L’immagine del buco nero: recenti distopie pop


Uno dei concetti fondamentali su cui la fantascienza ha riflettuto come canale d’accesso alle dimensioni parallele è quello di buco nero, che indica un fenomeno di natura astrofisica ma che, già nella formulazione scientifica di John Wheeler, esprime un problema di comunicazione. Per individuare un buco nero è necessario che un fascio di luce possa superare il suo confine, detto “orizzonte degli eventi”, e che in tal modo testimoni l’esistenza stessa dell’oggetto da cui emana. Dunque il buco nero è riconoscibile in negativo solo come luogo della non comunicazione, ovvero come luogo che non è in grado di comunicare la sua stessa esistenza.
Nell’ipotesi del buco nero, la massa di una stella cresce costantemente sino al livello d’esaurimento dell’energia che la alimenta. La massa, a quel punto, collassa su sé stessa. In una situazione di densità infinita è massima la deformazione temporale che è funzione diretta della gravità di un corpo e quindi della sua massa. Così, in prossimità di una stella, la deformazione temporale è maggiore di quella terrestre, ma solo se si aumenta il volume di un corpo all’infinito si ottiene una deformazione infinita.
Quando una stella giunge alla sua massima espansione e consuma tutto il suo combustibile, implode a causa del peso imponente della materia che la compone.
Nel collasso gravitazionale la stella si contrae e la sua densità tende all’infinito. Se la contrazione spaziale della stella supera il raggio di Schwarzschild che delimita l’orizzonte degli eventi, la densità diventa infinita, quindi anche la gravità e con essa l’effetto di deformazione temporale. La stella si trasforma così in un buco nero e raggiunge la fine del tempo.
Secondo Stephen Hawking se un astronauta dovesse entrare in un buco nero raggiungerebbe immediatamente la regione della fine del tempo (cfr. Hawking, 2016). Come l’astronauta nello psichedelico finale di 2001 Odissea nello spazio, il cybernauta, immerso negli infiniti spazi abituali dell’informazione, dispone di tutto il tempo in modo orizzontale. Il tempo è spazializzato nel senso che ha un valore meramente posizionale, come del resto insegna anche la relatività einsteiniana, nel superamento della distinzione classica tra tempo e spazio.

Il buco nero è anche l’apogeo o lo stadio terminale dell’entropia di una stella. Se in vari film di fantascienza si è fatta una certa allusione a questo oggetto dell’astrofisica, da pochi anni esso è diventato un espediente narrativo per sviluppare nuovi racconti distopici.
Il film Donnie Darko (2001) di R. Kelly ha messo in scena l’esperienza allucinata di un giovane teenager americano degli anni Ottanta, il cui delirio incrocia e sovrappone alcune ardite teorizzazioni astrofisiche su buchi neri e presunte dimensioni parallele. Dunque la schizofrenia come fenomeno socioculturale che entra in contatto, nella dimensione dell’immaginario, con altri discorsi attinenti a domini scientifici differenti, ma anche come il prodotto stesso dell’integrazione tra questi sistemi.
Ci troviamo oggi dinnanzi a un nuovo paradosso: la scienza prima e la tecnologia poi, hanno mostrato la vacuità della pretesa universalistica del paradigma meccanicista e positivista. Se la scienza ha smontato quel modello dimostrando la profonda discontinuità dello spazio-tempo, la cui natura muta al mutare di molteplici variabili, la tecnologia ha trasformato profondamente quel sistema appercettivo grazie al potenziale della simulazione digitale, dell’interattività e della telepresenza.
Se Donnie Darko gioca con la metafora scientifica, Interstellar (2014) eleva il racconto filmico al rango di una teoria definitiva sulla scienza e sui fini dell’umanità. Filosofia della scienza, teoria delle catastrofi e un’indagine sulla natura umana che muove ben al di là dei modesti obiettivi delle scienze sociali, sono gli strumenti teorici attraverso cui Christopher Nolan edifica una nuova escatologia totalmente laica.

Al centro dell’opera c’è la crisi del nostro tempo che esautora l’uomo dal suo posto al centro dell’universo. Dapprima l’idea dei fantasmi che assillano l’infanzia della figlia di Cooper, retaggio di una concezione arcaica a cui il nonno non nega un certo sostegno. Poi invece l’ipotesi degli alieni che per lo sparuto gruppo di scienziati della NASA avrebbero potuto guidare l’umanità verso la salvezza. La crisi del nostro tempo è al contempo valoriale e pratica. Una società post-crescita ha totalmente rinnegato il sistema di valori alla base della società industriale per concentrarsi sul ritorno alla terra e al sangue. Persino le imprese aerospaziali, che avevano celebrato la superiorità degli Stati Uniti e dell’Occidente, sono rilette in chiave di un negazionismo anti-sviluppista che insegna agli studenti una verità alternativa sulla storia: le imprese della NASA erano solo un costoso espediente per vincere simbolicamente il confronto con l’URSS.

Scenario apocalittico di partenza
Come nello scenario disperante narrato dal film The Road di John Hillcoat (2009), anche qui una catastrofe ambientale indefinita s’abbatte sul pianeta distruggendo le ultime riserve agricole mentre le tempeste di sabbia rendono l’aria irrespirabile. Proprio con quella sabbia sarà scritto il messaggio che consente di scoprire la base di lancio da cui partirà l’impresa. Micheal Caine, abituè dei migliori racconti distopici da I figli degli uomini di Alfonso Cuaròn (2006) a Inception dello stesso Nolan, questa volta interpreta la parte di uno scienziato alla ricerca della formula che consente di controllare la gravità e dunque il tempo. Egli elabora due piani di salvataggio per la razza umana: il piano A prevede l’evacuazione dei cittadini americani su un pianeta simile alla terra; il piano B invece la semplice ripopolazione dello stesso pianeta attraverso la criogenizzazione e la riproduzione assistita. Pertanto a sua detta l’obiettivo non è “salvare il pianeta ma lasciarlo”. Sua figlia, che parte insieme a Cooper e altri due membri, è la dimostrazione pratica di una legge che, sebbene mutuata da una New Age di largo consumo, rappresenta il sostrato stesso di tutta la realtà.
L’amore, che tiene in collegamento esseri distanti anni luce nello spazio-tempo è la legge fondamentale dell’universo di cui la gravità è semplicemente la traduzione in termini funzionali e comunicativi. La legge dell’attrazione incontra Newton ed Einstein ma la visione del regista si sposta su un livello analitico superiore, ben al di là di un semplice panteismo new age. Mentre la stazione spaziale attraversa il tunnel spazio-temporale (il wormhole), la mano di lei incontra quella di un ente che secondo gli scienziati abita un universo a cinque dimensioni e che quasi la saluta nel viaggio verso l’altro capo dell’universo.
La lunga sequenza sull’esplorazione dei pianeti serve solo a drammatizzare la distanza spaziale e la dilatazione temporale talché un’ora passata in prossimità del buco nero corrisponde a innumerevoli anni trascorsi sulla terra. La prossimità all’orizzonte degli eventi serve quasi ad allenare lo sguardo di Cooper sulle cose degli uomini, ma soprattutto dei propri cari e dunque di sé stesso.
Il video con la sintesi di 23 anni di storia di suo figlio fruiti in poche ore condensa in un breve momento una enorme massa emozionale. Anche Inception esplorava la dilatazione del tempo tramite la dimensione introspettiva del limbo: il sonno profondo in cui il tempo raggiunge la sua massima dilatazione. Rispetto a quel mondo esplorato tramite l’introspezione, in cui si edificavano mondi onirici tramite il dream design, qui abbiamo un movimento inverso: l’esplorazione dell’infinitamente vasto che giunge a cogliere la profondità stessa dell’essere attraverso una fusione perfetta tra fisica, tecnologia e psicologia.
La missione è mossa da uno schema evoluzionistico, non solo trovare un ambiente favorevole alla prosecuzione della specie ma anche l’idea che, proprio nel momento più prossimo alla morte l’essere umano può trovare le energie per superare il pericolo. Tutta la missione è stata pianificata da un’idea chiara e semplice: occorre ragionare come specie e non come somma di individui. Un concetto che si palesa tragicamente quando Morph rivela ai membri dell’equipaggio la tremenda menzogna che ha mosso tutta la spedizione: l’inesistenza del piano B. Non c’è un ritorno sulla terra dopo l’esplorazione.
La missione è una scialuppa di salvataggio per i pionieri di un nuovo mondo. L’elemento aleatorio fa precipitare gli eventi verso l’imprevedibile. Per salvare Amelia, Cooper si sgancia dalla navicella e precipita nel buco nero, raggiungendo violentemente la regione della fine del tempo. Una sorta di serendipità estrema per cui quello che era sino a quel momento concepito come l’elemento di disturbo all’espletamento della missione – per il fatto che la deformazione temporale elevatissima elevava lo scarto temporale il tempo d’azione dell’equipaggio e quello terrestre che precipitava inesorabilmente verso la catastrofe.

L’esperienza di n/uove dimensioni
Il gesto eroico di Cooper è premiato dalla rivelazione serendipica che dimostra la veridicità della massima di Johann Christian Friedrich Hölderlin: “Là dove è maggiore il pericolo, maggiore è la salvezza”. Se alcune teorie sui buchi neri sostenevano l’impossibilità di attraversa l’orizzonte degli eventi senza essere dilaniati da una gravità infinita, Cooper compie questa esperienza che gli consente di estendere la sua percezione a una dimensione supplementare. Come caso del quadrato del romanzo Flatlandia di Abbot che fa esperienza della sfera tridimensionale nel suo mondo bidimensionale (giungendo a ipotizzare l’esistenza di n dimensioni) anche Cooper deve capire come operare in una condizione in cui lo spazio-tempo gli si dispone dinnanzi nel lay-out di una libreria fatta di un numero elevatissimo di stringhe.
Dall’altra parte c’è sua figlia in diversi stadi del suo sviluppo.
C’è egli stesso che sta per dirle della partenza nello spazio. C’è l’orologio che le ha lasciato e che diventa lo strumento di comunicazione proprio perché la gravità è la somma forza che attraversa l’universo e che mette in comunicazione le sue parti più remote. Ma la gravità è solo la manifestazione fisica e comunicativa di una forza ancor più essenziale, che tiene insieme le cose distanti. Il viaggio di Cooper è simile a quello di Parmenide che su un cocchio alato giunge al cospetto della Dea che, come ha detto Reiner Schurman, gli insegna il modo di tenere insieme le cose distanti dell’universo (cfr. Schurmann, 1998). Ma se la scoperta dell’essere da parte di Parmenide è mossa da una entità esterna (la Dea), quella di Cooper è ancora più strabiliante. Era lui a far cadere i libri nella libreria che pareva infestata dai fantasmi, come anche era lui a toccare la mano di Amelia Brand, mentre attraversavano il wormhole. Né fantasmi, né alieni, né tantomeno Dio. Lo stadio successivo nello sviluppo dell’umanità avviene nella pura immanenza dell’universo, nella capacità di oltrepassare i limiti dello spazio-tempo.

Sulla falsariga dei due precedenti, la serie americana Stranger Things, offre una definizione ancora più commerciale, quotidiana e pop del concetto di buco nero. Soprattutto la prima serie può essere sintetizzata dalla formula: Donnie Darko + Interstellar + Videodrome = Stranger Things. Nella provincia americana degli anni Ottanta, pervasa dalla TV e dai nuovi consumi, tre (o quattro) ragazzi s’imbattono in vicende assurde determinate dall’apertura di un gate (chiuso nella II stagione dai poteri telepatici di Eleven) a causa di esperimenti segreti che hanno spalancato le porte verso una dimensione parallela. Ovvero in qualche modo il buco nero viene tradotto e innestato nel territorio e nel quotidiano, nella sua variante horror e terrificante. L’upside down è una dimensione essenziale che circonda e completa la realtà fisica e quotidiana e che può essere compreso dai giovani protagonisti tramite la chiave di lettura del gioco di ruolo Dungeons&Dragons.
Se in Interstellar l’immaginario giunge addirittura a elaborare un modello di buco nero che sarà poi ripreso dai fisici per approfondire le loro ricerche, in Stranger Things l’immaginario di D&D è la mappa stessa che consente di interpretare ruoli, strutture e ontologie dell’uspidedown. Per questo in un primo momento la Joyce Byers (madre di uno dei piccoli) viene stigmatizzata come folle (come in Donnie Darko), proprio perché inizia a vedere qualcosa che gli altri non vedono.
L’upside down tiene tutto in connessione, tanto che al suo interno sia il mostro che le vittime possono comunicare in modalità remota (come Copper nel buco nero con sua figlia). La madre riconosce che suo figlio le invia messaggi discreti tramite le interferenze della rete elettrica, che le consentirà di disegnare la mappa stessa dell’uspide down con una sorta di infografica artigianale.
In Stranger Things II la concezione astrofisica dell’uspide down – già precedentemente spiegata dal professore di scienze con l’immagine del foglio piegato in due e bucato da una matita, appunto un wormhole – si unisce a quella sistemico-quantistica che invece racconta di un sistema senziente (un organismo) capace di comunicare in tempo reale ai mostri che lo abitano la geolocalizzazione dei nemici. Se Interstellar e Stranger Things ribaltano la dimensione distopica in un salvifico lieto fine, nel finale di Donnie Darko si comprende come la distopia non ha fine anzi si è già realizzata completamente in precedenza.

LETTURE
––   Reiner Schurmann, Differire il tragico: legge dell’Uno e legge dei contrari in Parmenide, in Aut aut, (283/284), Il Saggiatore, Milano, 1998.

VISIONI
––   Matt & Ross Duffer, Stranger Things, Netflix, 2016/2017.
––   Richard Kelly, Donnie Darko, Mondo Home Entertainment, 2010 (home video).
––   Christopher Nolan, Interstellar, Warner Bros, 2015 (home video).