Una strada lunga e tortuosa,
da Orson Welles a Netflix

Massimiliano Studer
Orson Welles e la New Hollywood
Il caso di The Other Side of the Wind
Prefazione di Esteve Riambau

Mimesis, Milano-Udine, 2021
pp. 198, € 18,00

Massimiliano Studer
Orson Welles e la New Hollywood
Il caso di The Other Side of the Wind
Prefazione di Esteve Riambau

Mimesis, Milano-Udine, 2021
pp. 198, € 18,00


Se si volesse indicare un solo nome capace di incarnare l’intera potenza mitopoietica del cinema, questo sarebbe inevitabilmente quello di Orson Welles. Regista geniale e attore straordinario, visse in un mondo che lo portò alle stelle così come lo gettò nel fango con uguale facilità, a seconda delle necessità. Figura completamente conscia di ciò che rappresentava, visse l’intera esistenza nel poco spazio lasciato libero tra la sua considerevole identità e la sua altrettanto imprescindibile immagine pubblica.
Massimiliano Studer è tra i maggiori conoscitori del suo cinema, e in Orson Welles e la New Hollywood riassume la sua tesi di dottorato, dedicata all’ultimo incompiuto film di Welles (The Other Side of the Wind) e alle problematiche che nel corso del tempo sono emerse intorno al restauro e alla edizione della versione prodotta da Netflix (cfr. Suffern, 2018). Sebbene i testi di Studer siano diretti principalmente a un lettore cinefilo, se non accademico, la lettura è in ogni caso accessibile a chiunque, soprattutto perché il tema possiede un suo lato appassionante e misterioso, legato alle vicende proprie dell’opera, che lo rende coinvolgente anche per il non specialista. Studer non è nuovo a questo tema, poiché si tratta del suo secondo round con Orson Welles, avendo recentemente già pubblicato un volume che era anch’esso una sorta di indagine intorno a un aspetto misterioso del genio scomparso.

In quel caso si trattava della scoperta di una copia di Too Much Johnson, un film muto del 1938, una pellicola che si credeva scomparsa. Il film fu recuperato, insieme ad altro materiale wellesiano, in modo rocambolesco in un magazzino di Pordenone (cfr. Giorgini, 2014) e venne poi proiettato nel 2013 durante Le Giornate del Cinema Muto. Una intricata vicenda, per usare il linguaggio di Studer (cfr. Studer, 2018).
Il volume, tra l’altro, contiene anche un capitolo dedicato al carteggio tra Welles e Sergej Ėjzenštejn, lungamente ricercato da studiosi e storici del cinema, della cui esistenza si hanno molte testimonianze dirette. Tra queste quella diretta di Welles nella ben nota intervista del 1958 rilasciata a André Bazin per i Cahiers du Cinéma (cfr. Bazin, 2005). In questo difficile contesto Studer ricostruisce quanto più possibile, collegando elementi provenienti da fonti diverse, nella speranza di poter un giorno accedere all’intero epistolario. Il suo metodo è sempre vicino allo spirito del restauratore, che aggiunge tessere a un mosaico e si muove come in un labirinto, ricostruendo – come un investigatore – i passaggi del racconto, e questo spirito è tale in entrambi i volumi su Welles.

Le fonti della ricerca
Uno degli aspetti principali da evidenziare nella ricerca di Studer è relativo alle fonti utilizzate. Il suo progetto di ricerca lo ha portato a consultare un’ampia documentazione inedita depositata in un fondo Welles presso il Museo Nazionale del Cinema di Torino. Questi documenti sono quelli che gli permettono di fondare filologicamente l’analisi che dedica al regista e al montaggio della versione Netflix. Come scrive Esteve Riambau nella sua prefazione al volume:

“[…] l’analisi filologica di Studer contenuta in questo libro mostra le divergenze del risultato finale deciso dai produttori e dal montatore con le diverse versioni della sceneggiatura consultate o addirittura con i quaranta minuti originariamente prodotti dal regista. […] Welles era davvero soddisfatto del materiale che aveva girato? Studer non entra in questo dibattito ma integra questa versione nella sua minuziosa ricostruzione del film per gettare nuova luce sull’inesauribile lavoro di Welles”
(Riambau, in Studer, 2021).

Cercare soluzioni a un problema di tipo storiografico, analizzare fonti e documenti, accedere ad archivi, sono questioni profondamente wellesiane, legate al valore del frammento e del dettaglio, strumenti fondamentali per un regista come Welles che realizzava la sua arte alla moviola. In questo senso lavorava sempre alla ricostruzione di un mosaico, dove i singoli fotogrammi sono come le tessere dell’artista, che a opera compiuta andavano a comporre un’immagine più ampia, dove il tutto è essenzialmente maggiore della somma delle parti. Studer, facendo suoi i principi che animano la regia di Welles, si preoccupa di anteporre ai dati le questioni metodologiche, e, sin dalle prime battute dichiara la sua filiazione, citando due saggi storici fondamentali: Apologia della storia di Marc Bloch (1949) e Spie. Radici di un paradigma giudiziario (1979), di Carlo Ginzburg, due testi che, oltre a evidenziare il desiderio di un fondamento esterno alla critica cinematografica in senso stretto, indicano anche chiaramente una scelta politica, affine a quella wellesiana d’altronde, e soprattutto, come si è detto, delimitano un percorso metodologico, sia nell’affrontare l’oggetto della ricerca sia nella forma dell’analisi.

“Ogni frammento, ogni traccia, ogni pista è utile per capire il soggetto su cui si sta indagando, e tutto di lui è importante per afferrarne e capirne l’essenza, ma anche la sua opera. In molti casi però, l’aspetto eterogeneo delle fonti o degli indizi, come li definirebbe Ginzburg, invece che rappresentare un problema possono diventare un potente alleato. […] tutti gli eventi culturali di un dato momento storico sono legati indissolubilmente tra loro. Il compito dello studioso, dunque, è anche quello di saper interpretare le fonti e creare un legame logico tra le tracce appena recuperate”
(Studer, 2021).

The Other Side of the Wind
L’ultimo, incompiuto, film di Orson Welles è anche quello a cui probabilmente ha dedicato più tempo, risorse e dedizione nel corso della sua vita. La produzione prese l’avvio nell’agosto del 1970, ma la ricostruzione di Studer mostra come l’idea fosse già germinata nella mente di Welles nei primi anni Sessanta, dopo aver appreso del suicidio di Ernst Hemingway, che il regista conosceva sin dagli anni Trenta, e che aveva deciso di omaggiare con un film a lui dedicato.

Lo scrittore americano, nella mente di Wells, era la figura di riferimento intorno a cui costruire il personaggio di Jake Hannaford, un anziano regista in declino che sta concludendo il suo ultimo film. La prima parte del volume di Studer è incentrata su questi primi anni dedicati da Welles alla lavorazione di questo film, approssimativamente fino al 1966. Il regista si trovava allora in Spagna, dove girava tra l’altro un documentario su Don Quixote per la RAI italiana. Il legame tra Welles e la terra iberica è fondamentale in questa indagine, proprio per il rapporto che Hemingway, notoriamente amante della corrida, intratteneva con essa. Hannaford infatti mantiene, anche nel montaggio più tardo, fino alla versione Netflix, l’amore e la passione per la tauromachia.
Il film, Welles ne accenna agli amici e colleghi, avrebbe dovuto intitolarsi The Sacred Monsters, e già si profilava come un esempio di meta cinema, di un film sul cinema stesso, visto che il personaggio era un regista, mentre la trama avrebbe dovuto incentrarsi sulla corrida. Per Studer questa prima parte, oltre a essere centrale per la comprensione della genesi dell’opera ha anche il pregio di lasciar emergere le difficoltà intrinseche, e di anticipare quanto siano necessarie le premesse per comprendere la produzione vera e propria.

“[…] le produzioni dei film di Orson Welles sono sempre un enigma molto complicato da risolvere, e spesso ci si trova nella difficile condizione di dover ammettere di aver perso la strada durante il percorso dell’indagine, mentre, ad esempio, si era intenti a comprendere anche solo la banale, ma incredibilmente sfuggente, sequenza degli eventi. […] L’intrico, spesso confuso, di notizie e di avvenimenti riguardanti la produzione dei progetti filmici del cineasta statunitense […], aiuterà a far comprendere la complessità del lavoro di ricerca che è stato realizzato per lo studio della lunga ed estenuante produzione di The Other Side of the Wind […]”
(ibidem).

La New Hollywood
Gli anni che seguirono, fino al 1976, furono centrali per le riprese e ruotano sostanzialmente intorno alle grandi trasformazioni che investirono le major hollywoodiane e che portarono alla nascita della cosiddetta New Hollywood. Welles fece tutto quanto in suo potere per trovare finanziatori nel mondo che stava sorgendo. Studer racconta dettagliatamente gli aspetti storici e politici che permisero una trasformazione epocale per la cinematografia, che in pochi anni riuscì a superare la gran parte dei vincoli imposti dalla censura e dai residui del Maccartismo, producendo film in cui apparivano registi e attori come Francis Ford Coppola, Bob Rafaelson, Jack Nicholson, Peter Fonda, Dennis Hopper, Roman Polansky, Arthur Penn. Nomi che, fino a pochi anni prima, non avrebbero mai ottenuto le autorizzazioni necessarie per uscire nelle sale.

Nel 1970 a seguito dell’incontro con Bert Schneider a Roma, prese corpo l’idea di una produzione. Si trattava del produttore di Easy Rider, reduce da un successo mondiale, e per Welles poteva essere la strada giusta, ma non funzionò, per quanto non siano chiare le motivazioni sottostanti la rinuncia. Certamente però l’ambiente che si era formato negli USA convinse Welles a riprendere in mano la sceneggiatura e iniziare le riprese in America, lasciando l’Italia dove aveva vissuto gli ultimi anni, dividendosi tra la Spagna e la Croazia (allora Jugoslavia), terra d’origine della sua compagna Oja Kodar. L’attrice, che allora fu interprete del film e che gli restò vicina fino alla morte, divenne in seguito uno degli amministratori degli immensi archivi lasciati dal regista, e che poi donò alla University of Michigan. Una seconda figura centrale di questo periodo, amico fraterno di Welles e anche lui interprete del film, fu quella del regista e attore Peter Bogdanovich, scomparso lo scorso 6 gennaio. Come lui stesso racconta,

“La prima volta che misi piede nella casa che aveva preso in affitto a Carefree, in Arizona, per interpretare il ruolo di un giovane regista di successo in The Other Side of the Wind, una pellicola che per metà si era autofinaziato e che non era ancora stata prodotta – e all’epoca io ero un giovane regista di successo -, io e Orson ci accomodammo in soggiorno e parlammo per un’ora. […] Che periodo impagabile: essere diretti da Welles era come respirare tutto il giorno boccate di aria pura. Era così consapevole di quello che stava facendo da non avere bisogno di dimostrare nulla. Non l’ho mai visto arrabbiarsi o spazientirsi, non l’ho mai sentito alzare la voce […]. Non c’era di ciò che si udiva o vedeva in scena che non fosse tale e quale a come Orson lo voleva […]” (Bogdanovich, 2016).

Negli anni seguenti Welles continuò a intervallare alle riprese del film, interruzioni per poter lavorare come narratore e attore, attività destinate a recuperare le finanze necessarie. John Huston fu scritturato per il ruolo di Hannaford, l’interprete principale, ma le difficoltà continuarono, e quando nel 1985, il 10 ottobre, Orson Welles morì per un collasso cardio polmonare, il film era incluso in una lista di ben dodici film ancora incompiuti.

La versione prodotta da Netflix
La terza parte del saggio è dedicata agli infiniti problemi collegati con il montaggio del film, a partire dai tentativi compiuti da Welles stesso a partire dal 1976 per finire, quarant’anni dopo, con la versione prodotta da Netflix. Se il lavoro di Studer è paragonabile a una indagine, siamo qui nel mondo del legal thriller, e difatti racconta accuratamente le questioni legate alla gestione post mortem del lascito del regista.

“Prima di morire il regista aveva deciso di dividere equamente il suo patrimonio tra due mogli, tre figlie e la sua compagna Oja Kodar. A Paola Mori lasciò la sua villa di Las Vegas e la maggior parte del suo patrimonio economico. All’attrice e artista croata, invece, concesse la villa di Los Angeles. A ciascuna delle tre figlie (Christopher, Rebecca e Beatrice) invece lasciò 10.000 dollari. Welles nel testamento indico espressamente che avrebbe diseredato chiunque si fosse opposto alle sue volontà”
(Studer, 2021).

Purtroppo, le buone intenzioni di Welles rimasero sulla carta.

“La disputa legale tra gli eredi del regista e l’azione legale intentata da Welles […] per il possesso dei negativi dei film saranno alla base dei fallimenti di mediazione tentati da diverse organizzazioni e saranno la causa principale del ritardo pluridecennale del completamento di The Other Side of the Wind.” (ibidem).

Si giunge così alla versione Netflix, permessa sostanzialmente da un accordo tra tutte le parti in causa. Alla mostra del cinema di Venezia del 2018, il direttore Alberto Barbera annunciò la proiezione del film, accompagnata da un documentario diretto da Morgan Neville intitolato They’ll Love Me When I’m Dead, di fatto un making of della produzione Netflix. Non è questa la sede per entrare nel merito dell’analisi filologica relativa a questa edizione, e per questa si rinvia alla parte conclusiva del lavoro di Studer. Certamente, a questo punto, il lettore appassionato di noir avrà apprezzato una lettura costruita come una indagine appassionante, tra l’altro fondata su una solida base metodologica, sia da un punto di vista strettamente storico sia su quello narrativo.

Emerge, con altrettanta certezza, la grandezza della figura di Orson Welles, intellettuale rinascimentale, uomo nobile d’animo, modesto e incapace di ipocrisia, regista impareggiabile e attore superbo, amante di ogni aspetto della grande letteratura, da Omero a Miguel Cervantes, da William Shakespeare a Franz Kafka, sperimentatore di un cinema estremamente tecnico ma contemporaneamente denso di valori e significato. The Other Side of the Wind, al di là della sua storia travagliata, e anche della effettiva rispondenza del montaggio che possiamo visionare su Netflix, è un esempio di metacinema fondato sulla ricorsività, sul ripiegamento del film nello spazio e nel tempo, dove il soggetto si mostra come immerso in un labirinto e risultato di un mosaico, dimostrando con ciò una modernità assoluta, in cui Philip Dick e il Wim Wenders di Nick’s Movie si sarebbero certamente riconosciuti.

Letture
  • André Bazin, Orson Welles, Temi Editrice, Trento, 2005.
  • Peter Bogdanovich, Il cinema secondo Orson Welles, Il saggiatore, Milano, 2016.
  • Massimiliano Studer, Alle origini di Quarto Potere. Too much Johnson: il film perduto di Orson Welles, Mimesis, Milano-Udine, 2018.
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