Le abominevoli cronache
di Colonia Dignidad


Lola Larra

Sprinters
Una storia di Colonia Dignidad
Traduzione di Marta Rota Nuñez

Illustrazioni di Rodrigo Elgueta
Edicola Ediciones, Ortona, 2021
pp. 275, € 18,90


Lola Larra

Sprinters
Una storia di Colonia Dignidad
Traduzione di Marta Rota Nuñez

Illustrazioni di Rodrigo Elgueta
Edicola Ediciones, Ortona, 2021
pp. 275, € 18,90


Colonia Dignidad: un’impostura. Un nome che finge una promessa di vita onesta. Ignorandone la vera natura, solo a pronunciarlo, sembra indicare un mondo dove camminare a testa alta, fieri della propria limpida morale e dei sani principi che la ispirano. Invece no, Colonia Dignidad, era un inferno, un abominio, un mondo malato, un mondo a parte, o meglio una parte del nostro mondo. Colonia Dignidad esiste ancora, anche se diversi cambiamenti sono intervenuti rispetto ai suoi “tempi d’oro”, a partire dal nome: oggi si chiama Villa Baviera, un brand refresh in termini di marketing.
Molte verità, tutte terribili e documentate, sono venute fuori nel tempo, ma non tutti i fatti che vi sono avvenuti sono a oggi del tutto chiariti.  Sulle certezze e sulle zone d’ombra tuttora persistenti si basa Sprinters, il libro scritto dalla cilena Lola Larra, pseudonimo di Clara Larraguibel. “Colonia Dignidad è un caso aperto che si rifiuta di essere chiuso, un groviglio che compare e ricompare, di continuo”, precisa l’autrice nella preziosa nota all’edizione italiana, La contraddizione di scrivere un romanzo documentario. Cilena, infatti, è anche Colonia Dignidad fondata nel 1961 nella precordigliera di Parral da un nazista, un ex militante della Gioventù Hitleriana, in seguito medico al servizio della Wehrmacht: Paul Schäfer. Lui era il capo assoluto, un Führer in sedicesimo, contornato da un gruppo di gerarchi, alla guida di quella che di fatto era una setta dai connotati parareligiosi composta da una comunità di emigrati tedeschi in Cile, isolata dal mondo (filo spinato, recinti telecamere) e posta in regime di isolamento all’interno stesso di Colonia Dignidad, il cui nome, sarà già più chiaro ora, suona come uno sberleffo, di quelli che ai nazisti piacevano tanto (ricordiamoci di “Arbeit macht frei”).

Chi vi risiedeva? Gente con capelli biondi e occhi azzurri perlopiù, con un’istruzione ridotta al minimo, operosi abitanti di casette in stile bavarese in un angolo sperduto del Cile. Le donne solo con le donne, gli uomini solo con gli uomini e i bambini solo con i bambini, separati dai genitori sin dalla nascita e affidati alla comunità, agli zii e alle zie, come si diceva degli adulti, mentre il leader maximo era noto come Zio Paul, lo Zio Permanente. I bambini: ecco il primo innominabile delitto. Schäfer era un pedofilo e proprio perché già incriminato di violenza nei confronti di bambini era fuggito dalla Germania. Di quali misfatti si sia macchiato ai tempi del Terzo Reich lo si può solo immaginare, ma il meglio di sé lo diede in Cile, dove esportò fanatismo e perversione. Era temutissimo. Sorvegliati e puniti, i coloni ignoravano tutto del mondo esterno e lavoravano dodici/quindici ore al giorno con abnegazione e dedizione al loro leader.
Ecco la dichiarazione di una ex-colona, riportata in Sprinters:

“Io non ho mai desiderato andarmene, per me le condizioni economiche erano giuste: lavoravo senza ricevere niente, perché mi davano da mangiare, mi lavavano e rammendavano i vestiti, e quando qualcosa si rovinava lo sostituivano, e per le persone anziane c’era, per esempio, il giardino dei pini, dove portavano chi non poteva più lavorare.  Quando sono uscita da lì, parlando con gli altri e facendo mente locale, mi sono ricordata che firmavo un libro che diceva che la giornata lavorativa era di otto ore, ma in verità io ho lavorato quindici ore al giorno per quindici anni più o meno, e gli ultimi tre anni iniziavo alle otto del mattino e lavoravo dodici ore al giorno. Noi adulti stavamo separati dai bambini. I bambini vivevano divisi in gruppi a seconda dell’età. Non avevo nessun’influenza personale sui miei figli”.

All’ingresso di Colonia Dignidad mancava solo la famigerata scritta (Arbeit macht frei), con la differenza che vi si giungeva per libera scelta e non sotto la minaccia delle armi. Un terra promessa (bizzarro corto circuito logico) per ariani dediti alla conservazione della razza pura, imparentati sempre più strettamente tra di loro. In caso di dissidenza o semplice rifiuto, si utilizzavano metodi coercitivi e droghe, in particolare sui ragazzini riluttanti nei confronti dello Zio Paul. L’unica apertura verso l’esterno fu finalizzata all’ampliamento del numero di bambini disponibili nella colonia e quindi per Schäfer. Grossomodo in concomitanza con la presa del potere da parte di Pinochet, la colonia si assunse l’onere di far trascorrere periodi a scopi didattici ai figli dei contadini cileni della zona. Non occorre aggiungere altro.

Alcune delle illustrazioni di Rodrigo Elgueta per Sprinters, una parte integrante del racconto.

Si iniziò a indagare su Colonia Dignidad soltanto a metà degli anni Novanta e fuori dai confini nazionali si ignorò a lungo della sua stessa esistenza. È stato grazie a un film di produzione internazionale se il caso è diventato relativamente noto: Colonia (2015), diretto da Florian Gallenberger e interpretato da Emma Watson, Daniel Brühl e Michael Nyqvist. È l’unico merito di un film per il resto dimenticabile, le cui vicende sono ambientate ai tempi della dittatura di Pinochet, ed ecco il secondo delittuoso peccato di cui si macchiò Colonia Dignidad. Ai tempi di Pinochet venne utilizzata dalla DINA, la famigerata polizia segreta cilena. Fu ammirevole l’ospitalità di cui godettero quegli aguzzini nei sotterranei della colonia che nascondevano anche un vero e proprio arsenale d’armi d’ogni genere.
Per la cronaca, l’omertà iniziò a scricchiolare e le denunce ad aumentare a partire dal 1997. Schäfer fuggì in Argentina e nel 2005 venne arrestato e condannato per omicidio, abusi sessuali su minori, possesso di arsenale e tortura. Morì in carcere nel 2010. Un Führer in sedicesimo si è detto, e infatti anche il suo mostruoso personaggio inizia a moltiplicarsi nell’immaginario contemporaneo. A fine 2019 è stata prodotta anche una serie televisiva (produzione cileno-tedesca) intitolata Dignity che ritorna su quelle tristi vicende. D’altronde l’immaginario contemporaneo pullula di nazisti. Nella serie Hunters per esempio, si racconta di un team dedito a scovare e giustiziare nazisti impuniti a spasso negli Stati Uniti grazie a saldi legami con il potere a stelle e strisce. Al termine della prima e al momento unica stagione si viene sbalzati in Argentina nella villa che ospita uno dei criminali di guerra già comparso nelle puntate precedenti e al suo fianco Adolf Hitler in persona, anziano e ancora assetato di sangue.

È il vero spettro che continua ad aggirarsi non solo in Europa ma in tutto l’Occidente. L’idea che il Führer sia sopravvissuto alla presa di Berlino e fuggito per continuare a ordire piani criminali, è sorta sin dall’immediato dopoguerra e continua a fare capolino in storie assai diverse per taglio e finalità. Si iniziò con uno strano libro pubblicato a Roma nel 1948 da anonimo, La distruzione del mondo? Hitler prepara… e da allora si sono intrecciate ipotesi complottiste, riletture in chiave ufologica, mentre al cinema in anni recenti, i nazisti si sono trasformati in zombie (Overload di Julius Avery, 2018) e lo stesso Hitler lo si è rivisto in una base lunare fortificata a cavallo di un dinosauro più folle e sanguinario di prima alla ricerca dell’immortalità (nel dittico del regista finlandese, Iron Sky, Timo Vuorensola, 2012, 2019). Sotto sotto, affiora la convinzione che il male nella sua banalità sia invincibile. In ogni caso, a narrare in modo assai più originale e al tempo stesso a dipingere un quadro verosimile della vita a Colonia Dignidad ci ha pensato Larra con il suo Sprinters dopo averci rimuginato non poco. “Ho cominciato a interessarmi al caso di Colonia Dignidad circa vent’anni fa”, scrive sempre nella nota all’edizione italiana. Una storia ambigua non poteva che tradursi in una narrazione ibrida, mantenendo difatti le varie possibilità che aveva di fronte quando iniziò a scriverne, ipotizzando “una cronaca, un libro di non-fiction, una sceneggiatura per il cinema oppure un romanzo. Alla fine, Sprinters ha un po’ di tutto questo” (ibidem).
È l’aspetto interessante e distintivo del libro, che probabilmente, considerato l’argomento, avrebbe in ogni caso catturato l’attenzione, e invece si fa apprezzare anche per la qualità della scrittura e per le soluzioni miste adottate: racconto letterario, storyboard e documenti ufficiali, un mix di testimonianze, atti giudiziari e verbali di polizia. Una docufiction corale, misurata nei toni e calibrata nei ritmi. Tutto ruota intorno alla morte realmente accaduta a metà anni Ottanta di un bimbo, Hartmut Münch, e sulle versioni contraddittorie dell’episodio:

“Nel parlare della sua morte, nessuno riusciva a mettersi d’accordo: le infermiere che l’avevano assistito in ospedale e i gerarchi spiegavano che era stato un incidente, che era caduto da un pick-up e si era spaccato la testa. I genitori dicevano di non saperne nulla, di non aver nemmeno visto il cadavere. I bambini presenti il giorno della sua morte, gli sprinters di Schäfer, quella corte di adolescenti che il leader utilizzava come fattorini di giorno e che di notte violentava, assicuravano che qualcuno aveva sparato ad Hartmut durante una battuta di caccia. Ma anche le loro versioni erano discordanti. Alcuni giuravano che a sparare fosse stato Schäfer. Altri erano convinti che il colpevole fosse un militare in visita, un uomo chiamato Contreras. Chi di loro mentiva? Chi diceva la verità? Un solo fatto e così tante versioni. La morte di Hartmut Münch era l’emblema dell’impossibilità di raccontare Colonia Dignidad”.

Una volta di più, le consuete astuzie del reale ci conducono per vie insospettabile nei territori della finzione. Di fronte alle molteplici versioni di questa tragedia sembra di ritrovarsi ad assistere alle celebri variazioni sul tema di Rashomon (1950) svolte da Akira Kurosawa e la medesima incertezza permane anche al termine del resoconto/romanzo di Lalla. Il cinema ha dei legami forti con il libro di Lalla e non solo perché la vicenda, come riportato sopra, era stato materiale per un film (o un docufilm). Nella versione definitiva di Sprinters, l’idea cinematografica riaffiora nella forma di uno storyboard (come accennato prima) disegnato da Rodrigo Elgueta, per un ipotetico film sulla fuga di due ragazzi da Colonia Dignidad.

Non è l’unica soluzione convincente adottata da Larra per costruire questo difficile e tormentato racconto. Altrettanto riuscito è il passaggio che lei stessa compie trasformandosi in personaggio della storia. Una scelta davvero elegante, sintesi felice fra il travaglio dell’autrice in cerca di una soluzione narrativa, del bandolo della matassa, insomma, e la necessità di un personaggio in grado di guidarci nei gironi infernali di Colonia Dignidad. Cosicché, fattasi personaggio in Sprinters Larra ritorna tra i coloni dopo un tentativo compiuto anni prima di realizzare un film su di loro e qui entra in scena la vera protagonista femminile del racconto, una colona mai sfiorata dall’idea di andarsene, o meglio di fuggire, come altri abitanti di Colonia Dignidad provarono a fare anche nella realtà. Lei si chiama Lutgarda e a modo suo inizierà un’inchiesta sulla morte di Hartmut fino a scoprire la (possibile) agghiacciante verità. Una donna al centro di una vicenda tutta maschile (carnefici e vittime), una scelta motivata da Larra con estrema lucidità:

“Per me era importante che la protagonista fosse una donna, perché mi permetteva di situarmi nel punto di vista degli esseri più invisibili della comunità tedesca. Quando si racconta la colonia, la narrazione ruota sempre intorno agli uomini, che siano i cattivi (Schäfer e i gerarchi) o le vittime (i bambini abusati, i de- saparecidos della dittatura, i coloni fuggiti). Le donne sono sempre state messe in terzo o quarto piano, lasciate in un angolo, trattate «peggio delle galline, perché non fanno nemmeno le uova», come si diceva nella colonia. E poi, era imprescindibile che fosse qualcuno che abitasse ancora lì. Che parlasse dall’interno. Che avesse deciso di rimanerci pur conoscendo gli orrori che avvenivano là dentro. E che fosse riuscito a mantenere, nonostante tutto, una luminosità e una ragionevolezza molto speciali”.

Lutgarda è un compendio della vita all’interno di Colonia Dignidad, un misto di rassegnazione, di sopportazione, di condivisione e senso di appartenenza alla comunità, solitudine, ignoranza e incoscienza. Al contrario di sua sorella, fuggita dalla colonia, lei non è mai andata via, non ha lasciato la sua casa, il suo orizzonte segnato da un muro, quello che circondava la struttura. Quando i mis/fatti iniziano a essere di dominio pubblico e la facciata bonaria di comunità dedita all’avicoltura e svariate sane attività artigianali inizia ad andare in frantumi,

“quando è iniziato il tramonto della colonia, come lo chiama lei, quando le cose hanno cominciato a mettersi male, quando li hanno aggrediti, quando quelli di fuori hanno voluto distruggere tutto quel che loro avevano costruito in quasi quarant’anni, tutti i coloni sono stati chiamati ad avvicinarsi al muro per adempiere al loro dovere di proteggere la comunità. Da fuori li stavano attaccando, avevano detto gli zii. Si sentivano come gli abitanti di quelle antiche città assediate, solo che questa volta ad accampare fuori non erano soldati, ma feccia della peggior specie: giornalisti, comunisti, traditori, avvocati. I coloni avevano vegliato per giorni e notti intere, avevano acceso candele, pregato in ginocchio, cantando, emozionati, come in trance”.

Lutgarda non ha dubbi, sa da che parte schierarsi, se non fosse per quella piccola tomba senza nome, l’unica anonima che ospita le spoglie del piccolo Hartmut e un terribile segreto. Resta da dire che pur affrontando temi anche scabrosi, Lalla/autrice riesce a mantenere una delicatezza nell’esposizione dei fatti, senza indugiare su particolari. Fatti sui quali è anche consapevole di esprimere soltanto punti di vista, come confessa Lalla/personaggio a un certo punto:

“Ho cercato di non tradire la verità. Però ho anche mentito. Riassumere e sintetizzare implica mentire, in un modo o nell’altro”.

Se fosse pura fiction sarebbe coinvolgente, ma qui si è oltre: nel suo intreccio di cronaca storica e invenzione letteraria, Sprinters è un’opera che incide l’anima nel profondo.