pinocchio, così da riparare, nel capogiro di un eterno ritorno, il debito contratto dal legno inanimato con l’eccessivo sentimentalismo della Fata.

“Lei ti ha dato la vita quando non avresti dovuto averne una. Di conseguenza non puoi realmente morire […] Tu morirai molte e molte volte, ma non si tratta di morte reale, sono periodi di attesa. Ci sono delle regole nonostante mia sorella le abbia trascurate”.

Il giro di clessidra, che governa i tempi di discese e risalite, viene spezzato ancora una volta dalla forza coraggiosa di Pinocchio per adempiere al senso della sua prima venuta: salvare Geppetto, nel cuore, per la vita. Un atto redentivo ripagato, alla fine, dalla coscienza pronta, attenta, caritatevole che da sempre dimora nel tronco e che, lì custodita (prima nella consistenza di grillo, poi di cenere), accompagna Pinocchio fino all’ultimo giorno della sua ultima vita terrena. Nulla ha potuto, infatti, l’incendio appiccato da Conte Volpe (un ibrido ingegnoso che unisce il ruolo di Mangiafuoco alla fisiognomica della volpe) alla croce su cui ha imprigionato Pinocchio, colpevole d’aver sostituto la propria dissacrante sceneggiatura al copione propagandistico preparato dall’avido burattinaio per il proprio spettacolo. Il caldo diabolico che tutto scioglie, non solo le cose, ma anche l’intangibile (la fede, l’ira, ogni collaudato modello di buon senso, l’esistenza della gente; cfr. McDaniel, 2017) è vinto da un nuovo battesimo. Su una croce divenuta zattera, Pinocchio, piccolo Prometeo liberato, resiste e vince.

Figure di padre, forme di paternalismo
L’originalità della visione registica si deve anche a una rappresentazione congiunta di diverse relazioni padre-figlio che definiscono sfere individuali e collettive, fino a conformare l’identità politica di una intera comunità. In un certo senso, è come accedere a un surplus di plutarchiane vite parallele (Geppetto e Podestà; Podestà e sacerdote; Duce e Conte Volpe). Da un lato c’è Geppetto, che sulle prime piange la perfezione di Carlo di fronte all’incompiuta sregolatezza di Pinocchio, avvertendola come un ‘peso’ difficilmente gestibile rispetto a un modello di rispettosa docilità non più riproducibile. Dall’altro c’è il Podestà, padre di Lucignolo, che pretende di addestrarlo per farne un soldato fiero e temerario, come la morale fascista richiede. L’ambientazione delle vicende è, infatti, l’Italia del ventennio, guidata dal Duce, padre della patria, e dalle sue milizie, uno scenario uniforme di muto conformismo e compiacente sottomissione.
Tutti i padri di cui si fa questione non sanno riconoscere e accogliere le singolari individualità, fatte di pregi e difetti, dei propri figli, ma ostinatamente li dirigono verso il soddisfacimento di interessi egoistici. Tanto da agire in rivendicazione per affermare la proprietà esclusiva su una sostanza ancora malleabile da manipolare per ottenere una qualche forma di utilità, come la contrapposizione tra Geppetto e Conte Volpe esibisce: di chi è Pinocchio? Di Geppetto perché lo ha creato o di Conte Volpe che lo ha scoperto come figurante artista, agognata macchina da soldi? In questo quadro, lo spettacolo dei burattini, che tanta parte ha avuto nel catalizzare l’immaginario di intere generazioni, acquista un significato tutto nuovo e la disobbedienza diventa un valore di contro-resistenza: si devono far cadere i fili per essere ciò che si è, umani, non fantocci o automi. Ancora una volta spetta a Pinocchio inverare una profezia di umanità (che lo riguarda come sineddoche carnale di un popolo intero) contro una propaganda di super-umanità (che il regime diffonde attraverso i suoi slogan e che ciascun padre, pervicacemente ancorato a un paradigma di unicità, cerca di riprodurre miopicamente).

Per inversione normativa, l’unico a essere ontologicamente burattino è trasformato in un guerrigliero rivoluzionario capace di far saltare in aria un teatro reale di maschere addomesticate. Pinocchio è la miccia di bene pronta a farsi esplodere per far scoppiare il piano biopolitico che informa l’educazione delle giovani leve. Un disegno mangia-vite supporta il “Progetto militare elitario per la speciale gioventù patriottica” pensato per l’addestramento dei ragazzi entro spartane caserme sui cui muri campeggiano i comandamenti ‘obbedire’ e ‘combattere’ (verso la radiosa affermazione di quella ideologia trinitaria – Comunità, Identità, Stabilità – immortalata dalla pagina di Aldous Huxley; cfr. Huxley, 2021). La Patria è il reale e diabolico Mangiafuoco che vive alimentandosi di carne e, perciò, si costituisce in evocativa antitesi rispetto al corpo leviatanico della Fata Turchina, che acquista leggerezza grazie alle ali composte spontaneamente dall’unione dei tanti occhi spirituali per rendere possibile il collegamento tra terra e cielo, tra fisica e metafisica, tra vita e oltrevita, tra sguardo e visione. Proprio il tocco taumaturgico iniziale della Fata consente a Pinocchio di sovvertire l’Antico universo per il Nuovo, in cui c’è armonia perché c’è debolezza e il Lucignolo di turno non deve vergognarsi di essere fragile e debole come la fiammella di una candela, ma può trovare serenità nella propria interiore verità; in cui l’intenzione può trasfigurare tutto, anche ciò che apparentemente non è positivo (convertendo il segno di una bugia – un naso allungato – in strumento di salvezza); in cui c’è significatività nella brevità (“L’unica cosa che rende la vita umana preziosa e significativa è la sua brevità”, dice la Fata a Pinocchio e a tutti noi); in cui la vita è coreografia.

“Quel che accade accade
e infine ce ne andiamo”

nell’istante in cui la pigna torna a terra per fare nuovo albero.

Letture
  • Lucia Aspesi, Fiammetta Griccioli, Again, I hear an empty space, in Trisha Baga, The Eye, The Eye & The Ear, Skira, Milano, 2020.
  • Tiffany McDaniel, L’estate che sciolse ogni cosa, Blu Atlantide, Roma, 2020.
  • Aldous Huxley, Il mondo nuovo – Ritorno al mondo nuovo, Mondadori, Milano, 2021.