Migrando con lo smartphone
per non smarrire l’identità

Il possesso di uno smartphone da parte di un migrante (e di altri supporti tecnologici) riveste particolare importanza consentendogli di ri-definirsi, oltrepassando le barriere geografiche e culturali.

Il possesso di uno smartphone da parte di un migrante (e di altri supporti tecnologici) riveste particolare importanza consentendogli di ri-definirsi, oltrepassando le barriere geografiche e culturali.


L’evoluzione del web ha creato uno spazio sociale privo di confini che agevola la comunicazione tra le comunità di immigrati geograficamente disperse in ogni parte del globo. Per gli immigrati e i richiedenti asilo che provano a entrare in Europa, per esempio, sono importanti non solo le tradizionali infrastrutture (ferrovie, porti…), ma anche quelle elettroniche-digitali come gli smartphone, le app (programmi di traduzione simultanea, piattaforme di messaggistica), i social network. Il possesso di uno smartphone da parte di un migrante non può essere considerato un gadget di lusso come continuamente viene narrato in maniera stereotipata nel discorso pubblico secondo logiche mediali di intrattenimento, ma rete internet e cellulare sottolineano la necessità di ogni individuo di essere connesso senza limiti spazio-temporali e di avere accesso a tutti i contenuti mediali offerti. Che ruolo hanno dunque i media nella mobilità umana e nell’immaginario dei soggetti migranti? Come cambiano e che valore assumono gli spazi di connessione attraversati fisicamente e virtualmente?

Il murale dello street artist Basik intitolato S.Antonio da Padova che predica ai suoi seguaci realizzato a a Santa Croce di Magliano in provincia di Campobasso nel 2018. Photo credit: Pasquale Marin.

In un nuovo ambiente culturale e comunicativo fatto di scambi, di modelli frammentati e alternativi, stili interattivi inediti, che debbono la loro originalità ad un “nuovo ordine” mediatico-culturale e socio-economico (cfr. Appadurai, 2005), è possibile individuare due spinte opposte che configgono costantemente: la tendenza al pensiero unico, che si traduce in politiche tipicamente assimilazioniste nei confronti di altre culture (global) e la tendenza alla particolarizzazione (local) e alla diversificazione delle reazioni agli stimoli dell’ambiente che vanno ad accentuare le differenze culturali e identitarie, alimentando lo scontro tra centro e periferia, dove il primo cerca di assorbire e annullare le distanze multiculturali e il secondo si difende rafforzando la regionalizzazione dei contenuti culturali. In questo quadro si configura il “nuovo migrante”, un soggetto de-territorializzato che va a costruirsi identità etniche non autentiche, ma in grado ora di costruire progetti di vita multiformi e contingenti, adatti alle interazioni che caratterizzano la contemporaneità, utili dunque per abitare il mondo attuale e adattarsi a esso.
I nuovi immigrati creano e riproducono relazioni sociali multiformi, connettendo società d’origine e d’insediamento in una sorta di “terzo spazio” (Bhabha, 1990) che offre loro non solo l’occasione di superare le barriere geografiche, politiche e culturali, ma di sviluppare relazioni multiple (familiari, economiche, culturali) in uno spazio che incorpora la differenza come costitutiva dell’identità (cfr. Hall, 1992). Si attiva cosi una mediazione tra due mondi gestita dal migrante stesso che da un lato si sente a casa là dove c’è la sua famiglia, dall’altro però ricrea continuamente una serie di riferimenti all’interno del paese ospitante attraverso oggetti, pratiche e tecnologie della memoria.

La coscienza della diaspora implica, da parte dell’attore sociale, il riconoscimento di appartenere anche a un luogo di origine diverso da quello di residenza, la sopravvivenza alla diaspora è condizionata dalla sua capacità di conquistare due tipi di autonomia: saper mantenere la sua superficialità nei confronti della società ospite e prendere le distanze dalla società di origine per poter scegliere le proprie strategie di integrazione, nonché i propri criteri di identificazione e di socializzazione (cfr. Saint Blancat, 1995).
Il processo del migrare, dipendente dalle interconnessioni internazionali e dai contenuti simbolici mediali, vede ora un nuovo protagonista, un nuovo soggetto sociale, nomade, cosmopolita, in grado di ri-definirsi, oltrepassando le barriere geografiche e culturali, supportato dalla potenza dei media elettronici (e digitali), in grado di immaginare il futuro e immaginarsi all’interno degli ambienti offline e online.

I media oltreconfine
La portata dei media si estende ben oltre i confini nazionali di uno Stato: assistiamo cosi a una massiccia produzione di contenuti mediali transnazionali, distribuiti in maniera globale dall’industria dei media, destinati a differenti tipologie di pubblici, che agiscono su base mondiale (CNN International o BBC World) o regionale (per esempio Euronews). È proprio grazie alla tecnologia digitale in particolare che le comunità transnazionali sono riuscite sia a mantenere dei legami interni alla comunità, sia crearne dei nuovi all’interno della nazione ospitante, tendendo unite sfere familiari-domestiche con quelle nazionali ed internazionali; in questo senso i nuovi media sono “distributori” potenti di contenuti transnazionali e ci offrono “la possibilità magica di essere in due luoghi allo stesso tempo” e “conquistare” la distanza (Scannell, 1996). La trasmissione televisiva, per esempio, consente ad ascoltatori e spettatori di essere tanto “vicini” all’evento mediatico da un punto di vista esperienziale, quanto lo sono a ciò che accade nei loro ambienti fisici. Ciò che muta è “la geografia dell’esperienza della prossimità”.

“I media portano una pluralità di luoghi nel raggio d’azione dei sensi […] stiamo consentendo loro (ai media) di infrangere il limite per cui una persona, in un dato momento, può essere soltanto in un luogo”
(Adams, 2009).

Scannell precisa che ci sono naturalmente delle differenze tra l’essere fisicamente presenti a un evento e l’essere coinvolti o catturati come spettatori televisivi, ma allo stesso tempo osserva che “gli eventi pubblici ora accadono, simultaneamente, in due luoghi diversi: quello dell’evento stesso e quello in cui esso viene guardato e ascoltato. La trasmissione effettua la mediazione tra queste due localizzazioni. Gli eventi pubblici, in questo modo, assumono un grado di complessità fenomenologica che prima non possedevano” (Scannell, 1996): il risultato è una connessione emozionale e un raddoppiamento del luogo.

Audience e contenuti mediali ricoprono un ruolo fondamentale anche nel promuovere a livello simbolico, tenendo legate famiglie, culture e tradizioni, l’unità nazionale; la dimensione locale e quella globale si configurano come nuovi luoghi di aggregazione e ridefinizione delle appartenenze, aventi i caratteri di sfere pubbliche transnazionali e diasporiche (cfr. Riva, 2012). La diaspora un tempo era tipica di un solo popolo, oggi è un fenomeno plurale; le popolazioni sono allo stesso tempo locali e globali, quindi non più delle comunità, quanto piuttosto delle “reti diasporiche” e questo permette alle culture e alle minoranze di sopravvivere, anche nello spazio mediatico. Rispetto alla prima generazione di immigrati infatti, le successive si trovano ad affrontare un nuovo problema all’uso dei diversi media e al loro ruolo di ri-formatori delle minoranze culturali all’interno delle società che le ospitano: il risultato è:

“un continuo movimento di dentro e fuori di identità e interessi che vengono mobilitati ed espressi attraverso uno spazio sempre più elettronico, ma che dipendono ancora dai movimenti reali delle popolazioni nello spazio e nel tempo, e da questi movimenti sono influenzati”
(Silverstone, 2002).

Così, nonostante la contemporaneità sembra oggi configurarsi tra nazionalismi, violenza e disuguaglianze, con i nuovi media è possibile iniziare a discutere di concetti, dal sapore forse ancora utopico, ma piuttosto interessante dal punto di vista sociologico, come per esempio “potere dell’immaginazione” e “diritto alla speranza” (Panosetti, 2018). Due forze, secondo l’antropologo Arijun Appadurai, che muovono i viaggi disperati dei migranti, ma anche la loro legittima aspirazione a cambiare in meglio la propria vita e le nuove tecnologie, potrebbero definirsi come ambienti in grado di accogliere e coltivare ogni possibile visione del futuro come fatto culturale, qualcosa cioè che può essere pensato, progettato e costruito.

I mutamenti socio-culturali e comunicativi precedentemente descritti, in particolare l’avvento dei media elettronici e poi digitali, sembrerebbero aver favorito l’emergere di quella che Joshua Meyrowitz (cfr. 1993) definisce una “cultura senza luogo”, in riferimento sia ai ruoli sociali che le persone interpretano e alle questioni correlate all’identità sociale e della gerarchia, sia a quelle situazioni di interazione che sono caratterizzate da una presenza fisica non mediata.

Immaginare l’abitare
L’importanza del luogo ha a che vedere con i grandi cambiamenti tecnologici che possono perfino rinforzare alcuni aspetti della relazione con l’ambiente fisico, gli stessi ambienti e scenari mediatici potrebbero preferibilmente essere pensati come “spazi sociali continui”, spazi “vissuti o abitati” (Miller, Slater, 2000) in quanto parte della vita quotidiana o a “luoghi di un certo tipo”, dove esiste e si rafforza l’idea di cultura, dove c’è vita, scambio, perché il luogo ha a che vedere con soprattutto “l’abitare” (Moores, 2017).
Il geografo Yi-Fu Tuan afferma chiaramente che “il luogo […] è qualcosa di più della localizzazione […] della posizione di una persona all’interno della società” (Tuan 1996) e si costituisce quando una localizzazione viene vissuta abitualmente, quando si forma cioè un “ambito dell’abitudine” o “un ambito della cura […] le persone sono legate, da un punto di vista emozionale, al proprio ambiente” (ibidem).
Il luogo è una localizzazione familiare concreta, significativa che riempiamo di valore, un processo di “apprendimento” che ha a che fare con l’occupazione apparentemente irrilevanti dell’andare in giro con l’orientarsi negli ambienti della quotidianità, con il “trovare la strada”:

“Siamo in una zona della città che non conosciamo: davanti a noi si aprono spazi sconosciuti. Col tempo, ci appropriamo di alcuni punti di riferimento e dei percorsi che li uniscono, finché quella che era una zona sconosciuta della città […] diventa un luogo familiare. Lo spazio astrattivo, privo di un significato altro dall’estraneità, diventa un luogo carico di significato […] Ci sappiamo muovere […] ci orientiamo”
(Tuan, 1977).

Si crea così “l’esperienza dell’ambiente” che via via porterà a un sentimento di attaccamento, in senso affettivo, al luogo attribuendo a esso “un senso”, attraverso attività di routine (o performance abituali) come il sintonizzarsi sui programmi radio-televisivi del palinsesto, la lettura di romanzi, lo scattare delle fotografie, l’ascolto della musica: tutte pratiche che implicano l’uso di tecnologie mediatiche all’interno di ambienti ormai familiari. In questo modo anche il medium si fa “luogo”: un ambiente carico di significato ed emozione, uno spazio vissuto, abitato, dove possiamo sempre ritornare attraverso l’uso ripetuto dello stesso mezzo di comunicazione.

La ripetizione e il ritorno, per Tuan, ci portano sia a sviluppare un legame duraturo con quella fotografia, con quel film o quella musica e allo stesso a coltivare l’abitudine a “dimorare immaginativamente” entro quelle determinate immagini e quei suoni che ripetutamente visitiamo (cfr. Tuan, 2004). Una volta che si costituiscono un ambito dell’abitudine o un ambito della cura, lo spazio del quotidiano comincia a essere percepito come familiare, cosi gli stessi ambienti mediatici.
È utile a questo punto far riferimento all’analisi sociologica proposta da John Urry, che individua tipologie di “mobilità interdipendenti” che producono vita sociale e organizzata a distanza:

spostamenti fisici: le persone si spostano coinvolgendo i loro corpi per questioni legate alla migrazione, alla fuga o al proprio lavoro;
spostamento fisico degli oggetti: riguardano le cose in movimento (souvenir, alimenti o dispositivi mobili) che il turista-migrante porta con sé, e definiscono l’esperienza e favoriscono il ricordo;
viaggio immaginativo: è consentito dagli usi dei media di comunicazione che agiscono nei sistemi sensoriali umani;
viaggio virtuale: una mobilità che avviene attraverso computer in rete e che ha creato nel tempo una prossimità virtuale e immaginativa;
il viaggio della comunicazione mobile: a tal proposito Urry propone due osservazioni. La prima riguarda “le culture degli incontri fluidi”, la possibilità di comunicare a distanza tramite telefono cellulare, la seconda “la conservazione e il recupero degli elementi affettivi” navigando all’interno di mondi mobili (cfr. Urry, 2007).

Attraverso le tecnologie digitali possiamo creare e memorizzare nuovi contenuti che ci permettono di ampliare le nostre esperienze o rivivere quelle vissute, depositare umori e stati d’animo. I migranti si muovono all’interno di uno spazio pubblico e interconnesso che viene ri-definito proprio dalle nuove tecnologie che rappresentano la loro condizione economica-sociale e attribuiscono significato alla loro mobilità, creano le condizioni inedite per forme di sperimentazione identitaria. Il processo tecnologico ci aiuta ad attribuire senso al luogo e noi stessi e può (ri)creare culture, mobilità (fisica – virtuale – immaginativa) e comunicazioni di massa in grado di ostacolare anzi favorirebbero la fine dei non-luoghi, trasformando quegli spazi anonimi in luoghi significativi e di attrazione nella loro dimensione quotidiana online-offline.

Letture
  • Paul C. Adams, Geographies of Media and Communication, Wiley-Blackwell, Malden, USA, 2009.
  • Arijun Appadurai, Sicuri da morire: la violenza nell’epoca della globalizzazione, Meltemi, Roma, 2005.
  • Homi K. Bahbha, Nation and Narration, Routledge, Londra, UK, 1990.
  • Stuart Hall, New Ethnicities, in Donald J., Rattansi J., Tattansi A., Race, Culture and Difference, Sage, Londra, UK, 1992.
  • Daniel Miller, Don Slater, The Internet An Ethnographic Approach, Berg, Oxford, UK, 2000.
  • Joshua Meyrowitz, Oltre il senso del luogo, Baskerville, Bologna, 1993.
  • Daniel Miller, Don Slater, The Internet: An Ethnographic Approch, Berg Publishing, Oxford, UK, 2000.
  • Shaun Moores, Media, luoghi e mobilità, Franco Angeli, Milano, 2017.
  • Daniela Panossetti, Arjun Appadurai. Diritto all’immaginazione, Doppiozero, 13 gennaio 2018.
  • Claudio Riva, Spazi di comunicazione e identità immigrata, Franco Angeli, Milano, 2012.
  • Chantal Saint-Blancat, L’islam della diaspora, Ed. Lavoro, Roma, 1995.
  • Paddy Scannel, Radio, Television and Modern Life: A Phenomenological Approach, Blackwell, Oxford, UK, 1996.
  • Preben Sepstrupt, Research into International Tv flows, in European Journal of Communication 4,4, 1989.
  • Roger Silverstone, Perché studiare i media?, il Mulino, Bologna, 2002.
  • Yi-FuTuan, Space and Place: The Perspective of Experience, University of Minnesota Press, Minneapolis, USA, 1977.
  • Yi-Fu Tuan, Space and Place: Humanistic Perspective of Experience, in Agnew J. Livingstone D.N., Rogers A. (eds.), Human Geography: An Essential Anthology, Blackwell, Malden (MA), USA, 1996.
  • Yi-Fu Tuan, Place, Art, and Self, University of Virginia Press, Santa Fe (NM), USA, 2004.
  • John Urry, Mobilities, Polity Press, Cambridge, UK, 2007.